Mentre il giro passa dal Vaticano, non si può non ricordare la figura di un ciclista che potrebbe diventare beato. È Gino Bartali, vincitore di tre Giri d’ Italia e due Tour de France, cattolico, uomo di fede prima ancora che rivale di Fausto Coppi, così devoto da essersi costruito una cappella in casa, che ora è custodita nel Museo della Memoria ad Assisi.
Bartali è giusto tra le Nazioni. Tra le campagne umbre e quelle toscane, parte di una rete propiziata dal Cardinale Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, girava con la sua bici durante la guerra, nascondendo nella canna documenti che avrebbero permesso di salvare gli Ebrei perseguitati dai nazisti.
Da tempo, i Carmelitani hanno cominciato a scandagliare i documenti. E lo fanno i Carmelitani perché lo stesso “Ginettaccio” era terziario carmelitano, e negli abiti del terziario fu sepolto nel 2000, quando morì a 96 anni. Il COVID ha un po’ rallentato la raccolta dei documenti, ma ora si è ripreso, con nuovo impeto. Anche di questa beatificazione si parlò in occasione dell’affiliazione della squadra ciclistica dell’Athletica Vaticana all’UCI, la Federciclismo Mondiale, quando nacque anche l’idea di una tappa in Vaticano.
La fede di Bartali si legge nelle piccole, grandi cose di ogni giorno. Ci sono duecento lettere alla moglie Adriana, inviate anche quando era nel mezzo dei Giri d’ Italia, una cartolina nei giorni di corsa, una lettera nei giorni di riposo. Si firmava sempre “Tuo nel Signore”, e le lettere sono un condensato non solo della sua fede personale, ma anche della loro spiritualità di coppia, della comune devozione a Santa Teresa di Lisieux.
E poi, ci sono le testimonianze. Del lavoro che Bartali fece per gli ebrei, nessuno seppe niente, finché non arrivò la testimonianza di Giorgio Goldenberg, dopo anni e anni di riservatezza. Non solo i documenti falsi portati da questa e da quell’altra parte della Rat-Line, ma anche il rischio preso in prima persona ospitando una famiglia ebrea che rischiava i campi di concentramento. Un aiuto silenzioso, perché “il bene si fa, ma non si dice”, tanto che nemmeno l’amata moglie aveva saputo niente per lungo tempo.
La nipote Gioia, figlia del primogenito di Bartali Andrea, che sta avendo una parte importante nella raccolta di questi documenti e segue la causa di canonizzazione, ha fatto sapere all’Osservatore Romano nel 2021 che uno degli insegnamenti principali del nonno era “Ricordati di essere umile”. E Bartali, in fondo, rimase umile anche quando nel 1948, il giorno dopo l’attentato al leader comunista Palmiro Togliatti, vinse una tappa del Tour de France e ricompattando (almeno così dice la leggenda) una nazione che rischiava la divisione e la guerra civile.
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Gioia Bartal gira in Italia a raccontare la storia nascosta del nonno, perché “diventare beato o santo non servirebbe alla sua memoria, ma a tutti noi, alla nostra comunità, alle nostre famiglie”.
Il suo eroismo nascosto potrebbe portarlo alla gloria degli altari. Intano, c’è un oratorio a lui intitolato. È a Roma, a Montemario, ed è nato su iniziativa di monsignor Attilio Nostro, che il Papa ha poi nominato vescovo di Mileto in Calabria. E lo stesso vescovo Nostro ha detto che Papa Francesco ha promesso, in onore di Bartali, un pellegrinaggio simbolico che parta dall’oratorio Gino Bartali e tocchi il Campidoglio, il Quirinale, la Sinagoga e San Pietro. E sarebbe una testimonianza che l’esser pio, davvero, è un atto di eroismo silenzioso come ce ne sono pochi.