Advertisement

Stati Uniti, negato il visto ad una suora proveniente dall’Iraq

Campo di Sharia | Campo di Sharia, Duhok - Iraq - 29 marzo 2015 | Daniel Ibáñez/CNA Campo di Sharia | Campo di Sharia, Duhok - Iraq - 29 marzo 2015 | Daniel Ibáñez/CNA

Dall’Iraq agli Stati Uniti, per raccontare il suo lavoro tra i cristiani perseguitati. Era il viaggio che avrebbe dovuto fare Suor Diana Momeka, della Sorelle Domenicane di Santa Caterina da Siena. Ma il governo degli Stati Uniti le ha negato il visto provvisorio di ingresso nel Paese. Il motivo? Secondo gli ufficiali USA, si temeva che la richiesta del visto non corrispondesse alle reali intenzioni della suora. Ovvero, che lei avrebbe usato il visto per entrare nel Paese, e poi emigrare illegalmente lì.

La storia è stata rivelata sulla rivista americana “National Review” da Ann Shea, direttore dell’Hudson Institute Center for Religious Freedom, che ha poi anche avuto una polemica con il dipartimento di Stato americano che contestava la sua versione dei fatti. Versione dei fatti che Ann Shea ha confermato punto per punto. Mostrando a sua volta alcune contraddizioni che lei notava nel lavoro del Consolato americano ad Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno.

Ecco la storia: suor Momeka doveva viaggiare a Washington insieme a una delegazione fatta di gruppi di minoranze religiose, inclusi Yazidi e musulmani sciiti. A tutti è stato dato un visto per poter partecipare a degli incontri ufficiali a Washington, tranne ad una: Suor Diana Momeka, l’unica cristiana proveniente dall’Iraq.

Shea sottolinea di aver visto la lettera con la quale è stata respinta la richiesta di visto di Suo Momeka, in cui veniva affermato: “Non è stata capace di dimostrare che le attività che intende praticare negli Stati Uniti sono in linea con la classificazione del visto.” Suor Momeka ha detto a Shea in una conversazione telefonica che è stato Christopher Patch, ufficiale del consolato, a spiegarle che il visto è stato negato perché lei è una “Internally displaced person,” ovvero una sfollata. In pratica, il Consolato la ha accusato di volerla ingannare, che in pratica la suora stesse falsamente affermando che lei voleva solo visitare Washington, mentre in segreto lei intendeva restare, praticando così una immigrazione illegale oppure addirittura chiedendo asilo politico.

Il piano di viaggio di Suor Momeka era quello di una visita di una settimana a metà maggio, per incontrare i comitati delle relazioni estere di Senato e Camera, e poi varie Ong basate a Washington, membri del dipartimento di Stato, USAID. Ha supportato la richiesta con vari documenti, tra cui una lettera della sua priora, Suor Maria Hana; lla prova che di essere stata assunta dal Babel College di Filosofia e Teologia e Erbil in Kurdistan per insegnare nell’anno accademico 2015-2016; l’invito dei suoi sponsors; l’appoggio della Rappresentante Anna Eshoo.

Advertisement

Nonostante questo, le è rimasto incollato addosso lo status di sfollata da quando ha lasciato la città di Qaraqosh – dove viveva e insegnava -  lo scorso agosto, sotto la minaccia dell’ISIS. E il Dipartimento di Stato americano non ha accettato la richiesta. Lei, nel frattempo, si è affermata come difensore della libertà religiosa e dei diritti umani, e questo le avrebbe almeno garantito una considerazione come un “leader religioso” da ingaggiare per contrastare l’estremismo violento, come segnalato dalla Quadriennal Diplomacy and Development Review del dipartimento di Stato.

Dopo la pubblicazione dell'articolo, il Dipartimento di Stato ha chiesto a Ann Shea di cambiare la sua versione, perché Christopher Patch non avrebbe “fatto alcuna intervista a suor Diana Momeka per la concessione del visto.” Shea ha replicato che la conversazione non era mai stata definita una intervista per ottenere il visto.

E aggiunge che Suor Momeka sarebbe stata parte di una delegazione in cui c’erano molte altre minoranze. Dunque, “se lo status di sfollata di Suor Diana era il problema, perché lo scorso ottobre altri sfollati Yazidi hanno ottenuto il visto?”