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Una pastorale segno di speranza: in dialogo con Simone Fichera

L'intervista all’educatore e pedagogista, dottor Simone Fichera, formato in teologia presso l’università lateranense e componente del team ‘AGO Formazione’.

Immagine di repertorio | Immagine di repertorio | Credit InfoAns Immagine di repertorio | Immagine di repertorio | Credit InfoAns

“Di segni di speranza hanno bisogno anche coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani. Essi, purtroppo, vedono spesso crollare i loro sogni. Non possiamo deluderli: sul loro entusiasmo si fonda l’avvenire. E’ bello vederli sprigionare energie, ad esempio quando si rimboccano le maniche e si impegnano volontariamente nelle situazioni di calamità e di disagio sociale. Ma è triste vedere giovani privi di speranza; d’altronde, quando il futuro è incerto e impermeabile ai sogni, quando lo studio non offre sbocchi e la mancanza di un lavoro o di un’occupazione sufficientemente stabile rischiano di azzerare i desideri, è inevitabile che il presente sia vissuto nella malinconia e nella noia”. Da questo passo della bolla di indizione del giubileo, ‘Spes non confundit’, iniziamo un dialogo sulla pastorale giovanile con l’educatore e pedagogista, dottor Simone Fichera, formato in teologia presso l’università lateranense e componente del team ‘AGO Formazione’. 

Fichera, subito, ci dice: “Il tempo in cui siamo immersi, il presente in cui ha da incarnarsi la nostra Chiesa, è costituito di fragilità nuove. Non che il passato non fosse in sé irto di ispidi ostacoli da superare, ma si tratta probabilmente di fatiche simili in contesti nuovi. Basti pensare alla fatica di ingresso nelle posizioni quadro da parte dei giovani, o banalmente alla preponderanza del mondo virtuale nella vita comune di qualsiasi giovane. Viviamo un tempo in cui la speranza resta sconosciuta perché infondata, infondabile. La speranza non è un vezzo da sognatori, ma una virtù che ha bisogno di mani e sguardi capaci di promesse e questo siamo chiamati a fare come Chiesa, specie in questo anno giubilare”.

 

La pastorale della Chiesa è capace di fornire segni di speranza?

“Probabilmente in questo momento no. Spesso la pastorale sembra raggomitolata dentro il ‘già conosciuto’, il ‘si è sempre fatto così’, è incapace di stare nei contesti in cui la vita scorre davvero, non ristagna. Non si sporge verso fuori, chiede piuttosto ai giovani di entrare nello schema. I giovani cristiani, purtroppo, è facile distinguerli dalla massa, non per la luminosità del fervore, quanto più per la capacità di stare negli schemi che l’oratorio o la parrocchia chiede. E chi sa starci, di solito, è a rischio ristagno”.

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In quale modo la pastorale può educare?

“Credo avremmo bisogno di una pastorale davvero capace di uscita. Non si tratta di fare educativa di strada (che pure avrebbe una sua funzionalità se fatta bene), ma, più banalmente, di aprire i cancelli. Di permettere ai ‘casinisti’ di stare dentro orientando l’azione educativa alla creazione della relazione piuttosto che alla segnalazione delle norme. Perché è di quei figli che ha bisogno la chiesa. Di quelli meno amabili ha bisogno di prendersi cura. Dei ‘bravi ragazzi’ sanno aver cura tutti. E questo chiede competenza educativa, non solo passione”.

 

La Chiesa è capace di comprendere il linguaggio dei giovani?

“Anche rispetto al linguaggio facciamo fatica a intenderci certamente. Ma credo che la domanda vera non sia relativa al linguaggio, né tanto alla comunicazione, quanto alla capacità di cura. Al desiderio di paternità dei pastori e degli educatori (si intenda rivolto anche al femminile come senso di maternità). Abbiamo creato una chiesa di organizzatori, promotori, amministratori, ufficianti e ci siamo dimenticati di coltivare la paternità, la cura, la figliolanza, l’accompagnamento”.

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In quale modo si può rendere ‘attraente’ per i giovani l’oratorio?

“Credo che la risposta sarà deludente: non c’è oratorio capace di attrazione se chi lo abita non è attraente. I ragazzi non hanno bisogno di luoghi ‘fighi’ (si anche, ma non prioritariamente). Hanno bisogno di padri e madri, di amici veri. Coltivare queste capacità chiede competenza umana e professionale, lo ripeto. Non basta aver passione, non basta la vocazione. Ed allora viene a me da fare una domanda: se è così pungente il tema dei giovani, perché tanta parte di Chiesa è disposta a spendere risorse per restaurare gli affreschi e sceglie di risparmiare su una più necessaria formazione?”

 

Allora è possibile dare una definizione alla parola ‘pastorale’?

“Pastorale è educare ad un sapere che è complesso! Complesso perché fatto di tanti pezzi: è sapere che conosce, è sapere che agisce ed è sapere che comunica. La pastorale ha bisogno di uscire dalla paura di ‘commistionarsi’ con la vita della gente e lasciarsi inquinare dalla bellezza del presente che è tempo di salvezza! Se affermiamo, con le nostre scelte, che il presente e i suoi retaggi, non sono occasione di salvezza allora staremmo affermando che questo tempo è maledetto, che qui non c’è Kairos, e che la Chiesa ha fallito! Beh spoiler… non è così! Ci si può rimboccare le maniche e imparare a immischiarsi! Perché la pastorale è la vita della gente. E’: copula e non congiunzione!”

 

Di quale pastorale c’è bisogno?

“Una pastorale che testimoni e racconti come sia possibile la vita da cristiani oggi! Quali sono le skill tipiche del cristiano, le sue competenze relazionali, le attenzioni che lo caratterizzano. Una pastorale che non tema la strada e l’on-line. Una pastorale che incontra occhi e volti, che chiama per nome, perché riparte da ciò che è essenziale: la relazione personale. Perché in fondo è così da sempre: è davvero innovativo ciò che ci riporta all’essenziale!”

 

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