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Portavoce dei cristiani d'Oriente per sostenere le comunità in pericolo

Padre Vincenzo Ruggeri SI |  | PIO Padre Vincenzo Ruggeri SI | | PIO

C’è una “saggezza che nasce da un’ostinata resistenza di ciò che è autentico”, scrive Papa Francesco nella Evangelii gaudium, e i 100 anni di vita del Pontificio Istituto orientale  sono una occasione anche per fermarsi a riflettere su come a questa saggezza si legata la salvaguardia e la pace sulla terra.

Padre Vincenzo Ruggieri, gesuita e archeologo studiosi di bizantinologia ha accettato la sfida, come spiega lui stesso ad ACI Stampa:

“In occasione del centenario del PIO, i gesuiti e i vescovi del Medio Oriente ci hanno chiesto un aiuto per rispondere alla crisi attuale che è una crisi globale, ingloba le nazioni, migrazioni, povertà, la guerra, la violenza, la paura, l’angoscia, e un aiuto su come conservare vive le comunità cristiane di quella parte del mondo.

La mia idea, magari un po’ folle, è stata quella di dare voce ai “portavoce” di queste popolazioni, di queste Chiese. Lasciamo insomma che gli studenti stessi ci parlino della loro fede, della loro speranza, delle loro paure di ciò che la loro gente crede, e in che modo celebra la fede e se le modalità di oggi sono legati ad esperienze passate, a testi passati a tradizioni passate.

E la seconda idea è stata dare la possibilità alla gente semplice di poter insegnare ai professori. La gente semplice che non ha fatto studi particolari di teologia o liturgia, ha una percezione del vero e della terra, della natura e quindi della “continuità” del villaggio che è di gran lunga superiore ai libri scritti.

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In genere quando si parla di teologia o liturgia in genere lo si fa secondo libri che sono stati scritti nelle biblioteche, non nei villaggi. Sono stati scritti da persone dotte, non dai semplici”.

Oltre i monumenti insomma?

“In Oriente si trovano degli stupendi monumenti, chiese come Santa Sofia ed altro, ma le case semplici non ci sono. E così vale per i testi che venivano scritti nei monasteri o nei patriarcati ma non avevano nulla a che vedere con la quotidianità del popolo. Frammenti di vita reale sono stati conservati nelle varie tradizioni nei libri di preghiere. Così ci sono preghiere per le feste, per la siccità, per le malattie o per benedire un pozzo o un attrezzo agricolo.

Ci sono arrivati dei frammento della vita della gente all’interno di questi libri, però gli studiosi di liturgia non vanno a studiare quei testi, piuttosto studiano le grandi liturgiche che si celebrano nelle basiliche e nei monasteri.

Ad esempio la benedizione di un pozzo non si faceva in città, ma nelle campagne. Ma era fondamentale, senza acqua non si vive e nella campagna si va chiaro quel legame tra uomo e terra, uomo e ambiante, come si legge anche nella Laudato sì di Papa Francesco. La enciclica non è uno scritto sull’ecologia, quanto una antropologia ecologica. E questo si vede solo nelle preghiere dei semplici”.

Una rivalutazione della pietà popolare quindi?

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“Certo occorre ricordare che prima della scienza viene la vita. In effetti è già stato Paolo VI a scrivere che la pietà popolare, la sensibilità religiosa del popolo è un elemento di fondamentale importanza per la trasmissione del Vangelo. Quando noi dotti parliamo magari stiamo a vedere come si usa il congiuntivo. Ma quando mia nonna recitava il suo credo in latino, anche senza capire, il Signore sapeva che sta davvero dichiarando la sua fede. Oggi forse ci si comincia ad aprire a questa sensibilità anche verso la natura. Che sfregio abbiamo fatto alla natura, continuo e costante!”.

E attraverso la pietà popolare si può elevare l’uomo ?

“Ovvio, è questo che sta alla base dell’idea di chiamare i “messaggeri” delle Chiese del Medio Oriente a parlare a noi a Roma. Un modo per loro, studenti, di elevarsi sapendo che rappresentano le loro Chiese e le loro tradizioni, e danno anche noi a Roma materiale nuovo da prendere in considerazione per future ricerche e progetti per capire meglio come vanno le cose. Dare possibilità alla pietà popolare di poter essere “maestra”.  E così la gente stessa riscopre il perché delle tradizioni e può capirle meglio”.