In questa domenica, la Chiesa celebra la festa della dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano. Forse qualcuno potrebbe pensare: “Ma che c’entra con noi, che viviamo lontano da Roma?”. Questa festa ci riguarda da vicino, perchè la Basilica di San Giovanni in Laterano è la cattedrale del Papa, il Vescovo di Roma. È la chiesa più antica del mondo cristiano: fu costruita nel IV secolo dall’imperatore Costantino e sulla facciata porta scritto: “Omnium urbis et orbis ecclesiarum mater et caput” — cioè “madre e capo di tutte le chiese di Roma e del mondo”. Questo ci ricorda che la Chiesa non è solo la nostra comunità, ma una grande famiglia che è diffusa su tutta la terra, unita intorno al Papa, successore dell’apostolo Pietro.
Le parole della prima lettura della santa Messa, tratta dal libro del Siracide sono come una luce che si accende nel buio; sono un balsamo per i cuori affaticati, per chi continua a fare il bene e si chiede: “Ma Dio mi ascolta davvero?”. Il testo, innanzitutto, ci dice che “Il Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone.”. In un mondo dove la voce di tanti si perde nel silenzio perchè viene ascoltato solo chi ha potere o forza, la Sacra Scrittura ci assicura che Dio non guarda le apparenze, non si lascia corrompere, non dimentica nessuno. Dio ascolta e ascolta davvero.
La Parola di Dio, oggi, ci invita a meditare sulla preghiera come lotta, impegno e perseveranza. Nella prima lettura, tratta dal Libro dell'Esodo, ci viene narrata la battaglia tra Israele e Amalèk. Un conflitto che si combatte su due fronti: con le armi e con la preghiera.
Il Vangelo di questa domenica ci racconta un miracolo straordinario operato da Gesù: la guarigione di dieci lebbrosi. Un evento che, oltre al fatto storico, racchiude un profondo insegnamento spirituale.
Oggi la Parola di Dio ci interpella duramente. Da un lato il profeta Amos denuncia il benessere egoista, la ricchezza che anestetizza il cuore, l’indifferenza per la sofferenza dei poveri. Dall’altro Gesù, nel Vangelo di Luca, ci narra la parabola del ricco e di Lazzaro, due vite parallele sulla terra, due destini opposti nell’eternità: per il povero Lazzaro la felicità eterna, per il ricco la dannazione eterna. Non perché Dio sia vendicativo o crudele, ma perché la vita — le nostre scelte — costruisce già da ora il nostro destino eterno.
Oggi celebriamo una festa che agli occhi del mondo appare paradossale: l’Esaltazione della Santa Croce. Dobbiamo, dunque, riconoscere che i cristiani festeggiano uno strumento di tortura, di umiliazione e di morte? Come può accadere che un patibolo possa divenire un motivo di speranza e di salvezza? Le letture della santa Messa ci aiutano ad illuminare il mistero della Croce.
La liturgia della Santa Messa di questa domenica, ci propone un brano tratto dalla Lettera di san Paolo a Filemone, una delle sue lettere più personali e intime. La sua lunghezza non supera la pagina, ma è una pagina che ha fatto prima tremare e poi crollare le fondamenta dell’ordine sociale dell’Impero Romano, cambiando per sempre il modo con cui il mondo guarda all’altro, soprattutto agli ultimi. Nel I secolo d.C., la schiavitù era una realtà strutturale della società. Si calcola, ad esempio, che un un terzo della popolazione urbana di Roma fosse costituito da schiavi. Non erano riconosciuti come persone, ma erano considerati come res, “cose”, proprietà assoluta dei padroni. Nessuna legge proteggeva la loro dignità.
Oggi la seconda lettura della Santa messa, tratta dalla Lettera agli Ebrei, ci porta a riflettere su uno dei misteri più difficili da accettare:
La Lettera agli Ebrei oggi ci consegna una definizione di fede tanto semplice quanto radicale: “La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede”.
Il Vangelo di questa domenica prende le mossa da una situazione concreta e quotidiana: una lite tra fratelli per un’eredità. Un conflitto che, ancora oggi, ci suona fin troppo familiare. Ma Gesù non si ferma alla superficie della questione. Con la sua sapienza, trasforma quella richiesta materiale in una riflessione sul valore della vita. Attraverso la parabola che racconta, ci invita a porci una domanda scomoda ma necessaria: “Da cosa credi che dipenda davvero la tua vita?"
La Sacra Scrittura non addolcisce la realtà. Chiame le cose con il loro nome. Parlando di Sodoma e Gomorra afferma, senza giri di parole, che in quelle città il peccato si è fatto sistema, cultura, abitudine. Esse sono divenute la bandiera di una civiltà che scaccia Dio, non si vergogna più del male, anzi lo difende, lo giustifica e lo celebra. San Pietro nella sua seconda lettera parlerà di Sodoma come di un esempio lasciato “per coloro che vivranno empiamente in futuro” (2Pt 2,6).
La parabola del “buon samaritano” ci racconta una storia vera: la storia dell’umanità. C’è una frase che ci aiuta a comprendere questa affermazione è: “Gli si fece vicino”, ossia prossimo. Chi si è fatto prossimo all’umanità? E’ Dio stesso che in Gesù Cristo è venuto tra noi e per il sacramento dell’Eucarestia vive in noi.
Il brano di Vangelo di questa domenica ci presenta Gesù che invia in missione i settantadue discepoli. Non solo i dodici apostoli! Con questa decisione il Signore vuole aiutarci a comprendere che l’annuncio del Vangelo non è affidato solo ai vescovi, ai sacerdoti e ai diaconi ma a tutti i cristiani. L’evangelizzazione appartiene alla vocazione cristiana e trova la sua ragion d’essere nel sacramento del Battesimo, nel quale siamo stati liberati dalla schiavitù del peccato e resi partecipi della vita stessa di Dio.
Oggi la Chiesa celebra due figure fondamentali della sua storia. Due colonne: Pietro e Paolo. Due discepoli di Gesù molto diversi tra loro per origine, carattere e percorso di vita, eppure uniti da una stessa passione: l’amore per Cristo e per la Sua Chiesa.
La Chiesa celebra oggi una delle feste più amate dal popolo cristiano: la solennità del Corpo e Sangue del Signore Gesù, realmente presente nell’Eucaristia, vivo in mezzo a noi nel segno umile del pane. È la festa di un Dio che non si è accontentato di salvarci da lontano, ma ha scelto di restare con noi per sempre, nella forma più quotidiana e disarmante: un pezzo di pane, spezzato per amore.
La Chiesa ci conduce, oggi, al cuore vivo della nostra fede. Ci invita a contemplare il mistero di Dio stesso, così come si è rivelato: un Dio che è Trinità vale a dire comunione eterna di amore. Non si tratta semplicemente di affermare che Dio esiste. Tante religioni lo proclamano. Anche l’Islam crede in un Dio unico, potente, misericordioso. Il cristianesimo va ben oltre: non si accontenta di dire che Dio “è”, ma si chiede: chi è Dio, davvero? Qual è la sua vita intima? La risposta la troviamo nel Nuovo Testamento: Dio è amore” (1Gv 4,8). Dunque, non soltanto “Dio ama”, ma Dio è amore. E l’amore, per essere tale, ha bisogno di un “altro”. Non può essere amore chiuso in sé.
Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti.
Dopo la Risurrezione, il posto di Cristo non è più accanto agli apostoli sulla terra, ma nella gloria eterna di Dio. Per questo motivo, san Luca conclude il suo Vangelo con l’episodio dell’Ascensione: “Gesù si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”. Con queste parole, l’evangelista vuole farci comprendere che il Risorto non è semplicemente tornato alla vita di prima, ma è entrato in una realtà nuova e definitiva: è asceso alla gloria del Padre, portando con sé anche la nostra umanità.
Nel brano di Vangelo di questa domenica, Gesù ci educa su due temi fondamentali della vita cristiana: l’amore per Lui e il dono dello Spirito Santo. Se vogliamo avere la prova che amiamo veramente il Signore dobbiamo innanzitutto chiederci se siamo obbedienti. Se uno mi ama - dice Gesù - osserverà la mia parola, ossia i suoi Comandamenti.
Siamo nel Cenacolo. Gesù, alla vigilia della sua Passione, si rivolge ai discepoli con una dolcezza straordinaria. Li chiama “figlioli”, come farebbe un padre, come farebbe una madre. È un termine pieno di tenerezza, che esprime tutto l’amore premuroso e profondo che prova per loro. È consapevole che sta per lasciarli. Sa che il tempo della sua presenza visibile tra loro sta per concludersi. E proprio ora, in questo momento decisivo, consegna ai suoi il suo testamento spirituale, un comandamento nuovo, che racchiude tutta la sua missione: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri».