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Pio XII e la Ostpolitik vaticana. Prima di Casaroli

I documenti dell’archivio del pontificato di Pio XII metteranno anche in luce come Pio XII ha approcciato il dialogo con l’Unione Sovietica. Un approccio che anticipava quella che sarebbe poi stata la Ostpolitik vaticana

Pio XII | Una immagine di Pio XII | Flickr Pio XII | Una immagine di Pio XII | Flickr

Per Ostpolitik vaticana si intende quella politica diplomatica di avvicinamento ai Paesi del blocco sovietico, fatta di reciproche concessioni e qualche accordo. L’inizio della Ostpolitik vaticana viene fatto risalire al 1961, o al limite nel 1958. In realtà, un tavolo di dialogo con il mondo sovietico era stato già aperto da Pio XII, nel 1946-1947, secondo proprio quella linea di incontro diplomatico incomprensibile a molti, che mette al primo posto la salute dei cattolici in un Paese.

A parlare di questo lavoro è stato uno dei protagonisti, un gesuita ungherese poi finito in Argentina, che lasciò la tonaca per sposarsi e diventare massone, e che ha raccolto le sue memorie nel libro Jesuitas y Masones. E ad analizzare questo libro, trovandovi le prime tracce della Ostpolitik di Pio XII, è stato Johann Ickx, capo dell’archivio della Seconda Sezione della Segreteria di Stato vaticana, in un testo pubblicato nel volume “Chiesa del Silenzio e diplomazia pontificia 1945 - 1965” a cura del Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Con l’apertura degli archivi di Pio XII, questo capitolo ancora sconosciuto del pontificato di Papa Pacelli potrebbe essere finalmente aperto. Dando nuova luce anche al modus operandi della diplomazia pontificia in casi del genere.

La storia comincia dopo l'incontro di Yalta. Cosa era successo dopo Yalta? Che l’Unione Sovietica, inizialmente, aveva cercato di mostrare rapporti cordiali con la Santa Sede, tanto che la Pravda – l’organo ufficiale comunista – nell’aprile 1944 mostrava una foto di Stalin e Molotov con un sacerdote cattolico, Stanislaw Orlemanski da Spingfield (Massacchussets). Una foto che fece un tale scalpore che monsignor Jacques Martin, allora portavoce vaticano e in seguito cardinale, tenne una conferenza stampa senza precendeti per notare che no, non c’erano state relazioni con i russi a partire dalla Prima Guerra Mondiale. Eppure, già monsignor Martin lasciava una apertura al dialogo, mettendo in luce come “alcuni sviluppi sono stati notati con interesse”.

Da lì, comincia una rete di contatti di un certo interesse. Edward J. Flynn, politico democratico di New York presente alla conferenza di Yalta, va nel febbraio 1945 come inviato del presidente Roosevelt, con lo scopo di verificare le garanzie di libertà religiosa, ma anche per comprendere se ci potesse essere un riavvicinamento tra Vaticano e Unione Sovietica. E fu per quello che Flynn arriva a Roma il 21 marzo 1945, e incontra per due volte Pio XII.

Ma è stata soprattutto la Compagnia di Gesù a lavorare sul tema del dialogo con i comunisti, partendo, in realtà, da una strategia di totale chiusura, portata avanti dal padre gesuita Bela Bangha, che addirittura caldeggiò nel 1938 un documento contro il comunismo alla XVIII congregazione generale della Compagnia del Gesù. Con il passare del tempo, l'idea della linea dura venne meno. Da principali oppositori del comunismo – i gesuiti divennero l’avamposto del dialogo con il mondo sovietico.

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Ickx analizza anche le carte conservate nella Curia Generalizia dei Gesuiti, non ancora consultabili ma portate all’attenzione da uno studio di Margit Balogh sul Cardinale Jozef Mindszenty. Sono 25 relazioni, redatti soprattutto da tre gesuiti ungheresi, Sandor Tohotom Nagy, Josef Janosi e Istvan Borbely. Ed è proprio dal primo che si anno le informazioni.

Padre Nagy fu impegnato nel Kalot, il Segretariato nazionale della Gioventù Agraria Cattolica, ma dal 1948 va esule in Uruguay e quindi in Argentina. Lì, lasciata la tonaca, si sposa, diventa massone e scrive nel 1963 le memorie Jesuitas y Masones insieme ad una Lettera Aperta a Sua Santità Paolo VI.

È proprio il libro ad essere di straordinario interesse, perché riporta di cinque viaggi a Roma dello stesso Nagy tra il 1945 e il 1946 e il suo ruolo di mediazione con i sovietici ungheresi. Un ruolo che non si può non considera.

Durante primo viaggio (aprile 1945 – metà agosto 1945), Nagy scrive un rapporto per il vicario generale della compagnia di Gesù, padre Norbert de Boynes, che viene poi inviato a Pio XII. Il rapporto viene dunque discusso con padre Leiber, segretario particolare del Papa, che dà la disponibilità della Santa Sede a finanziare il movimento Kalot, e rendendo dunque inutile il successivo programmato viaggio negli Stati Uniti. Quindi, Nagy incontra il nunzio Angelo Rotta, ultimo rappresentante della Santa Sede in Ungheria prima dell’espulsione, e poi monsignor Silvio Sericano, che sostituiva il pro-segretario di Stato e che gli parlò delle nomine episcopali in Ungheria, e in particolare del primate di Ungheria. A seguito di questo incontro, Nagy scrisse un lungo rapporto su Mindszenty e altri 15 candidati. 

Il 4 agosto 1945, Nagy viene ricevuto in una udienza privata di un’ora da Pio XII, con il quale discute dei problemi dei rapporti tra Soviet e Vaticano. Secondo Nagy, Pio XII avrebbe risposto che “la Chiesa sarebbe disposta a fare concessioni, se anche i russi avessero fatto passi positivi”.

È la via del modus vivendi, che è sarà poi perseguita da Casaroli nei suoi frequenti viaggi oltre-Cortina, e che poi viene ribattezzata in maniera molto efficace come modus non moriendi.

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Tornato in Ungheria, Nagy si mette all'opera. Tra i suoi vari incontri, va segnalato anche uno di una ora e mezza con il vescovo Mindszenty, dal quale Nagy ha la falsa impressione che il cardinale sia per la soluzione del modus vivendi. Mai idea poté essere più errata, anche perché Mindszenty interpretava il suo ruolo di primate non solo in senso spirituale, ma anche in senso “costituzionale”.

Più volte, nelle relazioni di Nagy, si trova nota della “imprudenza” di Mindszenty, parole che Nagy attribuisce anche a Pio XII o all’allora sostituto Giovanbattista Montini. Una lettura dei fatti che si trova anche nel libro “Tra Est e Ovest. Agostino Casaroli diplomatico vaticano” di Roberto Morozzo Della Rocca, che notava come il Cardinale Mindszenty interpretasse il suo ruolo non solo come quello del Primate di Ungheria, ma anche come quello di un principe.

Nagy torna a Roma tra l’ottobre e il novembre 1945. Incontra monsignor Domenico Tardini, segretario della Sacra Congregazione per gli Affari Ecclesiastici straordinari, e con lui parla della questione dei latifondi ecclesiastici in Ungheria. La posizione della Santa Sede è chiara: nella situazione storica in atto, i latifondi ecclesiastici non sono più del tutto difendibili, e Mindszenty segue “una strada antica quando oggi cerca l’appoggio delle forze aristrocratiche e non del popolo”. Soprattutto, Tardini sottolinea che la Santa Sede sa che gli slavi resteranno la maggioranza anche in territorio ungherese, e afferma che la Russia è considerata il prossimo, più grande territorio di missione.

In un successivo colloquio con padre Leiber, Nagy apprende che in Vaticano non si ha “fiducia in prima linea ad una conversione del bolscevismo, ma piuttosto ad una conversione del popolo sovietico”. E Leiber, in un altro colloquio, fa sapere che “non Mosca ha fatto dei passi, invece noi abbiamo fatto sapere a Mosca che siamo disposti a intraprendere rapporti”.

I messaggi vaticani sono passati attraverso Ankara e poi attraverso gli Stati Uniti, ovvero attraverso la missione di Edward J. Flynn.

Nagy incontra anche per tre volte Giovambattista Montini, dal quale è rassicurato dell’intenzione del Vaticano di avere rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica. Per questo, una volta tornato, i sovietici promettono a Nagy – racconta Ickx – che “qualora egli fosse riuscito a tornare da Roma con una dichiarazione positiva del Vaticano, l’ambasciatore Puskin avrebbe fatto in modo che il successivo colloquio confidenziale avesse luogo a Mosca”.

E si arriva al terzo viaggio, tra il febbraio e il marzo 1946. Il viaggio nasce per partecipare al concistoro che creava Mindszenty cardinale. Nagy arriva tardi, ma riesce comunque ad avere udienza con Pio XII, che – secondo Nagy – definì Mindsznety imprudente, e poi diede a Nagy una procura scritta per avviare le trattative con i russi.

“Padre Nagy – si leggeva nella procura – può presentare ai suoi ‘incaricatori’ la certezza che la Santa Sede è disposta a mettersi in piena consultazione con il governo di Mosca, se da parte sua lo desidera, come era già disposto durante gli anni della guerra”.

E così Nagy, con un passaporto diplomatico, torna a Budapest, e incontra Ostjukin, capo sezione e responsabile dell'Europa Centrale del NKVD, vale a dire i servizi segreti sovietici.

A lui, Nagy parla della disponibilità della Santa Sede ad allacciare relazioni diplomatiche. E Ostjukin ribadisce che la Santa Sede mostra ostilità, e in particolare lo fa il Cardinale Mindszenty, che “sta in tutto in termini di inimicizia con noi”. Nagy spiega che la Santa Sede non determina l’opinione politica del Cardinale, e poi sostiene la riapertura della nunziatura di Budapest, proprio a testimonianza della nuova indole dell’Unione Sovietica nei confronti della religione. Ostjukin, però, rimanda la questione agli organi competenti a Mosca.

Questo dialogo porta Nagy ad una maggiore prudenza in patria, anche per bilanciare le posizioni del Cardinale Mindszenty. Nagy invia anche un documento al Cardinale in cui spiega il modello di modus vivendi il 24 giugno 1946: niente di più lontano dalla visione del Cardinale.

Dal luglio 1946 all’agosto 1946, Nagy è per la quarta volta a Roma, per parlare di modus vivendi, la posizione movimento Kalot e il ruolo del Cardinale Mindszenty. In un suo Rapporto sulle lotte interne del cattolicesimo ungherese (sino al 10 luglio 1946 incluso), Nagy mette anche in luce una serie di caratteristiche di Mindsznety che avrebbero ostacolato o addirittura messo in pericolo la vita di fedeli e sacerdoti, e in particolare mette in luce come la riapertura della nunziatura non sia avvenuta a causa della contrapposizione creata dalle dure posizioni del cardinale Mindszenty.

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Ickx cita in particolare il capitolo sulla Tattica del Modus Vivendi, in cui Nagy spiega che “coloro che cercano di creare un possibilità di vita, lo fanno perché pronti per conto loro anche al martirio, vogliono salvare dallo stesso martirio la nazione intera con tutti i mezzi”, e perché di fronte ad una condanna a morte è preferibile perfino l’ergastolo”. E conclude: “Oggi il saggio non è colui che con i russi può restare in collera, costui potrà diventare per un certo tempo, al massimo, un eroe nazionale; ma colui che è capace di guadagnare i russi per la propria causa”.

Insomma, il modus vivendi non è né un patteggiamento di principi né fraternizzazione, ma piuttosto una “vicinanza tollerabile”.

Quando torna a Budapest, Nagy si trova però una situazione più difficile, perché, dopo l’uccisione di un ufficiale sovietico, il movimento Kalot è stato sciolto.

Ma Nagy non cede. Cerca di rifondare Kalot, parla con Ostjukin a cui chiede di riaprire la nunziatura come contrappeso per lo scioglimento di Kalot, ipotesi che Ostjukin rifiuta perché Mindszenty la considererebbe come una sua vittoria personale.

Nagy torna a Roma tra fine 1947 e gennaio 1948. Ma in Vaticano, l’idea del modus vivendi non è ormai più in auge, Nagy non viene nemmeno ricevuto dal Papa. Non potendo tornare in Ungheria, Nagy parte per l’Argentina il 4 gennaio 1947, per obbedienza ai superiori. Sembra che Pio XII non abbia mai saputo di questa decisione.

Di certo, la storia di Nagy – sottolinea Ickx – mette in luce come già nel 1946 il termine modus vivendi fosse “articolato e spiegato”, cosa che “offre validi motivi sia per antidatare l’Ostpolitik, sia per ritenere che tale avvio dell’Ostpoliik nell’anno 1961 abbia rappresentato una svolta più per i comunisti che per la Santa Sede”

Ickx nega, tra l’altro, che la questione fosse ristretta ai soli gesuiti, perché è vero che i documenti sono nella Curia dei gesuiti, ma è anche vere che servono per informare la segreteria di Stato.

Secondo Ickx, “il numero cospicuo di documenti, ben 25, fanno pensare che dietro la loro attività ci fosse l’idea di sviluppare un progetto politico”. Tra l'altro, l’insistenza di legare il modus vivendi all’apertura della nunziatura e il contrasto con il Cardianl Minszenty mostrano che, in fondo, i Gesuiti lavorano in accordo con la Santa Sede.

Poi, in una delle lettere di incarico ricevute da padre Leiber, si legge che “la Santa Sede è sempre disponibile a entrare in relazioni con il governo di Mosca – Egli può comunicare con i russi coinvolti nella questione. Dopo tutto ciò che è successo e succede quotidianamente, è una sfida difficile per la santa Sede confidare nelle buone intenzioni della controparte. Invece, se il governo di Mosca desiderasse un avvicinamento e dialogare con la Santa Sede, questa è disposta in qualunque modo a farlo, come già in tempo di guerra lo faceva. In questo modo pensa Pio XII”.