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Il primato dell’amore. V Domenica del Tempo Ordinario

Il commento al Vangelo domenicale di S. E. Mons. Francesco Cavina

Gesù a Cafarnao - Pd |  | Gesù a Cafarnao - Pd Gesù a Cafarnao - Pd | | Gesù a Cafarnao - Pd

Il Vangelo di questa domenica continua il racconto di come Gesù viveva le sue giornate a Cafarnao. Egli trascorreva il suo tempo alternando la predicazione del Regno di Dio con la guarigione dei malati e degli indemoniati. Il Signore si trovava, dunque, a confrontarsi con tutte quelle situazioni che fanno soffrire l’uomo: ogni sorta di malattia e, in più, quel male oscuro, il più terribile di tutti, che è la possessione diabolica.

Nasce spontanea la domanda: perché tanta sofferenza affligge l’umanità? Da dove viene? Perché la vita dell’uomo è segnata nel corpo da malattie, dolori, fame, morte e nello spirito da scoraggiamento, solitudine, tristezza che possono portare a maledire, come Giobbe, il giorno della propria nascita? Perché esiste un abisso tra il nostro desiderio di benessere e di pienezza e la realtà della nostra condizione?

La Parola di Dio insegna che questa situazione non è voluta da Dio, ma viene da una scelta sbagliata dei nostri primogenitori che si chiama peccato originale e che condiziona la vita di ogni persona che viene al mondo. Il peccato, nella Sacra Scrittura viene presentato come un “mostro”, un male che può giungere a pervertire la mente e la volontà dell’uomo e portarlo a rifiutare la sua condizione di creatura e credere di potersi sostituire a Dio, che è il Creatore dell’universo. Da questo capovolgimento di rapporti emergono tutti i mali che affliggono l’umanità: è bene solo ciò che io ritengo utile; il bene ed il male vengono stabiliti dalla maggioranza; la libertà si riduce a capriccio personale. Tutto diviene funzionale ai desideri degli adulti, anche il dono della vita.

I vescovi italiani nel Messaggio per la 46^ Giornata Nazionale per la Vita ricordano, tra l’altro, come nella società guidata da motivazioni egoistiche e ideologiche l’aborto “indebitamente presentato come diritto, viene sempre più banalizzato”. Al riguardo, l’Associazione Pro Vita e Famiglia ha emesso un comunicato in cui si afferma che «Il 96% dei biologi, su un totale di oltre 5.500 specialisti intervistati, riconosce l’umanità del concepito e che la vita inizia nel momento della fecondazione. La scienza, dunque, dice in modo incontrovertibile che il nascituro è uno di noi. Conseguentemente chiede alla politica italiana di adeguare la legge alla scienza e riconoscere la capacità giuridica e l’umanità del concepito. Vanno, dunque, prese come un saggio richiamo le parole del Messaggio della Conferenza Epistola Italiana: Siamo sicuri che domani non si guarderà con orrore a quelle [negazioni della vita] di cui siamo oggi indifferenti testimoni o cinici operatori? In tal caso non basterà invocare la liceità o la “necessità” di certe pratiche per venire assolti dal tribunale della storia.

Il Figlio di Dio è venuto sulla terra per proclamare il primato dell’amore, l’unica via per una vita felice e riuscita. Possiamo veramente riconoscere che la venuta di Cristo ha inaugurato nel mondo  l’unica vera rivoluzione credile: la liberazione dalla prigione del proprio “io” e dei propri limitati orizzonti esistenziali per vivere il primato dell’amore. A tutti coloro che lo accolgono, il Signore mette a disposizione tanti doni di grazia - i sacramenti, la sua Parola, una comunità di fratelli - che rende capaci di amare come Lui. In tale modo si diventa suoi  collaboratori nella missione di rigenerare a vita nuova tutta l’umanità.

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Gesù dopo essere stato impegnato in questa febbrile attività apostolica si ritira su un monte per pregare. Il Signore ricerca il silenzio e la “compagnia della solitudine”. Una solitudine che non è ripiegamento su se stesso, fuga dalle responsabilità, ma ricca di presenze: c’è la presenza del Padre e dello Spirito Santo; c’è la presenza della folla e di tutti coloro che soffrono nel corpo e nello spirito;  c’è la presenza degli amici. Il silenzio è necessario per valorizzare queste presenze e superare la superficialità con cui troppo spesso ci si relaziona con esse.