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Dio mi chiede di riportare i cristiani in Iraq, la testimonianza di don Georges Jahola

Don Georges Jahola nel suo ex ufficio ad Erbil davanti alla mappa di Baghdeda |  | KIN Don Georges Jahola nel suo ex ufficio ad Erbil davanti alla mappa di Baghdeda | | KIN

Quando la mattina del 6 agosto del 2014 90.000 cristiani iracheni, dopo una camminata notturna di oltre 70 chilometri, si riversavano stremati nelle strade di città del Kurdistan, come Erbil e Dohuk, con le poche cose che erano riusciti a portare con sé, prima che i terroristi dello Stato islamico saccheggiassero e occupassero i loro villaggi nella Piana di Ninive, don Georges Jahola seguiva da lontano le tragiche vicende dei suoi connazionali.

L’allora seminarista iracheno, che a breve sarebbe stato consacrato sacerdote siro-cattolico, viveva a Roma (“uno dei periodi più belli della mia vita”, ricorda oggi con commozione) e si specializzava in Teologia biblica presso la Pontificia Università Gregoriana. Non poteva immaginare che un paio di anni dopo avrebbe svolto una parte importante in questa tragica storia. In tutta la Piana di Ninive le case danneggiate o distrutte dall’IS sono 13 mila. I costi per ristrutturarle tutte ammontano a 250 milioni di dollari.

Oggi don Jahola, nato nel 1964 a Baghdeda - fino al 2014 la città cristiana più grande dell’Iraq, con circa 50 mila abitanti e meglio nota con il nome turco di Qaraqosh - dirige infatti il Comitato per la ricostruzione della sua città natale. Invitato da Aiuto alla Chiesa che Soffre di Germania ad una giornata di “Solidarietà per i cristiani perseguitati” nella città tedesca di Augusta ha raccontato ad Acistampa il suo lavoro e il suo impegno nella ricostruzione.

Dopo oltre due anni di occupazione dell’IS, nell’autunno del 2016 è potuto tornare a Baghdeda. Cosa ha visto?

«Abbiamo visto una città distrutta. Da un lato a causa di oltre due anni di abbandono, dall’altro per via della furia distruttiva dell’IS. Il 35% delle case era stato distrutto. Ci siamo spaventati, ma non ci siamo persi d’animo. Abbiamo mappato tutte le case, le abbiamo fotografate, assegnato loro un codice ed elencato i danni di ciascuna casa. Quando sono cominciati ad arrivare i primi fondi per la ricostruzione, abbiamo formato un Comitato composto da ingegneri e impiegati amministrativi. All’inizio erano tutti volontari. Abbiamo chiesto in chiesa chi volesse aiutare e il giorno dopo si sono presentati a decine. Per ora abbiamo terminato la ricostruzione di circa il 36% delle case della città su un totale di circa 7 mila andate distrutte. Abbiamo ristrutturato quelle poco danneggiate, ma ora dovremo iniziare anche a ricostruire quelle totalmente distrutte e questo richiederà molti fondi. Somme due o tre volte superiori a quelle che abbiamo già ricevuto fino ad ora».

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Oltre al ruolo di sacerdote, ha dovuto anche improvvisarsi sindaco e ingegnere. Come si svolge la Sua giornata di lavoro?

«La mattina presto celebro la Santa Messa nella mia parrocchia. Poi alle ore 8 vado in ufficio e con i membri del Comitato iniziamo il lavoro. Gli ingegneri vanno a controllare le case, prepariamo stime dei costi e seguiamo i lavori di quelle già in ristrutturazione. La giornata è molto piena e a volte devo lavorare anche la sera. Contatto organizzazioni che ci aiutano – Aiuto alla Chiesa che Soffre, SALT e Samaritan’s Purse - e rispondo alle richieste di ristrutturazione delle famiglie».

Cosa la motiva ogni giorno?

«Innanzi tutto un grande amore per questa terra. L’arrivo dell’IS e la fuga dei cristiani è stato un shock. Mi sono chiesto: “Come posso riportare la vita in questa città?”. Essere cristiani infatti consiste in questo: portare la vita. Era per me inconcepibile che il cristianesimo, che è presente in questa terra da duemila anni, scompaia dall’Iraq. Come recita il Salmo: “Lo zelo per la tua casa mi divora”. Questo è anche il mio motto come sacerdote».

Oggi come si vive a Baghdeda?

«Ormai la metà dei cristiani, circa 26.000 sono tornati nelle loro case. Quindi la vita, grosso modo, procede come prima dell’arrivo dell’IS. Quello che manca sono le infrastrutture. Le strade, per esempio, sono essenziali per convincere le persone a tornare a casa. Il governo lentamente ci sta lavorando. Gli uffici competenti per l’approvvigionamento dell’acqua, anche senza il sostegno del governo, si sono messi subito al lavoro per ripristinare la fornitura. L’acqua ora è pulita, ma non ancora potabile, ci sono batteri nelle tubature. L’elettricità è tornata, ma è scarsa in tutto il Paese. Ma il problema più grande è quello del lavoro. Oggi la ricostruzione delle case offre tanto lavoro agli abitanti della città, soprattutto ai giovani. Ma domani, quando i lavori termineranno, speriamo presto, cosa faranno quelli che lavorano nei cantieri? Questo è un grosso problema».

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In che stato sono le chiese della città e i luoghi dove si svolgeva la vita di fede dei cristiani di Baghdeda?

«Abbiamo trovato quattro chiese bruciate, due siro-cattoliche e due siro-ortodosse. Abbiamo trovato una chiesa totalmente distrutta. Altre chiese sono meno danneggiate. Oggi celebriamo la messa in chiese bruciate. Stiamo costruendo e ristrutturando edifici dove poter svolgere catechesi e altre attività pastorali. Comprese la casa delle suore e dei sacerdoti. Oggi noi preti viviamo dislocati in diverse parti della città, dove abbiamo trovato posto. Vogliamo rendere la città bella per convincere i cristiani che hanno lasciato il Paese a tornare. Vogliamo creare spazi per i bambini e per il tempo libero degli adulti e dei giovani».

Tornare è però anche una questione di sicurezza. I cristiani che oggi vivono a Baghdeda si sentono sicuri?

«La città è ormai al sicuro da attacchi armati. La gente lo sa. C’è però chi rema contro e afferma il contrario, perché non gradisce che i cristiani tornino nei loro villaggi. Ancora più importante della sicurezza è però avere un progetto per il futuro, senza il timore che l’IS possa tornare. La voglia di riprendere la vita di prima è molto forte, ma abbiamo bisogno di garanzie per restare. In Iraq siamo una minoranza. Nessuno ci difende, a parte la legge. La Costituzione dell’Iraq dovrebbe essere modificata in direzione di una maggiore protezione delle minoranze religiose».

A proposito di ritorno dell’IS. Sappiamo che fino a qualche mese fa in Iraq erano attive centinaia di organizzazioni terroristiche. Dove si sono nascosti i loro militanti?

«Molti di loro hanno combattuto fino alla fine e sono morti. Altri sono scappati dal Paese. Altri ancora si sono reinseriti nella società, ma l’esercito e altre istituzioni preposte alla sicurezza li stanno cercando per punirli per “atti contro l’umanità”. Altri, ovviamente, sono scappati qui in Europa».

Tutte le vicende di cui stiamo parlando avranno avuto delle ripercussioni nella fede dei cristiani di Baghdeda.

«La fede della maggioranza di loro è molto salda. In questi anni, in cui hanno vissuto da sfollati, hanno imparato molto. È stato un momento difficile in cui però hanno avuto occasione di dire al Signore: “Ti vogliamo ancora bene!”. Vengono tante persone in Chiesa per pregare e per varie altre manifestazioni religiose. Nell’ultima Domenica delle Palme erano presenti 17 mila persone alla processione. Una tale partecipazione non c’era nemmeno ai tempi prima dell’arrivo dell’IS. Questo è un bel segno. Significa che dalla cenere può rinascere vita. Ma è molto importante che i cristiani di occidente rimangano saldi nella loro fede. Solo così potranno aiutarci e rafforzarci nella nostra fede. Ci dobbiamo sostenere a vicenda».

Lei, come sacerdote, cosa ha imparato?

«Ora sono molto più forte di prima. Sento di avere un messaggio da portare. Quello che faccio e il mio impegno per la ricostruzione è la mia vocazione oggi. Il mio lavoro, oggi, è questo. Mi porto nel cuore delle domande: “Se non qui, dove? Se non adesso, quando? Se non io, chi?”. E per trovare risposta a queste domande, mi sono buttato con tutto il mio “zelo” ad aiutare la mia gente».