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Diplomazia pontificia, la preoccupazione dell’UNESCO su Santa Sofia a Istanbul

L’agenzia ONU della Cultura prende una posizione contro la decisione di convertire Santa Sofia in moschea. La reazione della Turchia. L’attesa della Santa Sede

Hagia Sophia | Hagia Sophia ad Istanbul | Wikimedia Commons Hagia Sophia | Hagia Sophia ad Istanbul | Wikimedia Commons

L’UNESCO ha preso una posizione sulla decisione del governo turco di utilizzare la chiesa di Santa Sofia ad Istanbul e quella di San Salvatore in Chora come moschee. Già moschee, e poi tramutate in musei dopo la rivoluzione di Kemal Ataturk che stabilì lo Stato moderno in Turchia, le due antiche chiese si trovano ora ad essere al centro di un contenzioso con la storia. Possono, ancora, essere patrimoni dell’umanità se parte della loro identità è stata cancellata?

Sullo sfondo c’è la decisione della diplomazia pontificia di rimanere silente, guardare gli sviluppi della situazione, e lasciare le reazioni alla Chiese locali. C’è stato un pronunciamento di Papa Francesco, piuttosto vago, al termine di un Angelus. C’è stata una dichiarazione delle Chiese cristiane di Turchia, più forte. E c’è anche la consapevolezza di voler mantenere un dialogo, perché il piccolo gregge cristiano non ha nemmeno un riconoscimento giuridico in Turchia.

In una settimana in cui la diplomazia comincia ad andare in vacanza, sono i vescovi locali a muoversi davvero: in Guatemala hanno denunciato il governo per una rimozione autoritaria; in Giappone lanciano i soliti dieci giorni di preghiera per la pace che portano al ricordo delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. La Santa Sede è intervenuta al FAO pre-summit sul Cibo. Dopo l’intervento di Papa Francesco, letto dall’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, è stato il Cardinale Peter Tturkson, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, a intervenire per conto della Santa Sede.

                                                FOCUS UNESCO

L’UNESCO “preoccupata” per la trasformazione di Santa Sofia in Moschea

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Ha un interesse particolare anche per la diplomazia pontificia lo scontro in atto tra l’UNESCO, l’agenzia ONU per la cultura, e la Turchia. Oggetto del contendere: la decisione turca dello scorso anno di trasformare in moschee la basilica di Santa Sofia e la chiesa di San Salvatore in Chora ad Istanbul.

Il comitato del patrimonio mondiale dell’UNESCO, che aveva mandato degli ispetttori già lo scorso anno, ha espresso la sua “preoccupazione” e il suo dissenso sulla scelta di trasformare in moschee Santa Sofia e San Salvatore in Chora. Il comitato rappresenta 21 Paesi, e si è riunito il 23 luglio scorso nelle sua 44esima sessione. Nella dichiarazione finale, ha espresso “rammarico” di fronte alla decisione turca nonostante gli appelli di salvaguardare lo statuto di museo aperto a tutti, e si è detto preoccupata su come l’uso universale dei due siti sia messo a rischio dal fatto che siano sottoposti ad una autorità islamica.

Per questo, l’UNESCO ha chiesto al governo turco un rapporto sulla manutenzione dei due monumenti entro febbraio 2022. Come già aveva detto dopo la decisione di Erdogan, l’UNESCO ribadisce che il riconoscimento di bene universale impone agli Stati di non modificare lo statuto sul valore universale del bene senza un dialogo preventivo. Dato che il dialogo, lamentano, non c’è stato, Santa Sofia potrebbe non essere più riconosciuta come patrimonio dell’umanità

Andrey Azoulay, direttore generale dell’UNESCO, ha sottolineato: “Santa Sofia è un capolavoro architettonico e una testimonianza unica dell’incontro tra Europa e Asia nel corso dei secoli. Il suo statuto di museo riflette l’universalità della sua eredità e ne fa un potente simbolo di dialogo”.

Non ci sono pronunciamenti sul tema della diplomazia della Santa Sede, che si è tenuta sempre molto cauta sull’argomento. La Turchia, d’altro canto, lamenta una violazione della sovranità operata dai pronunciamenti dell’UNESCO. I vescovi turchi hanno deciso di fare un passo indietro, notando come a loro manchi anche lo statuto giuridico per parlare, mentre il Patriarca Armeno di Istanbul aveva proposto che si mantenesse Santa Sofia come luogo di culto, che fosse usato sia da musulmani che da cristiani.

                                                FOCUS AMERICA LATINA

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I vescovi per il bicentenario del Perù

Si intitola “Tutti uniti per il Perù” il videomessaggio inviato dall’arcivescovo Miguel Cabrejos Vidarte, arcivescovo di Trujillo e presidente della Conferenza Episcopale Peruviana, in o ccasione del Bicentenario dell’Indipendenza del Perù, che si è celebrato il 28 e il 29 luglio.

Nel videomessaggio, l’arcivescovo Cabrejos invita a “condividere la gioia di essere eredi di una grande storia”, ma anche di guardare ad alcune sfide “urgenti di oggi” a partire dalla necessità di “difendere con fermezza l’istituzionalità democratica del nostro amato Perù, per costruire la pace e lo sviluppo umano integrale, rifiutando ogni forma di violenza, da qualsiasi parte provenga”.

I vescovi chiedono di impegnarsi nella riconciliazione e nell’amicizia sociale, esortano a rinnovare “l’impegno per la vita e per il rispetto della dignità delle persone, soprattutto per i più poveri e vulnerabili, dando priorità alle famiglie intere che stanno soffrendo gli effetti della pandemia”.

Il presidente della Conferenza Episcopale Peruviana chiede anche di costruire, e non distruggere, il Paese, cercando un nuovo inizio, riaffermando l’impegno per l’unità attraverso “un dialogo sincero, creando ponti di comunione e solidarietà per superare le differente e la polarizzazione che aumentano le distanze”.

La Chiesa peruviana “riafferma la sua volontà di continuare a lavorare fraternamente, ascoltando tutti i settori sociali, sempre nel rispetto della dignità e dei diritti della persona”.

Guatemala, i vescovi prendono posizione contro il governo

La Conferenza Episcopale del Guatemala ha rilasciato una dura nota per contestare l’improvvisa destituzione del procuratore contro l’impunità Juan Francisco Sandoval, costretto a lasciare il Paese il giorno dopo la sua destituzione, il 24 luglio, per non mettere a rischio la sua incolumità.

Sandoval aveva denunciato la mancanza di appoggio da parte del governo e gli ostacoli posti al suo lavoro, noto e apprezzato a livello internazionale. Una nota della Conferenza Episcopale del Guatemala, firmata dall’arcivescovo Gonzalo de Villa y Vazquez, di Città del Guatemala, presidente, ha stigmatizzato “l’improvvisa destituzione del procuratore Sandoval”, la quale “secondo autorevoli uomini e donne di diritto è stata illegale e arbitraria”.

La Conferenza Episcopale del Guatemala sottolinea di far propria “la protesta dei cittadini nell’avvertire che questo fatto indica una chiara retrocessione nel lavoro per una efficace lotta alla corruzione e all’impunità, che tanto danno hanno arrecato allo sviluppo integrale del Paese”.

I vescovi hanno anche sottolineato che “coloro che si sono rallegrati dell’allontanamento lo hanno fatto perché si sentono al sicuro e a proprio agio quando il regime di impunità si consolida”.

Per i vescovi l’improvvisa destituzione del procuratore Sandoval ha fatto un danno irreparabile al paese”, dato che “gli importanti casi che stava gestendo rallentano, è enorme poi la perdita di credibilità del Pubblico Ministero, crescerà l’indignazione dei cittadini, aumenteranno le proteste sociali e il livello di conflittualità, si complicherà ulteriormente la già carente gestione della pandemia e il tortuoso processo della vaccinazione”.
Per questo, i vescovi si appellano agli operatori della giustizia affinché “si impegnino maggiormente nella ricerca della giustizia, costruendo la pace come il bene maggiore, perché siano coraggiosi nel riconoscere i propri errori e non perdano l’orizzonte del bene comune, come massima espressione del senso dello Stato del Guatemala”.

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                                                FOCUS ASIA

Giappone, i vescovi lanciano gli annuali dieci giorni per la pace

Come ogni anno, la Conferenza Episcopale Giapponese lancia i “Dieci giorni di preghiera per la pace”. Sono dieci giorni di preghiera che precedono la commemorazione dello sganciamento delle bombe atomiche ad Hiroshima e Nagasaki.

Nel loro messaggio, i vescovi notano che “in aggiunta ai conflitti armati e alla difficile situazione dei rifugiati in tutto il mondo”, una “nuova Guerra Fredda” tra Stati Uniti e Cina “sta avendo un significativo impatto negativo sulla stabilità politica ed economica della comunità internazionale”.

I vescovi sottolineano che è necessario “sperare che le nazioni faranno sempre sforzi pazienti per costruire migliori relazioni”. I vescovi denunciano anche che le nazioni che sono potenze nucleari o nazioni come il Giappone sotto l’ombrello nucleare “considerano come irrealistico” il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari, e così non lo ratificano. Il trattato fu fortemente sostenuto dalla Santa Sede, che partecipò persino ad una votazione alle Nazioni Unite, cosa che da Osservatore Permanente non aveva mai fatto.

I vescovi pregano che “molte nazioni non nucleari ratifichino il trattato, in modo che i poteri nucleari si sentano pressati a ratificarlo, considerando che gli scontri tra le nazioni e le armi di distruzione di massa minacciano la pace”.

I vescovi del Giappone non hanno paura di dire che “in nazioni come il Myanmar e l’Afghanistan, i diritti umani sono ignorati da regimi oppressivi e le persone sono costrette a vivere senza pace. Stiamo sacrificando le persone per avere in cambio pretese di sicurezza nazionale e prosperità?”

I vescovi del Giappone non dimenticano la pandemia, le 189 milioni di persone colpite, e notano che le persone contagiate e i loro familiari sono a volte soggette a discriminazione, mentre anche gli operatori sanitari che hanno trattato il virus hanno sofferto, e “le nazioni più povere sono messe alla fine della lista per la distribuzione dei vaccini, accrescendo il loro rischio per la vita e la distruzione sociale”.

I vescovi giapponesi ricordano che “stiamo tutti soffrendo”, e che le nazioni più prospere “devono comprendere, aiutare e supportare quelle più povere”, e dato che “dipendiamo sugli altri per vivere, dobbiamo proteggere non solo le nostre vite, ma anche quelle degli altri”.

L’indicazione è quella di condividere il documento sulla Fraternità Umana siglato da Papa Francesco e dal Grande Imam di al Azhar il 4 febbraio 2019, e ricordare che “non importa quale sia l’ambiente naturale o sociale, la nostra priorità deve essere la protezione di ogni vita” e nel farlo “speriamo di creare pace”. Perché la vita – concludono i vescovi – “è più della vita individuale. Dobbiamo ricordare che tutte le vite sono interconnesse. Perciò, proteggere quelle connesioni proteggerà le vite individuali allo stesso tempo. La pace è lo stato in cui le vite individuali sono soddisfatte, c’è armonia, e ciascuna vita è piena di gioia.                                     

            FOCUS MULTILATERALE

.Il Cardinale Turkson alla FAO: “Promuovere i sistemi alimentari indigeni”

Intervenendo al pre-summit delle Nazioni Unite sui Sistemi Alimentari che si è tenuto a Roma il 26 luglio, il Cardinale Peter Turkson, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano integrale, ha sottolineato che la promozione di “sistemi alimentari indigeni” è necessaria per aumentare la produzione del cibo in tutto il mondo di oltre il 50 per cento. In questo modo, sarà possibile sfamare gli oltre 9 milliardi di persone che si prevede popoleranno la terra entro il 2050.

Il Cardinale Turkson interveniva sul tema “Sistemi alimentari indigeni e dieta naturale”. Il Cardinale ha spiegato che l’utilizzo degli agroecosistemi “sarà utile soprattutto nei Paesi con sistemi agricoli sensibili al cambiamento climatico”, e per questo la FAO “ha individuato sette regioni socioculturali per rappresentare i popoli indigeni del mondo”.

Le sette regioni sono Africa, Asia, America Centrale, America del Sud e Caraibi, Artide, Europa Centrale e Orientale, Federazione Russa, Asia Centrale e Transcaucasia, America del Nord e Pacifico.

Successivamente, dice il Cardinale Turkson, si deve “identificare e applicare le istituzioni informali che hanno permesso ai sistemi alimentari di persistere nel tempo” e “organizzare i sistemi alimentari di queste regioni nel loro sviluppo attraverso il tempo”.

Il cardinale ha anche chiesto di ristabilire “i sistemi efficaci di risorse bioculturali in tutto il mondo” operati dagli indigeni, anche perché la loro produzione alimentare ha un potenziale “anche in caso di cambiamenti di uso del suolo del clima”. Il prefetto del Dicastero dello Sviluppo Umano integrale sottolinea che l’agricoltura commerciale è deleteria per le specie alimentari indigene, e nota che anche i metodi della fertilizzazione “sono inefficaci o addirittura dannosi su terreni fertili, colture sane e sementi piccole e locali. Tuttavia, gli interessi economici guidano alcune di queste pratiche genocide!”