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Venti anni fa, la profezia della Ecclesia in Europa di San Giovanni Paolo II

A quattro anni dal Sinodo sull’Europa, San Giovanni Paolo II promulgò una esortazione che sorprende ancora oggi per la lucidità delle analisi

Giovanni Paolo II, Santiago de Compostela | Giovanni Paolo II durante il viaggio a Santiago de Compostela nel 1982, quando lanciò l'Atto Europeistico | Fondazione Giovanni Paolo II Giovanni Paolo II, Santiago de Compostela | Giovanni Paolo II durante il viaggio a Santiago de Compostela nel 1982, quando lanciò l'Atto Europeistico | Fondazione Giovanni Paolo II

Il figlio dell’uomo troverà la fede sulla nostra terra?” È la domanda che fa da sfondo alla Ecclesia in Europa, l’esortazione post-sinodale di San Giovanni Paolo II che concludeva il Sinodo sull’Europa del 1999. Era l’ultimo dei sinodi continentali che volevano preparare al Giubileo del Millennio guardando a speranze ed attese di ciascun continente. Ma era, soprattutto, il secondo Sinodo sul continente europeo in un decennio, dopo il primo nel 1991 che serviva ad analizzare, per la prima volta, la situazione del continente europeo dopo il crollo del Muro di Berlino e l’apertura alla fede di un mondo nuovo, quello degli Stati di là della Cortina di Ferro, dove la fede era stata conservata nonostante l’oppressione, o forse solo per quello.

In un decennio, però, il panorama era cambiato, e sembravano essere esauriti quei segni di speranza che avevano caratterizzato il primo Sinodo sull’Europa. Dall’entusiasmo per la possibilità di esprimere la propria fede al rischio di essere irrilevanti, dal riconoscimento dell’apertura del mondo nuovo alla paura che questo mondo si sia già chiuso alla fede, in un processo quasi inesorabile che si era chiuso in meno di dieci anni.

San Giovanni Paolo II percepisce tutto questo, e non potrebbe essere altrimenti. Lui, che ha voluto già a Santiago di Compostela un “Atto europeistico” nel 1982, sa che l’Europa ha bisogno di respirare con i due polmoni di oriente e occidente. Ma, soprattutto, sa che in questo gioco di organi che fanno il corpo vivo del continente europeo, il cuore è il cristianesimo, e in particolare l’annuncio di una persona, Gesù Cristo. È Gesù Cristo la speranza dell’Europa, e questo è già nelle linee guida del Sinodo sull’Europa. Con l’esortazione post-sinodale, San Giovanni Paolo II non fa che certificarlo, che gridarlo ai quattro venti, cercando di riportare l’Europa a Cristo in uno sforzo di evangelizzazione che, visto venti anni dopo, appare quasi commovente.

Giovanni Paolo II rileggeva la situazione della Chiesa in Europa alla luce dell’Apocalisse. Come tra le sette Chiese dell’Apocalisse ve ne furono alcune povere di fede, anche tra le Chiese di Europa ce ne sono alcune povere di fede. “´Il Figlio dell’uomo – si chiedeva San Giovanni Paolo II - quando verrà, troverà la fede sulla terra?´ (Lc 18, 8). La troverà su queste terre della nostra Europa di antica tradizione cristiana? È un interrogativo aperto che indica con lucidità la profondità e drammaticità di una delle sfide più serie che le nostre Chiese sono chiamate ad affrontare”.

Rileggere l’esortazione è importante per comprendere che la fotografia fatta in quel tempo dai padri sinodali vale ancora oggi. Tra le sfide, quelle della vita, dall’aborto all’eutanasia, ma anche quella sulla pastorale dei divorziati risposati, fino a quella del dialogo ecumenico e interreligioso. E c’è poi il tema, grandissimo, della libertà religiosa. Perché la Chiesa – scriveva Giovanni Paolo II - chiede libertà religiosa, e ribadisce “che la reciprocità nel garantire la libertà religiosa sia osservata anche in Paesi di diversa tradizione religiosa, nei quali i cristiani sono minoranza”.  E per questo “si comprende la sorpresa e il sentimento di frustrazione dei cristiani che accolgono, per esempio in Europa, dei credenti di altre religioni dando loro la possibilità di esercitare il loro culto, e che si vedono interdire l’esercizio del culto cristiano nei Paesi in cui questi credenti maggioritari hanno fatto della loro religione l’unica ammessa e promossa”.

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L’Ecclesia in Europa, però, è prima di tutto una esortazione che chiede di ripartire da Gesù Cristo e rievangelizzare il continente di fronte allo “smarrimento della memoria e delle eredità cristiane”, accompagnato da “una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale, come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia”.

Non si riconosce il cristianesimo, e per questo “tanti uomini e donne sembrano disorientati, incerti, senza speranza. E non pochi cristiani condividono questi stati d’animo”. Questo provoca “una sorta di paura nell’affrontare il futuro”, segnalata dal “il vuoto interiore che attanaglia molte persone, e la perdita del significato della vita” che si rivela “nella paura di fare figli e nel rifiuto di impegni definitivi, nel sacerdozio come nel matrimonio”.

Insomma, si deve tornare a Cristo, perché se non c’è una fede, l’esistenza resta frammentata e allora vengono fuori “razzismo, egocentrismo, conflitti etnici, una generale indifferenza etica e una cura spasmodica per i propri interessi e privilegi”. Si assiste a una globalizzazione “che invece di indirizzare verso una più grande unità del genere umano, rischia di seguire una logica che emargina i più deboli e accresce il numero dei poveri della terra”. E con il diffondersi dell’individualismo, c’è “un crescente affievolirsi della solidarietà inter-personale e molte persone si sentono più sole, lasciate in balia di se stesse, senza reti di sostegno affettivo”.

Di fronte al nichilismo filosofico e del pragmatismo che in quei tempi cominciavano a diffondersi in Europa, la Chiesa non può offrire altro che la fede in Gesù Cristo e una speranza che “non si fonda su un’ideologia utopistica”. E poiché le istituzioni europee hanno per scopo dichiarato la tutela dei diritti della persona umana, il Papa chiedeva ai responsabili di “alzare la voce quando sono violati i diritti umani dei singoli, delle minoranze e dei popoli, a cominciare dal diritto alla libertà religiosa; di riservare la più grande attenzione a tutto ciò che riguarda la vita umana dal suo concepimento fino alla morte naturale e la famiglia fondata sul matrimonio”. E chiedeva di “affrontare secondo giustizia ed equità e con senso di grande solidarietà il crescente fenomeno delle migrazioni, rendendole nuova risorsa per il futuro europeo, e di fare ogni sforzo perché ai giovani venga garantito un futuro veramente umano con il lavoro, la cultura, l’educazione ai valori morali e spirituali”.

Per tutto questo “è necessaria una presenza di cristiani, adeguatamente formati e competenti, nelle varie istanze e Istituzioni europee, per concorrere, nel rispetto dei corretti dinamismi democratici e attraverso il confronto delle proposte, a delineare una convivenza europea sempre più rispettosa di ogni uomo e di ogni donna e, perciò, conforme al bene comune”.

A che punto siamo oggi? Mentre ci troviamo di fronte ad una guerra nel cuore dell’Europa, ci si interroga sulla necessità di superare le ferite storiche ed etniche, ma anche gli interessi personali, per trovare una nuova via per la pace. Questa esortazione può essere, nel caso, una linea guida. Perché dice una verità ancora attuale, e cioè che Cristo è la speranza dell’Europa.

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