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Missionarie della Consolata. "In missione amando e sperando insieme alla gente"

Intervista a Suor Lucia Bortolomasi, Missionaria della Consolata

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Fondate a Torino nel 1910 dal Beato Giuseppe Allamano, le Missionarie della Consolata sono oggi presenti in 4 Continenti: Africa, Asia, America ed Europa. La loro straordinaria "famiglia internazionale" annuncia Cristo come una vera consolazione. Ma come continuano le missioni con la minaccia del Covid19 Chi sono queste suore che con impegno e amore partono per annunciare Cristo e aiutare chi ha davvero bisogno anche nell'altro capo del mondo?Suor Lucia Bortolomasi, Missionaria della Consolata, risponde ad ACI stampa.

Le Missionarie della Consolata, chi sono, quante sono e soprattutto cosa fanno?

Siamo una piccola congregazione di vita religiosa a carattere esclusivamente missionario, di fondazione italiana. Siamo state fondate a Torino, nel 1910 dal Beato Giuseppe Allamano, sacerdote di quella diocesi, che prima di noi fondò i Missionari della Consolata, nel 1901. L’Allamano ideò i suoi missionari e missionarie come un piccolo istituto missionario ad gentes, ossia per i non cristiani, per l’annuncio di salvezza e di consolazione. Oggi noi Missionarie della Consolata siamo 535, proveniamo da 16 nazioni di tre continenti – Africa, America e Europa - e viviamo in 17 nazioni di 4 continenti – Africa, America, Asia, Europa. Il nostro Fondatore nelle lunghe ore di contemplazione della Madonna Consolata nel Santuario di Torino pensò alle sue suore missionarie. Come Maria, consolata da Dio si rende pronta a portare il messaggio dell’annuncio di Salvezza, così le Missionarie della Consolata partono per andare a portare Cristo, vera consolazione. Ed è proprio la Consolata che qualifica il nostro stile di missione, un modo di entrare in relazione con Dio e con la persona. Per questo la nostra missione è quella di essere vicine alla persona e di impegnarci a creare rapporti vitali con la gente a partire da uno stile di vita semplice e familiare. Non siamo nate per le grandi strutture o grandi opere, non siamo state fondate per realizzare grandi progetti, siamo chiamate da Dio a servire la persona in un rapporto umile, disinteressato, gratuito, prendendoci cura della persona in tutte le sue dimensioni e portandola a Dio.

Che cosa significa essere missionarie in tempo di pandemia?

Essere missionarie in tempo di pandemia significa sicuramente sentirci in comunione con tutta l’umanità. Significa, aprire il nostro cuore per essere a fianco di chi soffre portando un po' di consolazione. Siamo vicine a chi lotta contro la malattia, a chi ha perso i propri cari e a quanti vivono i disagi dell’isolamento fisico. Ascoltando, amando e sperando insieme alla gente. Vivere da missionarie in questo tempo vuol dire metterci davanti all’Eucarestia per pregare, supplicare il Signore della Vita che doni forza e speranza al mondo intero, colpito dalla pandemia. Ci sentiamo chiamate a vivere e donare amore agli altri. La pandemia ci ha insegnato a vivere l’essenziale, a comprendere che tutto passa, ciò che rimane è solo l’amore, il bene che abbiamo dato e ricevuto. La pandemia ci sta misteriosamente insegnando che dobbiamo andare in profondità e non accontentarci della superficie.

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Nel vostro sito sono elencati davvero tanti progetti che avete realizzato nel mondo. Quali sono quelli a cui state lavorando di più e che sono urgenti?

In questi ultimi anni ci stiamo aprendo maggiormente all’Asia. Dopo una prima presenza in Mongolia, stiamo iniziando due nuove missioni, una in Kazakistan e una in Kirghizistan. Presenze piccole, semplici ma significative, in cui si condivide la vita con la gente. Per noi è importante che la gente possa trovare in noi ascolto, sostegno, un po' di consolazione; magari non riusciremo a risolvere tutti i loro problemi, ma sapranno che noi siamo lì perché vogliamo loro bene, perché Dio è venuto per tutti e vuole raggiungere il cuore di ogni persona, soprattutto della persona che ha il cuore spezzato, per donare speranza e quella luce profonda che nessuno potrà spegnere. Ci stiamo accorgendo sempre più che la gente che si avvicina chiede da noi un senso diverso alla vita: non basta avere cose, soldi, successo, occorre donare un significato più profondo alla vita, un significato per cui vale la pena vivere e che ci rende felici al di là della situazione in cui siamo chiamate a vivere.

C’è stata una storia, una persona, un episodio che vi ha segnato particolarmente durante una delle vostre missioni?

Una delle grazie più grandi che ho ricevuto e di cui ringrazio il Signore è di essere vissuta 14 anni in Mongolia. Potrei raccontare tanti incontri, tante storie; mi soffermo su una delle cose più belle che ho imparato in Mongolia. In Mongolia ho sperimentato davvero che il Vangelo è realmente una “notizia bella” che cambia la nostra vita se lo lasciamo entrare, che vale la pena donare la vita perché altri possano vibrare e far esperienza dell’amore. Le persone che si sono avvicinate alla fede mi hanno insegnato ad avere quella fede semplice, ma profonda. Ciò che maggiormente colpisce la gente è la misericordia del Signore, che sempre perdona e rialza dopo le cadute. Accompagnare un popolo all’incontro con Gesù richiede da parte nostra ascolto profondo di ogni persona, di cercare di essere il più trasparenti possibile, di andare all’essenziale della fede e anche questa, per me, è una grande grazia. Sì, sperimentare tutta la propria inadeguatezza e lasciar spazio all’azione del Signore è uno stare sempre più unito a Lui in favore di tutti. Un incontro che non dimenticherò mai è stato quello con Battogoo, vedova due volte e non ha ancora 35 anni; il primo marito se l’è portato via il gelo una notte d’inverno, il secondo la disperazione che fa scegliere la morte come soluzione finale. Eppure lei cammina con dignità e coraggio in questa vita e ha trovato la forza nella fede. Inizia le sue preghiere spontanee sempre ringraziando il Signore per questa “meravigliosa giornata”, che magari si è appena aperta con poco carbone da mettere nella stufa o con la consapevolezza che non avrà abbasta cibo da dare ai suoi figli. Eppure per lei quel nuovo giorno è “meraviglioso”. Queste sono le perle che mi porto in cuore.

Come si diventa missionarie. Una ragazza di oggi cosa deve fare per intraprendere questa vocazione?

Non ci sono dubbi, la missione richiedeva suore ben formate e mature a livello umano e spirituale, esigeva un cammino serio verso la santità, aspetto indispensabile per vivere la vocazione missionaria. In linea con questo pensiero, l’itinerario formativo che proponiamo alle giovani è un cammino lungo e serio. Quando la giovane desidera intraprendere questa scelta vocazionale, c’è un primo periodo di accompagnamento in cui continua normalmente la propria vita con incontri saltuari in una nostra comunità, accompagnata da una sorella. per avere l’opportunità di conoscerci reciprocamente. Dopo un periodo di accompagnamento, la giovane è ammessa alla prima fase della formazione iniziale che comprende circa 5 anni in cui è accolta in una nostra comunità affinché possa continuare il cammino di fede, di conoscenza di sé e conoscenza dell’Istituto. Durante questo periodo, dopo il primo anno di orientamento vocazionale, si offre una formazione Teologico- pastorale affinché la giovane possa crescere nella fede sulla quale fondare i valori della vita consacrata per la missione. Dopo questi primi anni di formazione, e un anno di postulandato, se la giovane è intenzionata a seguire la chiamata alla consacrazione, entra nel noviziato internazionale in Italia per poter fare esperienza delle nostre radici carismatiche e approfondire la dimensione umana, spirituale e apostolica che la prepara alla professione religiosa. Al termine del noviziato durato 2 anni, la novizia che ha scelto liberamente di far parte della nostra Famiglia religiosa missionaria viene ammessa alla Prima professione con l’emissione dei voti. Tra la prima professione e la professione perpetua, la professa viene orientata a unificare la sua vita di unione con Dio e la missione, in quanto durante questo periodo riceve la destinazione missionaria e quindi viene inserita pienamente nella missione ad gentes, fuori dal proprio paese di origine.

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In risposta alla sfida lanciata dalla diocesi di Bafata della Guinea Bissau di diventare una “Chiesa in uscita”, come il papa invita, le Missionarie della Consolata presenti a Empada si sentono spinte ad andare oltre ai limiti della missione dove svolgono attività di evangelizzazione, di assistenza e promozione umana. Quindi hanno pensato di formare due o tre equipe di laici, che conoscono bene la cultura del paese, dare a loro una buona formazione per poi inviarli ai villaggi che non hanno ancora ricevuto il primo annuncio del Vangelo. Per uscire dalla città, non avendo altri mezzi di trasporto, necessitano di biciclette e motorette per raggiungere queste comunità di persone desiderose di fare un cammino di fede. Questo progetto come altri, testimonia che non è necessario avere grandi strutture e mezzi, ma ciò che è importante è raggiungere la gente e offrire a loro la cosa più importante che abbiamo: l’amore di un Dio che si è fatto piccolo nella semplicità per essere vicino ad ogni persona per amarla e per dare un significato profondo alla vita.