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Storie dei Papi: Quando Papa Leone XII difendeva i beni culturali di Roma

Particolare di una stampa di Luigi Rossini |  | pd Particolare di una stampa di Luigi Rossini | | pd

L’idea che la cura del Patrimonio artistico di uno stato sia un traguardo tutto contemporaneo è spesso molto diffusa. Ma a smentirlo c’è la storia dello Stato Pontificio. Già all’inizio dell’ 800 c’erano diverse figure di rilievo nella amministrazione papalina che si occupavano della tutela dei beni. Non tanto come curatori dei musei, studiosi e ricercatori, ma proprio con ruoli “politici” e statali.

Come scrive Maria Piera Sette nel volume “Antico, conservazione e restauro a Roma nell’età di leone XII” edito tra i Quaderni regionali delle Marche, “fra gli Stati preunitari, quello pontificio detiene sicuramente un posto di rilievo per i provvedimenti che a inizio secolo si occupano primariamente della vigilanza sui beni artistici”.

E’ addirittura il Cardinale Camerlengo, insieme all’ ispettore di Belle Arti e al commissario delle Antichità affiancato da assessori che si occupano delle antichità.

Tutto inizia da un chirografo di Pio VII sulla vigilanza. E’ il 1802. Ma si dovrà arrivare all’editto del cardinale Bartolomeo Pacca del 7 aprile 1820 per avere una struttura  articolata. Saranno proprio i cardinali legati o di prelati delegati a curare un inventario dei beni, ad attuare la vigilanza sui restauri e sulle attività di scavo con una centralizzazione dettata dalla riforma amministrativa abbozzata nel 1824 e completata con il motu proprio del 1827.

Il periodo è propizio al cambiamento di paradigma, dal collezionismo di antichità allo studio delle stesse antichità. Così “accanto a catalogazioni di pura erudizione e raccolta, affiora la volontà di tracciare una storia valutativa delle presenze artistiche.

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Ne deriva un ascolto attento dell’antico che dapprima sottende un’estetica della completezza predisposta al rifacimento di parti mancanti, poi si appresta a cogliere il senso storico dell’evolversi dell’opera” scrive Sette.

In quegli anni fiorisce il mercato dell’arte e dell’antico ed ecco che nascono provvedimenti con misure restrittive per impedire il danneggiamento di ogni sorta di antichità e divieti di esportazione, così come previsto ad esempio da un provvedimento di Papa Chiaramonti emesso sotto l’influsso del saccheggio francese.

Così pitture in tavola, o in tela non potevano essere esportate dallo Stato Pontificio e a nessuna persona, compresi anche i Cardinali benché titolari, protettori di chiese, ed altri privilegiatissimi era permesso di concedere licenze di esportazione.

Certo, la legge non fu sufficiente a salvare tutto il patrimonio dello Stato Pontificio,

Il documento del 1820 resta un punto di svolta, non solo regola il diritto di scavo, ma anche l’esportazione.  Un vero salto qualitativo nella definizione del campo di azione delle leggi di tutela che si amplia progressivamente. Perfino gli elementi architettonici vengono controllati e considerata la abitudine romana al reimpiego si capisce quanto severo diventi i controllo sugli scavi archeologici.

Roma vive una fase di intensa attività e presa di coscienza del patrimonio artistico. Vivono a Roma in quegli anni personalità come Canova, Guattani, Quatremère de Quincy, Chateaubriand, Stendhal, Goethe, Visconti, Canina, Nibby ed altre ancora ‒ fra le quali spicca la figura di Carlo Fea, colui che, quale commissario alle antichità, discute tanti argomenti svolgendo un’interrotta e apprezzata opera di tutela e di rivendicazione giuridica nei riguardi dei monumenti delle Stato Pontificio. E’ lui che detta i canoni dei restauri romani e lavora per risarcire i guasti arrecati all’urbe da secoli di abbandono.

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Si ritrovano così a Roma le ricerche di Johann Joachim Winckelmann nell’ordinamento delle collezioni vaticane, l’esperienza di Ennio Quirino Visconti per l’organizzazione del Museo Pio-Clementino, l’impegno di Antonio Canova per il recupero delle opere, bottino di guerra, i principi di tutela ribaditi da Quatremère de Quincy a sostegno della conservazione delle opere d’arte in situ, contro i loro trasporti e le spoliazioni.

Ma il testo più significativo nel senso della tutela dal Patrimonio è il chirografo del 1825 riguardante la ricostruzione della basilica ostiense firmato da Papa della Genga, perché sia “soddisfatto compiutamente il voto degli eruditi e di quanti zelano lodevolmente la conservazione degli antichi monumenti nello stato in cui sursero per opera de’ loro fondatori”.

Insomma il contatto con le opere antiche ritrovate crea l’idea di ricreare la storia e ricostruire l’ordine dei tempi con l’aiuto dei monumenti e nasce il concetto di bene pubblico si cerca di valorizzare l’intervento guardando all’ antico, e  mentre si prospetta un nuovo apprezzamento dell’antico si acquisisce una diversa coscienza critica. E lo Stato Pontificio è in prima linea a Roma in questa rivoluzione culturale.