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Una Conferenza Episcopale, quattro Paesi, un appello all’Europa

Vescovo Laszlo Nemet | Vescovo Laszlo Nemet, di Zrenjanim  | Radio Marija Vescovo Laszlo Nemet | Vescovo Laszlo Nemet, di Zrenjanim | Radio Marija

La Conferenza Episcopale dei Santi Cirillo e Metodio comprende quattro diversi Paesi: la Serbia, il Montenegro, la Macedonia e il Kosovo. Istituita nel dicembre 2004 da San Giovanni Paolo II, la Conferenza Episcopale mette insieme, così, quattro territori che affrontano sfide simili, ma allo stesso tempo diverse, sperimentando una comunione difficile quando i loro Paesi sono in tensione tra loro. Una situazione, la loro, che rischia di essere dimenticata dall’Europa. Per questo, il vescovo Laszlo Nemet, di Zrenjanin (Serbia), presidente della Conferenza, chiede all’Europa che non si dimentichi di questi Paesi.

In una recente lettera, la vostra Conferenza Episcopale ha chiesto all’Europa di non dimenticarsi dei vostri Paesi. Perché?

Abbiamo a volte l’impressione che tra i nuovi problemi emersi in questo mondo – le guerre in Medio Oriente, il conflitto in Ucraina – siamo come una isola nella Comunità Europea e nella NATO. Siamo una isola, perché i Paesi intorno a noi, la Romania, la Bulgaria, la Grecia, l’Albania sono nella NATO, alcuni anche nella Comunità Europea. Noi invece siamo una isola, e nemmeno tanto pacifica. Prendiamo ad esempio lo Stato della Bosnia, dove ci sono problemi non risolti. Vero è che la Santa Sede ha mostrato molto interesse per noi, per la prima volta il Segretario di Stato vaticano, il Cardinale Pietro Parolin, è stato in visita in Serbia, ed è una cosa enorme per noi. Sappiamo, infatti, che la Chiesa serba ortodossa è contraria alla visita di qualunque Papa sul territorio serbo. Speriamo, insomma, di essere in grado di far sentire la nostra voce.

Ma quali sono le peculiarità della Conferenza Episcopale dei Santi Cirilli e Metodio?

La peculiarità è che ci sono quattro Paesi diversi che lavorano insieme. Per tre di loro la Santa Sede ha un nunzio apostolico, mentre in Kosovo, ancora non riconosciuto come Stato, il nunzio ha soltanto il titolo di delegato apostolico. Per dire la verità, questa ricchezza di nazioni e lingue ci fanno sperimentare la Chiesa in piccolo, e questo ci dà la forza di continuare a vivere insieme, anche se sono alcuni anni che chiediamo di essere costituiti in quattro conferenze autonome. Sarebbe importante poter avere una autonomia, perché è vero che c’è una ricchezza, ma c’è anche l’impossibilità di portare avanti programmi comuni. Le lingue, tutte diverse, così come le nostre differenze culturali non aiutano di certo.

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I vostri Stati a volte sono in tensione, penso ad esempio a quella tra Kosovo e Macedonia. Ma tra voi ci sono tensioni?

Non ci sono tensioni tra di noi. Ci sono domande di principio, soprattutto sul tema delle frontiere delle diocesi. Le nostre diocesi si sono formate automaticamente con il collasso della ex Jugoslavia, e il principio della Santa Sede è che i territori di una diocesi non vadano oltre i confini nazionali. Così per esempio ci sono domande aperte sulla arcidiocesi di Skopje e quella di Belgrado, perché le frontiere da noi non sono così marcate. Ma, al di là di questi problemi, viviamo tutti insieme in senso cristiano, ci incontriamo una volta l’anno e durante questa seduta c’è grande amicizia e interesse. Non abbiamo commissioni comuni, perché ognuno fa il suo lavoro, ma c’è molta amicizia tra noi.

Quali sono i risultati del dialogo ecumenico, una vera sfida specialmente in Serbia?

È un dialogo di amicizia, di testimonianza. È un ecumenismo di solidarietà e un ecumenismo del martirio comune. Noi cerchiamo di avere un contatto umano con tutti i rappresentanti delle altre confessioni cristiane, e a questo livello di vita quotidiano funziona benissimo: nella mia diocesi, quasi il 50 per cento dei matrimoni è rappresentato da matrimoni misti. Il problema più difficile è pregare insieme. Nella Settimana per l’Unità dei Cristiani non riusciamo ad incontrarci per le preghiere. In Kosovo, ci sono alcuni gruppi che si incontrano, ma ci sono molti problemi in questo senso. C’è un contatto molto forte tra Santa Sede e Belgrado, e ci riempie di gioia che ci sia una buona relazione.

Quanto pesa invece l’impatto del fenomeno migratorio?

Le migrazioni sono un fenomeno umano, non collegato con le religioni. Non ci siamo mai fatti la domanda se ci sono terroristi con i migranti. È molto interessante vedere i filmati del 2015, quando in 800 mila sono passati tra Macedonia e Serbia. Tutti, indipendentemente dalla religione, hanno fatto molto per aiutare i profughi. Nessuno ha mai preso i migranti come un pericolo per l’identità della nazione.

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Ma vi sentite più slavi o più europei?

Non siamo né slavi né europei. Ognuno di noi non dice di sé che ha radici europee, ma sottolineiamo prima se siamo cattolici o non cattolici. Consideri che i cattolici in Serbia sono al 60 per cento di origine ungherese, al 25 per cento di origine croata e i restanti di origine ceca, slovacca, bulgara tedesca. Di serbi cattolici ce ne sono poche centinaia, anche perché per nascita si è considerati tutti ortodossi.