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Letture, quando riflettere sulla morte significa celebrare la vita

Padre Bormolini, se ci dimentichiamo che dobbiamo morire, sprechiamo la nostra vita

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“Ricordati che devi morire!”

“Mò me lo segno”.

La celebre battuta appartiene al film “Non ci resta che piangere” di Roberto Benigni, in un botta e risposta tra Massimo Troisi e un fratone che richiama la figura di Savonarola. Ed è servita a innescare una serie di riflessioni, nonché a fornirne il titolo, raccolte in un piccolo saggio scritto da Guidalberto Bormolini, appena pubblicato dalle Edizioni Messaggero Padova.

A tutta prima, non sembra davvero una lettura “adatta” per questi giorni post ferragostani e in pieno periodo vacanziero. Eppure…eppure proprio approfittando di un momento di quiete, di interruzione della routine stressante del quotidiano, potremmo finalmente volgere la mente a meditazioni più profonde e totalizzanti, meno superficiali. Il pensiero della morte non è solo mestizia, angoscia, paura. No, spiega l’autore, questo pensiero aiuta invece ad accostarci ancor più pienamente alla vita, a considerarla nel suo valore più autentico. Non è certo rimuovendo l’idea della nostra mortalità che la supereremo. Ma noi occidentali contemporanei sembriamo determinati a rendere la morte l’ultimo, vero tabù sociale ed esistenziale della nostra cultura sempre più decadente. Come se, non parlandone, nascondendola, rendendola asettica, la potessimo esorcizzare. Ma tutta la scienza e la tecnologia non riescono ad eludere il fatto più incontestabile di tutti: prima o poi dovremo morire. 

Padre Guidalberto Bormolini è un uomo fuori dal comune.  Monaco e prete cattolico, maestro di meditazione orientale, liutaio, studioso dei fondamenti teologici dell’alimentazione vegetariana e tanatologo, cioè esperto di ciò che riguarda la fine della vita terrena. E poi scrittore di saggi sul tema, come quello di cui ci occupiamo. “La parola “morte” non viene più detta: le persone ci lasciano, scompaiono, si spengono…”, da sempre sostiene padre Guidalberto. “Cerchiamo in tutti i modi di cancellare la morte ma, se ci dimentichiamo che dobbiamo morire, sprechiamo la nostra vita”.  

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Da alcuni anni, con la onlus Tutto è vita di cui è fondatore, padre Bormolini ha avviato il recupero di un borgo abbandonato nella Valle del Bisenzio, in Toscana, con l’obiettivo di trasformarlo in un villaggio dedicato all’accompagnamento delle persone con diagnosi di malattie incurabili. “Ma non per trattarli da moribondi»” ha sempre ricordato, “perché se si muore già da vivi, come si può sperare di vivere in eterno dopo la morte”.

Il suo è il tentativo, riuscito,  di delineare, e sintetizzare, la grande tradizione religiosa e intellettuale che da sempre sostiene che senza la consapevolezza della morte non c’è la consapevolezza della vita. Oggi abbiamo completamente dimenticato quest’arte, eppure anche autorevoli studi scientifici confermano che ignorare la morte non ne allontana l’angoscia. Semmai ne aumenta il terrore. Padre Bormolini segue il percorso a ritroso, rintracciando quella vena preziosa nascosta nel terreno delle nostre radici: padri della chiesa, santi, mistici anche di altre fedi che hanno meditato sul tema della morte e della vita futura. Sant’Agostino, citato nel libro, affermava: “Tutte le altre cose che ci possono accadere nel bene o nel male sono incerte, solo la morte è certa”.

Altro importante riferimento, messo in primo piano dall’autore, Sant’Alfonso de’ Liguori, che ha scritto addirittura un testo che si intitola “Apparecchio alla morte”, proprio per prepararsi all’atto fondamentale di lasciare questa vita terrena.

Oggi nessuno, o quasi, pensa a questo. Prepararci alla dipartita? Per carità, si scatenano gesti scaramantici. Eppure, non possiamo non fare i conti con questa realtà e soprattutto come cristiani dovremmo sentire acutamente la necessità di non farci cogliere impreparati all’ora fatale. Lo ricordava Gesù stesso, perché “non sapete né il giorno né l’ora”. 

Ma l’occultamento di questa esperienza ineludibile è uno dei cardini della nostra cultura, ricorda padre Bormolini, e soprattutto i giovani la vivono in modo astratto, filtrata dai videogiochi, dal cinema, da tutto quello che gira in rete. Non la percepiscono  come esperienza concreta, reale. Del resto, a parte la spettacolarizzazione, i casi di cronaca nera, le stragi che vengono ossessivamente “mandate in onda”, le persone, nella vita quotidiana,  non muoiono più in casa, con i parenti, con accanto un sacerdote,  ma nella separazione, nelle stanze di ospedali. Quel che è successo con il Covid ha drammaticamente esemplificato questa operazione di occultamento: i malati portati via da casa, messi in isolamento, e per alcuni la morte è avvenuta nella solitudine, nel terrore.

E in fondo quel “Mo’ me lo segno” del film di Benigni indica in modo scherzoso una via da praticare: il ricordarsi di pensarci sopra. Di meditare, secondo la tradizionale scuola del “memento mori”, una tecnica di liberazione, la definisce Bormolini. “La consapevolezza della morte rende eticamente coscienti di ogni atto. Inoltre la comprensione della propria debolezza e della propria mortalità è la condizione che rende capaci di provare compassione”, spiega l’autore.

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La meditazione sulla morte, dunque, porta diritti alla meditazione sulla vita, sul suo senso più autentico, ci ricorda che dobbiamo viverla il più intensamente possibile, come un dono, che si esaurirà, per aprirsi a qualcosa di ancora più grande.

Guidalberto Bormolini, Ricordati che devi morire!, Edizioni Messaggero Padova, pp.99, euro 8,50