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Morire al proprio egoismo per vivere nell’amore. V Domenica di Quaresima

Il commento al Vangelo domenicale di S.E. Monsignor Francesco Cavina

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Il Vangelo di questa quinta domenica di Quaresima ci propone una meditazione sul significato e l’importanza della Croce di Cristo. Ci troviamo ad appena una settimana dalla morte di Cristo e alcuni simpatizzanti ebrei di origine greca che si trovano a Gerusalemme rivolgono a Filippo e Andrea la richiesta di potere vedere Gesù. Questo gruppo di greci, che si erano avvicinati al Dio di Israele, rappresentano i popoli della terra che saranno attirati a Cristo dalla fecondità del suo sacrificio. Gesù stesso, infatti, affermerà che una volta innalzato sul patibolo della croce, attirerà tutti a sè, perché  l’uomo non rimane insensibile “a tanto amore” di Dio nei confronti dell’umanità.

E poiché Gesù muore per amore la sua è una morte feconda. Infatti, dall’offerta della sua vita miliardi di uomini e donne saranno salvati e guardando al Suo sacrificio riusciranno a dare un senso alla sofferenza e alla morte. Gesù sembra non prestare ascolto alla richiesta dei greci, ma in realtà egli va al fondo del loro desiderio introducendo il tema della sua “ora”, la quale si identifica con la sua morte in croce. In quell’ ora in cui Cristo dona liberamente la sua vita si rivela il suo  amore assoluto ed incondizionato per il Padre e gli uomini.

Cristo paragona la sua vita a quella del chicco di grano che per portare frutto abbandonante deve, una volta caduto nella terra, scomparire. Dice che la vera vita sta nel morire. Si tratta di parole che ci appaiono assurde, paradossali, ma in realtà rivelano una verità che è evidente per tutti coloro che amano. La vera morte non è quella fisica, ma l’incapacità di amare, di donare e di “perdere” se stessi per coloro che si amano, perché questa è la legge della vita: morire al proprio egoismo, che rende sterile l’esistenza, per vivere nell’amore.

La certezza della fecondità dell’amore, del donare la vita non impedisce a Gesù di sentire l’angoscia per la sua morte fisica. Il pensiero che per vivere è necessario subire il destino del chicco di grano nella terra, lo turba profondamente. Gli  evangelisti ci dicono che Gesù è stato tentato di fare ricorso alla sua divinità per non dovere sottostare alla condizione di fragilità della vita umana (cfr Mt 4,11; Mc 14,32). Ma Egli supera questa tentazione riaffermando ostinatamente la sua fedeltà alla volontà del Padre. Anche noi, come Cristo, di fronte all’enigma del dolore e della morte possiamo vacillare ed essere tentati di ripiegarci su noi stessi, ma la fede ci aiuta e ci insegna a volgere il nostro sguardo verso il Cristo crocifisso e risorto perché Lui è l’aiuto, la compagnia e il sostegno per potere continuare a sperare nella prova. La morte e la sofferenza sono un male, ma Gesù dà ad esse un significato nuovo: uniti a Lui esse non sono distruzione e annientamento, ma via per partecipare alla sua gloria. Lui è il solo  che dalla morte è capace di fare risorgere la vita.

Scriveva san Francesco di Sales: “ Le notti sono dei giorni quando Dio è nel nostro cuore, e i giorni sono delle notti quando Egli non vi è”. Lasciamo che il Signore, con la sua presenza, illumini la notte del nostro dolore. Infatti, senza il Signore tutte le iniziative umane, per quanto ben organizzate, risultano inefficaci perché l’uomo porta con sé delle domande che ineriscono l’essere e non l’agire e che conducono a riflettere non su che cosa fare, ma su chi siamo. Solo quando Cristo viene sulla riva del mare della nostra vita i nostri fallimenti, le nostre fragilità, i nostri peccati, la nostra morte assumono una luce nuova. Se Lui ci custodisce non abbiamo nulla da temere, mentre se Lui è assente non abbiamo più nulla da sperare.

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