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Processo Palazzo di Londra, nuovi capi di accusa

A partire dagli interrogatori, nuovi capi di accusa per alcuni degli imputati. Ordinanza per chiedere al fratello di Becciu di testimoniare.

Processo Palazzo di Londra | Un momento del processo vaticano | Vatican Media / ACI Group Processo Palazzo di Londra | Un momento del processo vaticano | Vatican Media / ACI Group

Il colpo di scena delle ultime udienze sul processo della gestione di fondi in Vaticano è la formulazione di nuovi capi di accusa per alcuni degli imputati. Capi di accusa che nascono a seguito degli interrogatori che si sono prodotti in aula, con una procedura che può sembrare forzata, ma che è consentita in Vaticano, e che aggiunge i capi di imputazione di corruzione ad Enrico Crasso, Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi, e quelle di autoriciclaggio per Enrico Crasso e Fabrizio Tirabassi.

Ma se questa è la notizia, le ultime due udienze devono essere considerate ad ampio spettro, più che nei dettagli. Perché l’avvocato Shantanu Sinha, che era nello studio legale Mishcon de Reya quando la Segreteria di Stato rilevò le quote da Mincione e poi l’immobile intero Torzi, ha fatto luce sul perché la Segreteria di Stato avesse deciso di compiere quelle operazioni, arrivando a spiegare in che modo riteneva che il broker Gianluigi Torzi fosse un pericolo. E l’architetto Luciano Capaldo, che, dopo aver collaborato con Torzi è diventato consulente della Segreteria di Stato, ha preso una posizione che difende la posizione dell’arcivescovo Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato. E poi c’è stata l’ordinanza che intima a presentarsi a testimoniare Antonino Becciu, fratello del Cardinale Becciu, e don Mario Curzu, presidente della Caritas di Ozieri.

Prima, però, c’è bisogno di fare un passo indietro.

Il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato

Tre sono i tronconi del processo. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, di un immobile di lusso a Londra. L’investimento fu affidato prima al broker Raffaele Mincione, poi al broker Gianluigi Torzi, che però tenne per sé le uniche azioni con diritto di voto. Alla fine, per salvare l’investimento, la Segreteria di Stato decise di rilevare l’intero palazzo, cosa che fece pagando a Torzi una buonuscita per la rilevazione delle quote. L’architetto Luciano Capaldo, già collaboraore di Torzi da cui si sarebbe distaccato perché non ne condivideva i metodi, aveva agito per conto della Segreteria di Stato nelle discussioni che hanno portato a rilevare il palazzo. L’avvocato Shantanu Sinha aveva assistito le operazioni per conto dello studio legale Mishcon de Reya, e aveva consigliato alla fine di non adire a vie legali, ma piuttosto a trovare un accordo con Torzi. Da questi ruoli, la rilevanza delle loro testimonianze.

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Il filone “Sardegna” del processo vede il Cardinale Angelo Becciu sotto accusa per un presunto peculato che avrebbe avuto luogo quando questi era sostituto della Segreteria di Stato, con l’erogazione di denaro alla Caritas di Ozieri, diretta da don Mario Curzu, che li ha poi devoluti alla cooperativa Spes, diretta da Antonino Beccou. i due sono stati implicati anche in una indagine della Guardia di Finanza, ed è questo il motivo per cui non si sono presentati a testimoniare.

E poi c’è il filone Cecilia Marogna, la sedicente esperta di intelligence che si offrì di lavorare con la Santa Sede prestando i suoi servizi anche per la liberazione di ostaggi, come suor Cecilia Narvaez, rapita in Mali. Il pagamento di un riscatto è effettivamente avvenuto, ma non per conto di Marogna, accusata di essersi appropriata dei fondi vaticani per uso personale.

I nuovi capi di accusa

Gli altri protagonisti della vicenda sono Fabrizio Tirabassi, officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato vaticana, ed Enrico Crasso, il broker che ha gestito per anni gli investimenti della Segreteria di Stato.

Loro, insieme a Mincione e Torzi, sono i destinatari dei nuovi capi di accusa svolti

alla luce di ulteriori attività istruttorie e di quanto emerso durante il processo, che hanno portato a due relazioni aggiuntive predisposte dal Corpo della Gendarmeria dello Stato della Città del Vaticano. I documenti, uno dedicato alla società Aspigam, l’altro alla questione delle monete, sono stati depositati nel corso della cinquantaquattresima udienza del processo sugli investimenti finanziari della Segreteria di Stato a Londra. Alcuni capi di accusa, inoltre, sono stati riformulati.

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La testimonianza di Capaldo

A grandi linee, Capaldo nella sua testimonianza ha voluto ribadire, come già aveva fatto nel primo troncone di dichiarazioni il 23 novembre scorso, che secondo lui la Segreteria di Stato non avrebbe fatto un buon affare, che il valore dell’immobile secondo lui era inferiore e che dunque sarebbe stato un investimento con valutazioni erronee.

Vero è che Capaldo, da collaboratore di Torzi, aveva però compilato brochure e valutazioni di possibile sviluppo dell’immobile su cui la Segreteria di Stato stava investendo (gli ex magazzini Harrod’s a 60 Sloane Avenue) con valori che superavano i 300 milioni, ma ci ha tenuto a sottolineare che non erano valutazioni vincolanti ma stime, che le stime erano espressamente richieste ma che comunque non le faceva nella sua attività di valutatore e che comunque erano valutazioni che gli erano state chieste da Gianluigi Torzi.

È stato evidenziato più volte il rapporto che legava Capaldo a Torzi prima che diventasse consulente della Segreteria di Stato, e Capaldo stesso ha poi parlato di aver portato sul tavolo della Segreteria di Stato due manifestazioni di interesse per l’immobile, uno dell’allora ministro della pace dell’Afghanistan.

Altro tema è quello della sorveglianza che sarebbe stata fatta sugli studi di Torzi a Londra. Capaldo ha detto che aveva mantenuto una app collegata alle telecamere di sorveglianza dello studio di Torzi, e che l’arcivescovo Pena Parra (“Per cui sarei pronto a morire”) gli aveva chiesto aprire quella app per vedere chi sarebbe andato a fare visita a Torzi.

Capaldo ha anche confermato di aver contattato Giovanni Ferruccio Oriente, per lui solo un tecnico informatico (era l’autista del capo del SISDE) per risalire a dalle informazioni, cosa della quale però non si fece niente.

Il presidente del Tribunale Pignatone ha specificato che l’utilizzare telecamere in casa di altri non era ancora recepito come reato in Vaticano al termine dei fatti.

Certo, resta la domanda: perché Pena Parra voleva verificare cosa succedeva da Torzi?

La testimonianza di Shantanu Sinha

Perché evidentemente temeva che uno degli attori in gioco in quell’affare finissero per staccarsi dalla Segreteria di Stato e agissero autonomamente e contro gli interessi della stessa Segreteria di Stato. Sta di fatto che le indagini sulle destinazioni del denaro erano state avviate dall’Autorità di Informazione Finanziaria, che già aveva annunciato avrebbe continuato a seguire i flussi. Ma l’AIF è stata decapitata dal processo prima che potesse agire, nonostante avesse tutto il materiale di intelligence che avrebbe potuto aiutare nel corso delle indagini.

E dal processo non è ancora chiaro chi abbia presentato Gianluigi Torzi come l’uomo giusto per risolvere la vicenda di Londra. Giuseppe Milanese, l’imprenditore amico di Papa Francesco, aveva probabilmente avuto modo di conoscerlo, ma lo stesso Milanese è venuto a processo parlando di forze contrapposte.

Quella di Milanese è stata solo una rappresentazione grafica o c’è qualcosa di vero? E se sì, perché non si riesce a risalire ancora oltre nella catena? Lo stesso Milanese aveva testimoniato che Renato Giovannini, vicerettore della Università Marconi (il quale si era trincerato dietro molti “non ricordo” nell’interrogatorio) e l’avvocato Emanuele Intendente si fossero definiti insieme a Torzi “cavalieri bianchi”, e che sono loro a dire a Milanese che Torzi potrebbe risolvere il problema.

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Se non si comprendono i legami, né gli eventuali interessi personali dietro i legami, è probabile che l’AIF fosse invece avanti nelle indagini. Perché quelle indagini sono state bloccate con la spettacolare perquisizione del 31 ottobre 2019?

Sono le domande che restano aperte, considerando che anche lo studio Mishcon de Reya aveva sottolineato la necessità di trattare e poi eventualmente di indagare.

In effetti, l’avvocato Shantanu Sinha ha detto che la strategia non fu quella di denunciare Torzi perché questi aveva dalla sua il tempo e anche la titolarità del Palazzo, che poteva vendere in ogni momento.

Insomma, Torzi era considerato una minaccia – sono state anche prodotte due email che mostravano le pressioni arrivate dal lato Torzi – e la Segreteria di Stato aveva la priorità di prendere la gestione del palazzo, e di farlo in modo lecito.

Shantanu Sinha ha ha ripercorso le tappe delle contrattazioni del novembre-dicembre 2018, quando la Segreteria di Stato, proprietaria di fatto dell’immobile di Sloane Avenue con 30 mila azioni senza diritto di voto, voleva uscire dal fondo Gutt di Torzi in modo da riacquisire il totale controllo del palazzo, mantenuto invece da Torzi con le ormai note “mille azioni con diritto di voto”, stabilite da un Framework Agreement firmato a Londra da rappresentanti della Segreteria di Stato, senza – sembra – l’autorizzazione dei superiori.

“Chi aveva azioni, aveva il potere”, ha detto l’avvocato, spiegando che il 17 dicembre 2018, l’architetto Luciano Capaldo aveva infatti presentato alcuni documenti perché si approvasse una risoluzione che cambiasse il diritto di voto nella Gutt – la società di Torzi che aveva la gestione delle azioni - affinché tutte le decisioni fossero prese all’unanimità. In una riunione di alcuni giorni dopo a Milano la proposta era stata sottoposta allo stesso Torzi: “Il suggerimento dello studio era di far revisionare il documento da uno studio con sede in Lussemburgo e aggiungere la risoluzione”.

“Se si era trattato di un errore, permettevamo a Torzi di aggiustare l’errore”, ha detto Sinha. Il rifiuto di Torzi fece comprendere che invece la struttura societaria era voluta.

Ma denunciare per “frode, truffa e inganno” sembrò rischioso, per via dei rischi reputazionali e soprattutto i rischi che venivano dallo stesso Torzi, tanto che si agiva in un quadro di tensione nervosa. “Un esempio di quello che faceva Torzi era dato dalla sua decisione di mandare via dal board della Gutt Fabrizio Tirabassi, che era l’unico rappresentante della Santa Sede.

Sinha ha depositato agli atti due email del marzo e aprile 2019 (fase viva delle trattative), in cui lo studio di consulenza Bird & Bird che assisteva Torzi chiedeva che si firmasse la transazione richiesta dal broker entro 2-3 giorni o addirittura un giorno, perché erano in cantiere “decisioni fondamentali” anche sul “possibile cambio di proprietà dell’immobile”. E il cambio di proprietà, secondo Sinha, era una vendita, perché la Segreteria di Stato “era proprietaria a tutti gli effetti”.

Capaldo ha riferito invece di un drammatico momento in cui monsignor Alberto Perlasca, capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, sarebbe scoppiato in lacrime di fronte all’impossibilità di denunciare Torzi.

Ordinanza Becciu

Forse le emozioni sono esagerate. Resta, però, che la Segreteria di Stato ha agito per proteggere l’investimento, ed effettivamente la vendita precipitosa a Bain Capital per soli 186 milioni di euro – che con lo sviluppo quasi raddoppieranno – non ha avuto effetti economici positivi.

Intanto, Pignatone ha anche distribuito una ordinanza che intima Antonino Becciu e don Mario Curzu a presentarsi in aula come testimoni il 19 aprile. Sia Curzu che Becciu fratello avrebbero dovuto testimoniare l’8 marzo, ma non lo fecero perché sono a loro volta indagati dalla Procura della Repubblica di Sassari, in relazione all’attività della Diocesi, della Caritas e della Cooperativa Spes, e che non si sono presentati per “elusione delle garanzie” da parte del diritto vaticano, che prevede solo la figura dell’imputato e del testimone e che dunque potrebbe riversare gli interrogatori come atti di indagine per Sassari. Inoltre, Antonino Becciu è parente prossimo di un imputato, e potrebbe non dover essere convocato.

Pignatone, però, ha ribadito ancora una volta che ci sono tutte le garanzie per il giuso processo, difendendo il sistema vaticano, intimando ai due di presentarsi irrevocabilmente in aula il 19 aprile.

Vedremo se si presenteranno. È vero che questo processo ha visto diversi testimoni decidere di non presentarsi, e mai per nessuno è stata fatta una ordinanza per intimare loro di presentarsi, né si è mai pensato a mettere in campo rogatorie internazionali per recuperare i testimoni.