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Dopo Papa Francesco in Marocco: “Ora è il momento della testimonianza”

Arcivescovo Cristobal Lopez Romero | L'arcivescovo Cristobal Lopez Romero di Rabat, durante l'intervista con ACI Stampa | Gianluca Teseo / ACI Group Arcivescovo Cristobal Lopez Romero | L'arcivescovo Cristobal Lopez Romero di Rabat, durante l'intervista con ACI Stampa | Gianluca Teseo / ACI Group

Quella del Marocco dopo la visita di Papa Francesco è una Chiesa che si sente “confortata e incoraggiata” dalla presenza del pontefice ad andare avanti sulla strada che già percorreva, testimoniando Cristo, portando avanti il dialogo con l’Islam e l’esperienza marocchina tutta particolare del dialogo ecumenico. Lo spiega ad ACI Stampa l’arcivescovo Cristobal Lopez Romero , salesiano di Barcellona che è stato anche in Paraguay, Bolivia, Spagna, e che dal marzo 2018 guida l’arcidiocesi di Rabat.

Eccellenza, quale è il bilancio della visita di Papa Francesco in Marocco?

Per me è difficile fare già ora un bilancio della visita del Papa, perché sono passate solo poche ore dalla sua partenza. Ma non possiamo che fare un bilancio positivo, basandoci sull’impressione generale, sia mia personale che di tante persone che ho incontrato e che mi hanno scritto. Tutti sono contenti, dalle autorità marocchine alle comunità cristiane, alle persone che sono venute da altri Paesi. Credo sarà ora importante per il futuro della Chiesa in Marocco applicare, meditare e mettere in pratica messaggi che abbiamo avuto in questi giorni, sia nei discorsi di Papa Francesco che nel discorso del re del Marocco, che definirei notevole.

E quale l’impatto sulla comunità della Chiesa marocchina?

Noi abbiamo avuto una esperienza di comunione, nella celebrazione della Messa che qualcuno ha definito “la più grande messa della storia del Marocco” – c’erano 10 mila persone. Questa comunione ci aiuterà ancora di più a delineare la comunione interna alla Chiesa e anche la nostra presenza nel mondo sociale e civile marocchino.

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Quali sono stati i momenti più emozionanti di questa visita?

Per me, il momento più bello è stato di poter stare solo con il Papa per quasi una ora. Abbiamo viaggiato insieme dalla nunziatura a Temara, un viaggio di circa venti minuti, e poi da Temara alla cattedrale, circa mezzora. E così ho potuto avere una lunga udienza personale con il Santo Padre, molto fraterna, amichevole di vicinanza. Ho avuto modo di spiegargli la mia storia personale, ho potuto chiedergli consigli, ho potuto presentare la realtà generale delle diocesi del Marocco e della comunità cristiana. Questo è stato personalmente il momento più emozionante. In generale, non potrei decidere quali sono stati i momenti più belli della visita. Dalla Caritas, a Temara, all’incontro con i religiosi, sono stato profondamente toccato dalla visita nel suo complesso.

E quale pensa sia stato il momento più bello per Papa Francesco?

Sicuramente ho visto il Papa felice nella visita privata di Temara, soprattutto quando ha incontrato i bambini, e in particolari i bambini con problemi psichiatrici. E ho visto Papa Francesco molto felice durante la Messa, soprattutto verso la fine della celebrazione, quando ha sentito l’entusiasmo, la gioia che veniva da parte di tutti. Non posso sapere però cosa ha provato il Papa, dovreste chiederlo a lui. Posso dire, però, che nonostante le difficoltà e i suoi problemi di salute, ha fatto tutto quello che era previsto, e tutto è andato molto bene.

Nel suo discorso alle autorità civili del Marocco, Papa Francesco ha anche sottolineato l’importanza della libertà religiosa. Quanto è importante questo tema in Marocco?

Il tema della libertà religiosa in Marrocco non è un problema, né a livello politico né legale. Le legge non impedisce che le persone facciano in materia religiosa ciò che considera conveniente. Si cita a volte una sura del Corano che dice: nessuna costrizione nelle cose di religione. Dunque, nessuna difficoltà, ciascuno deve fare ciò che considera conveniente. Il problema si pone nell’ambito sociale. Se un musulmano desidera essere cristiano o buddista, la difficoltà non la trova nella legge, ma nella famiglia, nei suoi amici, nei suoi compagni di lavoro e in quelli che gli girano intorno. E quello che ha detto il Papa, così come quello che sta dicendo ormai ripetutamente il re, può aiutare la società civile a vivere una evoluzione verso una maggiore apertura e comprensione. Questi cambiamenti sociali e culturali non sono immediati. Necessitano di tempo, e ci vuole almeno una generazione.

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In che modo questo tema tocca la Chiesa Cattolica in Marocco?

Per parte della Chiesa, non abbiamo problemi. Quello che è proibito legalmente è il proselitismo. Ma noi come Chiesa non sentiamo che ci manchi qualcosa perché è proibito, dato che siamo noi stessi a proibirci di fare proselitismo. Già Benedetto XVI ha detto che la Chiesa non si estende o non cresce per proselitismo, ma piuttosto per attrazione, per testimonianza, e questo è stato riaffermato da Papa Francesco. Ci dà gioia sapere che questa posizione è stata rafforzata.

Parlando con i religiosi, Papa Francesco ha però parlato anche di proselitismo. Se il problema non c’è, perché c’è stato bisogno di riaffermarlo?

Quando il Papa parla in un posto, non parla solo per il luogo in cui è, ma per il mondo intero. Molte volte, c’ una certa inquietudine nei nostri confronti da parte dei fratelli cattolici di altri Paesi, che non comprendono come noi possiamo stare qui e passare anni senza battezzare e senza ottenere nuovi “clienti” o nuovi adepti. In fondo, dietro l’idea del proselitismo, c’è una idea, un concetto della Chiesa. Alcuni vedono la Chiesa come si vede la Coca Cola e la Pepsi Cola, che si contendono la stessa fetta di mercato e cercano di ottenerne una parte sempre più grande. Ma noi non ci opponiamo ai musulmani, non siamo loro avversari, né nemici. La Chiesa ha il compito di far crescere il regno di Dio. La Chiesa non è il fine, è il mezzo, lo strumento, il segno di questo regno di Dio che Gesù è venuto ha instaurare e ad annunciare. Non importa la quantità delle persone, è importante la qualità del segno.

Quindi quale è il messaggio?

Il Papa ha detto a sacerdoti e religiosi che il nostro problema non è di essere pochi, ma di essere insignificanti, è non avere significatività, non essere un segno visibile e leggibile. Credo che questo lo debba comprendere la Chiesa universale. C’è una mentalità diffusa che non comprende il nostro punto di vista, che vede come inutile la nostra presenza qui, perché non abbiamo risultati e i risultati sono le statistiche. Sono solo numeri. Dio lo voglia che possa crescere la pace, la giustizia, la libertà, la vita e il rispetto alla vita, la verità contro la corruzione e la menzogna, e soprattutto l’amore, la misericordia, la compassione e la solidarietà. Se tutto questo cresce, la Chiesa starebbe realizzando la sua missione anche senza avere più cristiani.

Papa Francesco ha citato anche l’esperienza dell’istituto Mowafaqa. Che tipo di esperienza è?

Una bella esperienza di questa Chiesa in Marocco è l’ecumenismo vissuto molto intensamente, a tal punto che ha dato come frutto la creazione di un istituto ecumenico di teologia chiamato “al Mowafaqa”, che significa “l’accordo”, “el entendimiento”. Curiosamente questo nome mi è stato suggerito dal ministro degli Affari Islamici, quando gli fu presentato il progetto. Fu lui a dire: possiamo chiamarlo con questa parola in arabo, che significa appunto accordo, ecumenismo, l’intendersi. È un istituto dove studiano protestanti e cattolici, con professori protestanti, cattolici e musulmani, perché si studia l’Islam, il Corano, si studia la cultura la storia la spiritualità musulmana dato che siamo in questo contesto. Io credo che questo istituto sia anche una esperienza da esportare, che sia un esempio per tutto il mondo cristiano, poter lavorare insieme protestanti e cattolici senza escludere anglicani e ortodossi che sono molto minoritari qui, ma che sono in piena comunione con noi e nel Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Prima della visita di Papa Francesco, lei ha scritto una lettera pastorale in cui invitava i fedeli a non concentrarsi sul Papa, ma sulla presenza di Cristo. Perché ha pensato a quella lettera?

Ho scritto quella lettera a tutti i cristiani dicendo loro che dovevano essere attenti ad andare al fondamentale, che non era importante dare la mano al Papa o farsi una foto con lui, ma piuttosto ascoltare il suo messaggio e scoprire in lui la presenza di colui nel cui nome egli viene. Questa situazione io la avevo già vissuta in Paraguay con la visita di Giovanni Paolo II. Per questo ho voluto dire di non cadere nella papolatria. Noi non adoriamo il Papa. Quello è un uomo come noi. È nostro padre, ma l’importante non è lui, quanto piuttosto chi lui rappresenta e chi lui annuncia, che è Gesù Cristo. E per questo ho usato una immagine, che dice che quando il saggio punta la luna, lo stupido guarda il dito. Qui non si tratta della luna, si tratta del sole che nasce dall’alto che è Gesù Cristo. E per questo ho detto: allegria perché viene il Papa, però anche più allegria perché abbiamo Gesù Cristo con noi tutti i giorni. Gioia e attenzione a quello che dice il Papa, però più attenzione alla parola di Dio che proclamiamo ogni giorno e che abbiamo al nostro fianco. Gioia perché il Papa viene a visitarci, però ricordiamoci che abbiamo i nostri fratelli con le loro necessità tutti giorni al nostro fianco, e dobbiamo accogliere loro in Cristo. Io credo che non possiamo perdere questa prospettiva, perché altrimenti cadiamo nell’errore di trasformare il Papa in una star mediatica.

Papa Francesco è venuto in Marocco. E ora?

Ora dobbiamo continuare la nostra vita di tutti i giorni, vivere il Vangelo, testimoniare che Dio ama tutti. Io credo che la visita del Papa ci ha confortato, ci ha confermato nella fede - perché il mandato del Papa è quello di confermare i fratelli nella fede - e ci ha dato un nuovo impulso per continuare a fare ciò che già stavamo facendo: cercare di vivere il Vangelo. Ma siamo confortati perché la visita del Papa ci ha mostrato che siamo sulla strada giusta, il Papa ci ha fatto vedere che sta con noi, che ci accompagna. Giovanni Paolo II diceva che la Chiesa, senza la presenza delle comunità del Nord Africa, sarebbe meno cattolica, meno universale. Noi ci sentiamo molto riconosciuti, sentiamo che abbiamo un Padre con il quale siamo in comunione, che siamo nella Chiesa universale e siamo molto contenti.

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