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Nella diocesi di Modena è il Signore che costruisce la casa

Il Vescovo di Modena Castellucci |  | Diocesi di Modena Il Vescovo di Modena Castellucci | | Diocesi di Modena

All’inizio della lettera pastorale per l’anno 2016/2017 ‘E’ il Signore che costruisce la casa. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare’, l’arcivescovo di Modena-Nonantola, mons. Erio Castellucci, motiva la scelta del titolo: “Questa Lettera Pastorale è il frutto dell’esperienza e della riflessione di tante persone: singoli, famiglie e gruppi, che in diocesi, nelle parrocchie e nelle case hanno offerto il loro contributo.

E’ il frutto specialmente della pastorale familiare diocesana, molto intensa da anni nella nostra Chiesa e sostenuta da un Ufficio attivo e competente”.  Quindi la chiesa modenese è una casa in costruzione, ma anche bisognosa di restauro, comunque dalle fondamenta e struttura solide e aperta alla comunità civile e religiosa: “La casa a volte richiede dei restauri, anche profondi, specialmente se provata da terremoti e alluvioni. Vi sono delle situazioni che richiedono un’attenzione specifica e specializzata e spesso un’opera di ricostruzione. Il cantiere del restauro, nella nostra diocesi, è in piedi da anni per quanto riguarda l’accompagnamento delle famiglie toccate da lutti gravi, delle vedove e dei vedovi, dei separati, divorziati ed eventualmente risposati o conviventi”.

In particolare l’arcivescovo di Modena si sofferma sull’accompagnamento dei divorziati risposati ai sacramenti, secondo le raccomandazioni scritte da papa Francesco nell’esortazione ‘Amoris Laetitia: “Un cantiere di restauro, forse potremmo dire proprio di ricostruzione, che ‘Amoris Laetitia’ ci chiede di aprire, senza darci soluzioni prestabilite, riguarda le coppie che, sulla base del fallimento del loro precedente matrimonio sacramentale, chiedono da conviventi o sposati civilmente di poter accedere alla comunione eucaristica. E’ bene richiamare in merito alcuni passi che sipossono compiere e che ‘Amoris Laetitia’ non ha reso affatto superati, ma ha poi integrato”.

Riprendendo le indicazioni del direttorio di pastorale familiare del 1993 della Cei mons. Castellucci ribadisce che i divorziati risposati non sono ‘fuori’ dalla Chiesa: “E prima di esprimersi a proposito della ammissibilità ai sacramenti, i vescovi italiani propongono altre considerazioni, che evidentemente ritengono più importanti dal punto di vista pastorale: i divorziati risposati o conviventi sono e rimangono cristiani e membri del popolo di Dio e come tali non sono esclusi dalla comunione con la Chiesa, anche se non si trovano nella pienezza della stessa comunione ecclesiale. E’ un elemento importante, che spesso non viene tenuto in conto: i divorziati risposati o conviventi non sono scomunicati: pur non potendo partecipare alla comunione eucaristica, sono incorporati alla Chiesa”.

Poi sviluppa una riflessione sul recente decreto di papa Francesco: “La recente riforma di papa Francesco nel decreto ‘Mitis Iudex Dominus Jesus’ (2015), oltre a favorire dei processi ordinari più snelli (senza l’obbligo della doppia sentenza conforme) e comunque gratuiti, introduce il processo brevior. L’opportunità più promettente di questa nuova forma non riguarda tanto l’innovazione canonica, che tutto sommato è scarsa quanto al diritto sostanziale – ad esempio papa Francesco non introduce nuovi motivi di nullità – ma riguarda la sua auspicabile integrazione con la pastorale familiare e l’attività del Consultorio: qualora venga intrapresa questa strada, dovrebbe diventare per la coppia un’occasione di accostamento ai percorsi che la diocesi mette a disposizione”.

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A questo proposito mons. Castellucci propone un nuovo accompagnamento alla luce di ciò che è scritto nella recente esortazione apostolica del papa: “Se viene stabilito che il precedente matrimonio è valido, rimane la possibilità di accettare una condizione di partecipazione alla vita ecclesiale che non si esprima anche nella comunione eucaristica – e in questo caso è interamente valido quanto era stato stabilito in precedenza– oppure di intraprendere un percorso che possa sfociare nel riaccostamento alla comunione eucaristica, pur permanendo la situazione di convivenza non sacramentale; possibilità, questa, che rappresenta una novità della ‘Amoris Laetitia’, approvata con stretta maggioranza dai padri sinodali. Papa Francesco preferisce utilizzare anche in questa situazione la categoria di completo/incompleto, anziché quella di regolare/irregolare.

La prima risponde all’idea del tempo, la seconda all’idea dello spazio”. Il vescovo invita ad un cambio di mentalità nell’accoglimento delle persone, elencando le proposte già attive in diocesi: “La sfida pastorale fondamentale risiede dunque nel creare delle prassi comunitarie che accolgano di fatto livelli diversi di appartenenza ecclesiale. Se la Chiesa è famiglia, ogni comunità deve diventare capace di far sentire ciascuno a casa propria, anche quando non è in grado di prendere parte alla mensa. Il paragone, che non vuole minimamente suonare offensivo, è con la persona che deve stare a dieta per malattia: a nessuno in casa verrebbe in mente di pensare che non fa più parte della famiglia perché non può condividere ‘tutto’.

Infatti il magistero –come si è visto– ribadisce che anche chi non è, temporaneamente o stabilmente, nella condizione di ricevere l’eucaristia rimane membro della Chiesa ed è invitato a prendere parte a tutti gli altri gesti… Una comunità che, come vera famiglia, si faccia carico anche della diversità dei cammini, anziché cadere nel duplice contrapposto rischio del relativismo e della condanna delle persone, fa risaltare meglio la caratteristica di fondo del Padre di famiglia: la misericordia”.

Mons. Castellucci invita a non confondere il sentimento con il matrimonio; per questo il matrimonio ha una valenza sociale, mentre il sentimento no: “Il matrimonio naturale, così come è assunto nel sacramento, non è solo contratto, ma è anche contratto. Ed è un contratto che non viene stipulato solamente tra i due, per questo basterebbe un accordo privato, ma anche tra essi e la società civile ed ecclesiale”.

E la conclusione della lettera chiama in causa anche lo stile di una Chiesa che dovrebbe avere la capacità di pensare famiglia: “Invece di chiederci: ‘che cosa dobbiamo fare per la famiglia?’, o accanto a questa domanda, dovremmo chiederci: ‘siamo una comunità a portata di famiglia?’. Il discorso si aprirebbe, a questo punto, verso l’identità e i compiti di una parrocchia, che dovrebbe essere plasmata sul modello della famiglia e non essere semplicemente un luogo in cui ‘anche’ la famiglia trova qualche spazio”.