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Le risposte di Papa Francesco ai primi cinque "dubia" dei cardinali

Il testo pubblicato sul sito del Vaticano

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"Cari fratelli, anche se non sempre mi sembra prudente rispondere alle domande rivolte direttamente alla mia persona, e sarebbe impossibile rispondere a tutte, in questo caso mi è sembrato opportuno farlo a causa della vicinanza del Sinodo". Così inizia il testo di Papa Francesco in risposta ai cinque "dubia" proposti da cinque porporati su alcune questioni che riguardano il sinodo in una lettera del 10 luglio.  Il "responsum" ha avuto la autorizzazione del Papa ad essere reso noto, il 25 settembre, anche se è stato inviato l' 11 luglio, come risulta dalla nota del prefetto del Dicastero della Dottrina della fede.

I cinque cardinali non hanno ritenuto questo "responsum" chiaro e hanno inviato altri 5 "dubia".

 

Il testo è in spagnolo, ecco una nostra traduzione.

 

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Domanda 1

La risposta dipende dal significato che voi date alla parola "reinterpretare". Se si intende come «interpretare meglio» l'espressione è valida. In questo senso il Concilio Vaticano ll ha affermato che è necessario che con il compito degli esegeti - aggiungo dei teologi - "il giudizio della Chiesa stia maturando" (Conc. Ecum. Vat. ll, Const. dogm. Dei Verbum, 12).

Pertanto, mentre è vero che la divina Rivelazione è immutabile e sempre vincolante, la Chiesa deve essere umile e riconoscere che non esaurisce mai la sua insondabile ricchezza e ha bisogno di crescere nella sua comprensione.

Di conseguenza matura anche nella comprensione di ciò che lei stessa ha affermato nel suo Magistero.

I cambiamenti culturali e le nuove sfide della storia non modificano la Rivelazione, ma possono stimolarci a spiegare meglio alcuni aspetti della sua ricchezza traboccante che offre sempre di più.

È inevitabile che questo possa portare a una migliore espressione di alcune affermazioni passate del Magistero, e infatti è successo così nel corso della storia.

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D'altra parte, è vero che il Magistero non è superiore alla Parola di Dio, ma è anche vero che sia i testi delle Scritture che le testimonianze della Tradizione hanno bisogno di un'interpretazione che permetta di distinguere la loro sostanza perenne dai condizionamenti culturali. È evidente, per esempio, nei testi biblici (come Esc 21, 20-21 ) e in alcuni interventi magistrali che tolleravano la schiavitù (Cf. Nicola V, Bula Dum Diversas, 1452). Non è un tema minore data la sua intima connessione con la verità perenne della dignità inalienabile della persona umana. Questi testi hanno bisogno di un'interpretazione. Lo stesso vale per alcune considerazioni del Nuovo Testamento sulle donne (1 Cor 11, 3-10; 1 Tim 2, 11-14) e per altri testi delle Scritture e testimonianze della Tradizione che oggi non possono essere ripetuti materialmente.

È importante sottolineare che ciò che non può cambiare è ciò che è stato rivelato "per la salvezza di tutti" (Conc. Ecum. Vat. ll, Const. dogm. Dei Verbum, 7). PER QUESTO la Chiesa deve discernere costantemente tra ciò che è essenziale per la salvezza e ciò che è secondario o è meno direttamente collegato a questo obiettivo. A questo proposito mi interessa ricordare ciò che San Tommaso d'Aquino affermava: "più si scende al particolare, più aumenta l'indeterminazione" (Summa Theologiae 1-1 1, q. 94, art. 4).

Infine, una singola formulazione di una verità non potrà mai essere compresa in modo adeguato se presentata solitaria, isolata dal ricco e armonioso contesto di tutta la Rivelazione. La "gerarchia delle verità" implica anche collocare ciascuna di esse in un'adeguata connessione con le verità più centrali e con la totalità dell'insegnamento della Chiesa. Questo può finalmente portare a diversi modi di esporre la stessa dottrina, anche se "quella che sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, questo può sembrare loro una dispersione imperfetta". Ma la realtà è che questa varietà aiuta a manifestarsi e sviluppare meglio i vari aspetti dell'inesauribile ricchezza del Vangelo" (Evangelii gaudium, 49). Ogni linea teologica ha i suoi rischi ma anche le sue opportunità.

 

Domanda 2

La Chiesa ha una concezione molto chiara del matrimonio: un'unione esclusiva, stabile e indissolubile tra un maschio e una donna, naturalmente aperta a generare figli. Solo quell'unione chiama "matrimonio". Altre forme di unione lo fanno solo "in modo parziale e analogo" (Amoris laetitia 292), quindi non possono essere chiamate rigorosamente "matrimonio".

Non è una semplice questione di nomi, ma la realtà che chiamiamo matrimonio ha una costituzione essenziale unica che richiede un nome esclusivo, non applicabile ad altre realtà. Senza dubbio è molto più di un semplice "ideale".

Per questo motivo la Chiesa evita ogni tipo di rito o sacramentale che possa contraddire questa convinzione e far intendere che si riconosce come matrimonio qualcosa che non lo è.

Tuttavia, nel trattare con le persone non dobbiamo perdere la carità pastorale, che deve attraversare tutte le nostre decisioni e atteggiamenti. La difesa della verità oggettiva non è l'unica espressione di quella carità, che è anche fatta di gentilezza, di pazienza, di compressione, di tenerezza, di incoraggiamento. Di conseguenza, non possiamo costituirci in giudici che solo negano, rifiutano, escludono.

Per questo la prudenza pastorale deve discernere adeguatamente se ci sono forme di benedizione, richieste da una o da più persone, che non trasmettono una concezione sbagliata del matrimonio. Perché quando si chiede una benedizione si sta esprimendo una richiesta di aiuto a Dio, una supplica per poter vivere meglio, una fiducia in un Padre che può aiutarci a vivere meglio.

D'altra parte, mentre ci sono situazioni che dal punto di vista oggettivo non sono moralmente accettabili, la stessa carità pastorale ci impone di non trattare solo come "peccatori" altre persone la cui colpevolezza o responsabilità può essere attenuata da vari fattori che influenzano l'imputabilità soggettiva (Cf. san Giovanni Paolo ll, Reconciliatio et Paenitentia, 17).

Le decisioni che, in certe circostanze, possono far parte della prudenza pastorale, non devono necessariamente diventare una norma. In altre parole, non è conveniente che una Diocesi, una Conferenza Episcopale o qualsiasi altra struttura ecclesiale abiliti costantemente e ufficialmente procedure o riti per tutti i tipi di questioni, poiché tutto "quello che fa parte di un discernimento pratico di fronte a una situazione particolare non può essere elevato alla categoria di una norma", perché questo "darebbe luogo a una casistica insopportabile" (Amoris laetitia 304). Il Diritto Canonico non deve e non può comprendere tutto, e nemmeno le Conferenze Episcopali con i loro vari documenti e protocolli dovrebbero pretenderlo, perché la vita della Chiesa scorre attraverso molti canali oltre a quelli normativi.

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Domanda 3

Mentre voi riconoscete che la suprema e piena autorità della Chiesa è esercitata, sia dal Papa a causa del suo ufficio, sia dal collegio dei vescovi insieme al suo capo il Romano Pontefice (Cf. Conc. Ecum. Vati ll, Const. dogm. Lumen gentium, 22), tuttavia con questi dubia voi stessi manifestate il vostro bisogno di partecipare, di avere un'opinione libera e di collaborare, e così state chiedendo una qualche forma di "sinodalità" nell'esercizio del mio ministero.

La Chiesa è "misterio di comunione missionaria", ma questa comunione non è solo affettiva o eterea, ma implica necessariamente una reale partecipazione: che non solo la gerarchia ma tutto e/ Popolo di Dio in modi diversi e a vari livelli possa far sentire la sua voce e sentirsi parte del cammino della Chiesa. In questo senso possiamo dire che la sinodalità, come stile e dinamismo, è una dimensione essenziale della vita della Chiesa. Su questo punto ha detto cose molto belle san Giovanni Paolo II in Novo millennio ineunte.

Un'altra cosa è sacralizzare o imporre una certa metodologia sinodale che piace a un gruppo, renderla una norma e un canale obbligatorio per tutti, perché questo porterebbe solo a "congelare" il cammino sinodale ignorando le varie caratteristiche delle varie Chiese particolari e la variegata ricchezza della Chiesa universale.

Domanda 4

"Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale differiscono essenzialmente" (Conc. Ecum. Vat. ll, Const. dogm. Lumen gentium, 10). Non è conveniente sostenere una differenza di grado che implichi considerare il sacerdozio comune dei fedeli come qualcosa di "seconda categoria" o di valore inferiore ("un grado più basso"). Entrambe le forme di sacerdozio si illuminano e si sostengono a vicenda.

Quando San Giovanni Paolo ha insegnato che bisogna affermare "in modo definitivo" l'impossibilità di conferire l'ordinazione sacerdotale alle donne", non stava in alcun modo sminuendo le donne e concedendo un potere supremo ai maschi. San Giovanni Paolo ll ha anche affermato altre cose. Per esempio, che quando parliamo della potestà sacerdotale "ci troviamo nel campo della funzione, non della dignità o della santità" (san Juan Pablo ll, Christifide/es laici, 51). Sono parole che non abbiamo accolto abbastanza. Ha anche sostenuto chiaramente che mentre solo il sacerdote presiede l'Eucaristia, i compiti "non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri" (san Juan Pablo ll, Christifideles laici, nota 190; Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter Insigniores, VI). Ha anche affermato che se la funzione sacerdotale è "gerarchica", non deve essere intesa come una forma di dominio, ma "è totalmente ordinata alla santità dei membri di Cristo" (san Juan Pablo ll, Mulieris dignitatem, 27). Se questo non viene compreso e non si tiri fuori le conseguenze pratiche di queste distinzioni, sarà difficile accettare che il sacerdozio sia riservato solo ai maschi e non saremo in grado di riconoscere i diritti delle donne o la necessità che partecipino, in vari modi, alla conduzione della Chiesa.

D'altra parte, per essere rigorosi, riconosciamo che una dottrina chiara e autorevole sulla natura esatta di una "dichiarazione definitiva" non è ancora stata sviluppata in modo esaustivo. Non è una definizione dogmatica, eppure deve essere rispettata da tutti. Nessuno può contraddirla pubblicamente eppure può essere oggetto di studio, come nel caso della validità delle ordinazioni nella Comunione anglicana.

Domanda 5

Il pentimento è necessario per la validità dell'assoluzione sacramentale, e implica lo scopo di non peccare. Ma qui non c'è la matematica e ancora una volta devo ricordare che il confessionale non è una dogana. Non siamo proprietari, ma umili amministratori dei Sacramenti che nutrono i fedeli, perché questi doni del Signore, più che reliquie da custodire, sono aiuti dello Spirito Santo per la vita delle persone.

Ci sono molti modi per esprimere il rimpianto. Spesso, nelle persone che hanno un'autostima molto ferita, dichiararsi colpevoli è una tortura crudele, ma il solo fatto di avvicinarsi alla confessione è un'espressione simbolica di pentimento e di ricerca dell'aiuto divino.

Voglio anche ricordare che "a volte è difficile per noi dare luogo nella pastorale all'amore incondizionato di Dio" (Amoris laetitia 311), ma dobbiamo impararlo. Seguendo san Giovanni Paolo ll, sostengo che non dobbiamo esigere dai fedeli propositi di emendamento troppo precisi e sicuri, che in fondo finiscono per essere astratti o addirittura egomaniaci, ma che anche la prevedibilità di una nuova caduta "non pregiudica l'autenticità dello scopo" (san Giovanni Paolo ll, Lettera al Card William W, Baum e ai partecipanti al corso annuale della Penitenzieria Apostolica, 22 marzo 1996, 5).

Infine, deve essere chiaro che tutte le condizioni che di solito sono messe nella confessione, generalmente non sono applicabili quando la persona si trova in una situazione di agonia, o con le sue capacità mentali e psichiche molto limitate.