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Processo Palazzo di Londra, la storia della telefonata di Becciu al Papa

Le ultime tre udienze del processo per la gestione di fondi della Segreteria di Stato portano una serie di storie che vanno comprese. Dalla telefonata di Becciu al Papa alla pretese di monsignor Perlasca

Processo Vaticano | Un momento del processo vaticano | Vatican Media Processo Vaticano | Un momento del processo vaticano | Vatican Media

Il 24 luglio 2021, una decina di giorni dopo le dimissioni di Papa Francesco dal Gemelli dove ha subito un intervento chirurgico il 4 luglio precedente, il Cardinale Angelo Becciu prende il telefono e chiama Papa Francesco. Soprattutto, fa registrare la chiamata. Perché il 13 luglio è arrivata una lettera del Papa che, di fatto, dice che no, il Papa non sapeva niente dei trasferimenti di denaro disposti per la liberazione di suor Cecilia Narvaez, la suora colombiana rapita in Mali. E che Becciu avrebbe trasferito quei soldi da solo.

La registrazione della telefonata del Cardinale Becciu a Papa Francesco è stata fatta ascoltare nell’udienza del 24 novembre 2022, ma solo a promotori di giustizia e difensori, mentre i giornalisti e gli uditori sono stati fatti accomodare fuori. E questo perché si deve ancora decidere se questa telefonata è ammissibile. La trascrizione della telefonata, acquisita dalla procura di Sassari in un’altra indagine e ottenute dal Promotore di Giustizia vaticano attraverso una rogatoria, è stata però pubblicata integralmente dalla cronaca giudiziaria di una nota agenzia italiana.

Tre giorni di interrogatorio, due ad Alberto Perlasca, uno a Luciano Capaldo, ingegnere, consulente della Santa Sede nella questione dell’immobile di Londra, che in passato aveva collaborato anche con Gianluigi Torzi, l’ultimo broker a gestire il palazzo. Sono stati tre giorni intensi: oltre alla telefonata del Cardinale Becciu, è arrivata la notizia di una indagine per associazione a delinquere sul Cardinale ad opera della procura di Sassari, per la quale un fascicolo sarebbe stato aperto anche in Vaticano, sebbene i legali di Becciu abbiano reso noto di non saperne niente; poi, c’è stata la rivelazione da parte di Capaldo che l’arcivescovo Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, avesse chiesto a un ex affiliato dei servizi italiani di pedinare il direttore generale dello IOR Gianfranco Mammì; e infine c’è stata la testimonianza fiume di monsignor Alberto Perlasca, già capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, che, anche con espressioni colorite, ha dato la sua versione dei fatti. Una testimonianza, quest’ultima, a tratti confusionaria, con diverse discrasie tra quanto prodotto in due memoriali del monsignore (uno del 31 agosto 2020, un altro depositato come dichiarazione spontanea lo scorso 22 novembre) e i suoi interrogatori e quanto invece stava rispondendo. Tanto che per quattro volte il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone ha invitato monsignor Perlasca a ponderare bene le sue risposte, arrivando addirittura a ricordare che, in caso di dichiarazioni mendaci, poteva essere incriminato per falsa testimonianza.

I temi del processo

Più che scendere nei dettagli, c’è bisogno di avere delle linee guida per comprendere quello che è successo in aula. Il processo, come è noto, riguarda la gestione dei fondi della Segreteria di Stato, e in particolare l’investimento su un immobile di lusso a Londra, in Sloane Avenue. Ma nel processo – che ha dieci difensori – confluiscono anche altri due filoni di indagine: quello cosiddetto “Sardegna”, che riguardano i fondi destinati dal Cardinale Becciu quando era sostituto della Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per sostenere un progetto della cooperativa SPES, per la quale si contesta un peculato; e poi, la questione di Cecilia Marogna, la sedicente esperta di intelligence contrattata dalla Segreteria di Stato per alcune operazioni, e in particolare per la liberazione di una suora.

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La commistione di più filoni di indagine fa sì che a volte gli interrogatori siano confusi e mettano insieme più temi differenti. Si possono però definire alcune linee guida.

Prima di tutto, la questione delle perdite della Segreteria di Stato nell’investimento del Palazzo di Londra. Capaldo, che ha descritto la sua vasta esperienza in termini di valutazione di immobili, ha sottolineato come la Santa Sede abbia comprato a 275 milioni di sterline e rivenduto a 186 milioni, con una perdita di 90 milioni di sterline. È stata la prima volta che in aula si è dato un ammontare preciso delle presunte perdite della Segreteria di Stato.

Presunte, perché, in un intervento in aula, Raffaele Mincione, il broker che per primo ha gestito l’investimento, ha fatto notare come il valore dell’immobile non sia dato dall’immobile in sé, ma dal valore che viene dato dal mercato, e anche dal potenziale valore che nasce dalle possibilità di ristrutturazione.

Sulla questione della ristrutturazione, la testimonianza di monsignor Perlasca ha confermato le dichiarazioni di Mincione: dato che i locali di Sloane Avenue si sarebbero trasformati da commerciali in residenziali, con un potenziale incremento del valore, si sarebbero dovute realizzare abitazioni di social housing, anzi proprio questo aspetto “ci fece piacere il progetto ancora di più”.

Perlasca ha poi confermato che Mincione fosse titolare di tutto il patrimonio investito, sia della parte mobiliare che di quella immobiliare, lamentandosi a più riprese con Mincione per aver gestito in modo a suo dire creativo, personale e personalista (“testina estrosa” lo ha appellato) il fondo.

Capaldo sosteneva che non c’erano le condizioni per mettere in essere il progetto di riconversione, ma il dato sarebbe negato dal fatto che, quando il caso Sloane Avenue era già scoppiato, il comune di Londra diede l’ok alla nuova destinazione catastale del palazzo.

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La questione dei servizi

Colpisce invece che Capaldo abbia testimoniato di aver ricevuto richiesta di fornire i recapiti di Gianfranco Mammì, direttore generale dello IOR, da parte dell’arcivescovo Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato. I recapiti dovevano essere dati a Giovanni Ferruccio Oriente, ex autista del capo del SISDE (il servizio italiano) negli Anni Novanta, che era stato incaricato di controllare Mammì. Un dato, quello del controllo su Mammì da parte del sostituto, che era già emerso nell’interrogatorio a monsignor Mauro Carlino, segretario del sostituto, che era stato vagamente delineato in una puntata di Report densa però di imprecisioni e che con la testimonianza di Capaldo si è arricchito di dettagli.

Resta da comprendere l’opportunità, per il numero 3 della Segreteria di Stato, di chiedere ad un ex agente dei servizi italiani una operazione di pedinamento, considerando anche come la progressiva internazionalizzazione delle finanze vaticane, che ha avuto uno stop con Papa Francesco, avesse come scopo proprio di sganciarsi dall’ingombrante vicino italiano.

E resta anche da valutare se la scoperta del pedinamento abbia indotto Mammì alla reazione. In effetti, alla richiesta della Segreteria di Stato di un prestito (con interesse) per concludere l’operazione Londra prendendo pieno possesso dell’immobile, lo IOR dice sì dopo vari studi (o tentennamenti) con una lettera ufficiale del presidente Jean-Baptist de Franssu del 24 maggio 2019. Il 27 maggio, però, questo assenso viene improvvisamente revocato, e Mammì sarà poi colui che farà la segnalazione al revisore generale, facendo partire tutto il procedimento che ha portato a questo processo.

Il revisore generale

Proprio parlando del revisore generale, monsignor Perlasca ha messo in luce una forte frizione con l’ufficio del revisore. Secondo l’ex officiale vaticano, il revisore dimostrava di non conoscere il Vaticano, tanto che alla fine Perlasca si era risolto ad andare avanti facendo come se il revisore non ci fosse.

Tra l’altro, c’è un rapporto del revisore che parla anche dei rischi connessi alla gestione del palazzo di Londra dopo che questo era stato dato in gestione a Mincione. Infatti, si ricorderà che la Segreteria di Stato aveva acquisito le quote dell’immobile, lasciando mille quote in gestione al broker Gianluigi Torzi. Solo che queste mille quote erano le sole con diritto di voto, cosa che aveva posto Torzi subito in una posizione di forza nei confronti della Segreteria di Stato. Più volte, Perlasca ha detto di non essersi accorto del fatto. Dopo l’affare, però, sono stati molti i segnali.

Le contraddizioni

Ma Perlasca cade in contraddizione anche quando parla del suo effettivo potere. Tutte le testimonianze sottolineano che era monsignor Perlasca, come capo ufficio, a prendere le decisioni. Perlasca, però, contesta di non avere nemmeno potere di firma, perché tutto è nella mani del sostituto. C’è, però, la sua firma sul cosiddetto framework agreement, che trasferisce la gestione dell’immobile da Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi.

Come si conciliano le cose? Perlasca sostiene di aver chiamato il sostituto Pena Parra, che gli ha detto di firmare lui visto che aveva seguito tutto, e che era certissimo di avere l’autorizzazione per firmare. Una procura vera e propria, al momento, non c’era, e Perlasca era incerto anche su un eventuale incontro con Pena Parra dopo la firma.

Viene chiesto a Perlasca perché non si sia rifiutato di firmare. Risponde che magari invece era tutto ben fatto, e non voleva correre il rischio. Ma, risponde un giudice a latere, non è questa la responsabilità di un capo ufficio?

Perlasca ammette di non comprendere molto di finanza, che il suo predecessore, monsignor Piovano, era più versato di lui, e di non essersi mai occupato di immobili. Ma, nelle sue funzioni di consigliere del Fondo Pensioni vaticano, era anche stato a Londra per visionare un immobile in Hight Street Kensington.

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Perlasca dice di non aver parlato della questione dell’immobile a Londra con Genevieve Ciferri, la donna che lo ha difeso con il cardinale Becciu e che gli ha lasciato una proprietà in nuda proprietà, se non per chiedere un consiglio, dato che lei aveva lavorato a Londra. Poi dice che ha chiesto anche di possibili nuovi affari a Londra, posizione “inconciliabile” con quello dichiarato precedentemente, secondo il presidente del Tribunale Pignatone.

Perlasca dice di aver saputo dell’esistenza di Cecilia Marogna, che lui conosceva come Cecilia Zulema, solo nell’interrogatorio del 29 aprile 2019, ma nei verbali di quell’interrogatorio, rilevano gli avvocati, non c’è traccia di alcun accenno né a Marogna né a Zulema.

Nel memoriale datato 31 agosto 2020 Perlasca parla di Becciu che avrebbe deposto contro di lui. Ma in quel momento Becciu non aveva fatto nessuna deposizione e tantomeno contro Perlasca. Richiesto, anche dal presidente del Tribunale, di dire chi gli aveva dato l’informazione, Perlasca si è riservato tempo per rispondere.

E poi ci sono le dichiarazioni suicide proclamate a Becciu via messaggio, che poi Perlasca definisce “provocazioni”. Le accuse a Becciu di averlo portato nel processo, e persino di averlo manipolato, di avergli fatto le cose per cui lo stesso Becciu è di nuovo a processo. Da qui, l'affermazione di non essere "né complice, né connivente, né favoreggiatore". E ancora: le illazioni su pressioni che Becciu avrebbe fatto nei confronti di Perlasca. L’idea che le stesse pressioni fossero state fatte su monsignor Mauro Carlino, che lasciò Domus Sanctae Marthae mentre Perlasca resistette al suo posto. Un fiume in piena, monsignor Perlasca, con dichiarazioni che più volte portano il presidente del tribunale ad invitarlo alla calma.

Infine, la questione della registrazione al ristorante Scarpone, dove Perlasca porta a cena Becciu chiedendogli consigli come muoversi. Dalle registrazioni dell’interrogatorio sembra che ci sia stata una registrazione della cena, ma Perlasca sottolinea che in realtà lui ha scritto un appunto e poi ha registrato la sua voce, ed è quella la registrazione cui fa riferimento. Anzi, che l’idea che la Gendarmeria avesse potuto registrare la conversazione era una sua immaginazione, nata dal fatto che lui aveva pensato bene di avvisare la Gendarmeria della cena – cosa che non aveva fatto per altri incontri.

Sono questi i punti salienti di una testimonianza tutta da valutare, considerando anche che buona parte dell’impianto accusatorio su Becciu si basa proprio sulle accuse di Perlasca.

La telefonata di Becciu al Papa

La telefonata, sebbene pubblicata solo da fonti giudiziarie italiane e non parte delle comunicazioni vaticane, vale un breve excursu. Secondo il promotore di Giustizia Alessandro Diddi, la conversazione proverebbe che il Papa non sapeva, dando così ragione alla tesi dell’accusa nel processo. Eppure, nella conversazione si sente il Papa dire che si ricorda, chiedere al Cardinale di inviare un appunto che così lui avrebbe potuto studiare la questione in termini legali, accogliere la lamentela di Becciu che con quella lettera il Papa lo avrebbe già condannato.

Vale la pena ricordare che è stato il Papa stesso ad autorizzare la riproduzione di quella conversazione. Non c’è niente, dunque, che non voglia che si sappia. Forse alcuni potranno obiettare sull’opportunità del Cardinale Becciu di registrare una conversazione di questo genere. Ma è una conversazione importante, in un momento difficile per il cardinale, che va registrata anche per avere traccia di una serie di ordini che sono stati fino a quel momento diffusi solo in maniera orale.

Della telefonata si viene a sapere prima dell’interrogatorio di Perlasca, quando il promotore di Giustizia Diddi rende noto, con una illustrazione arricchita da vari commenti, delle risultanze di una rogatoria internazionale verso la procura di Sassari, che stava indagando su una presunta associazione a delinquere di Becciu. Le carte, ancora non ammesse nel processo vaticano, sono però di un altro procedimento in Italia. Sono uscite diverse intercettazioni e carte processuali negli scorsi giorni, tra l'altro ancora oggetto di istruttoria e decontestualizzate, ma queste non sono parte del processo vaticano. Perlomeno, non ancora.

Ora, si guarda ai prossimi appuntamenti. L’interrogatorio a monsignor Perlasca continuerà il 30 novembre, l’1 dicembre ci sarà il direttore dello IOR Gianfranco Mammì. Nella prossima udienza, anche l’avvocato Giovannini, che con l’avvocato Intendente era intervenuto nella transazione con Torzi. Persone considerate di totale fiducia, ha detto Perlasca, perché presentate da Mario Milanese, presidente della Cooperativa OSA e amico del Papa. Una amicizia, quella con il Papa, che Milanese ha detto di aver “pagato” quando ha testimoniato lo scorso 10 novembre.