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Per l’arcivescovo Hollerich, la priorità con i giovani è “annunciare il Vangelo”

Arcivescovo Jean Claude Hollerich | L'arcivescovo Jean Claude Hollerich celebra i Vespri nella Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a Poznan, 15 settembre 2018 | @ Episkopat News Arcivescovo Jean Claude Hollerich | L'arcivescovo Jean Claude Hollerich celebra i Vespri nella Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo a Poznan, 15 settembre 2018 | @ Episkopat News

Prima di tutto, annunciare il Vangelo. Lo ripete continuamente, l’arcivescovo Jean-Claude Hollerich, di Lussemburgo, parlando con ACI Stampa delle sfide di Europa, della secolarizzazione che ha colpito l’Europa e in particolare il suo Paese “ormai post-cristiano”, delle speranze per questo sinodo dei giovani.

L’arcivescovo Hollerich partecipa al Sinodo su invito di Papa Francesco. Gesuita, con una lunga esperienza in Giappone e un forte carisma per la pastorale giovanile, è stato poco meno di un anno fa eletto presidente della COMECE, la Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea che si occupa di monitorare il lavoro dell’Unione. ACI Stampa lo ha incontrato a Poznan, durante la plenaria del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee.

Eccellenza, circa un anno fa è stato eletto presidente della COMECE. Quali sono le grandi sfide dell’Europa di oggi?

Non è passato nemmeno un anno da quando sono stato eletto presidente, ma è senz’altro una grande sfida in un momento di grandi tensioni in Europa. Abbiamo il compito di dire ai politici che la crisi è una possibilità di crescita, non una possibilità di escludere ogni forma di opposizione. Siamo chiamati a tornare alle radici dell’idea di integrazione europea. Prima di tutto, dobbiamo promuovere il Vangelo.

L’Europa è ancora cristiana?

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Posso rispondere solo per il Lussemburgo, per la mia nazione. E no, non lo è più. Il Lussemburgo è post-cristiano. Ci possiamo lamentare di questo, oppure – ed è meglio – annunciare il Vangelo, e dare corpo al Vangelo attraverso la solidarietà, mostrando così che la cristianità ha qualcosa da dire all’Europa. Io ci credo fermamente.

Lei ha una grande esperienza nella pastorale giovanile. In che modo questa esperienza si riflette in questo suo compito di presidente della COMECE?

È vero, ho lavorato la maggior parte della mia vita con i giovani, dai tempi in cui ero all’Università Sophia in Giappone, e tuttora cerco di essere molto presente nella pastorale giovanile nel mio Paese. E questo perché i giovani sono il futuro. Il futuro della Chiesa e il futuro dell’Europa. Credo che dobbiamo mostrare fiducia in questi giovani, mostrare loro che li apprezziamo, che li amiamo, che ci importa di loro. Credo sia anche cruciale per il futuro dell’Unione Europea che i giovani vedano delle opportunità nella loro vita, abbiano i mezzi per formare una famiglia, abbiamo la possibilità di prendere la loro strada. Dobbiamo mostrare loro che ci importa di loro. E per dimostrarglielo, dobbiamo anche e soprattutto annunciare loro il Vangelo. Credo sia questo un messaggio da dare ai giovani.

Cosa si aspetta da questo Sinodo sui giovani?

Spero che il Sinodo rappresenti una sfida per la Chiesa affinché trovi un modo di proclamare il Vangelo ai giovani. Si deve mettere da parte l’immagine di essere una Chiesa fuori moda, perché il messaggio del Vangelo non è fuori moda, e ne abbiamo bisogno per il futuro. Abbiamo, dunque, bisogno del Sinodo. Abbiamo bisogno di una conversione della pastorale giovanile per mettere di nuovo Dio al centro della nostra vita e per dire ai giovani che magnifiche persone possono essere.

Quali sono le maggiori difficoltà della pastorale giovanile oggi?

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Quando vedo la mia nazione, e poi mi rendo conto di quanto sia secolarizzata l’Europa, mi viene da riflettere che ormai siamo di fronte a un gap generazionale. In Lussemburgo, i credenti fanno parte della generazione dei nonni, nemmeno a quella dei genitori, e c’è una situazione di crisi per molte parrocchie. Dobbiamo fare qualcosa perché queste parrocchie non muoiano e i giovani possano davvero fare una esperienza di fede in una comunità e possano prendere i sacramenti con gioia e non soltanto per dovere. C’è molto da fare in questo senso. Per la mia nazione, direi che questa è la nostra ultima opportunità.

Si parla di secolarizzazione, di nuovi linguaggi, ma nell’Est Europa si vede una forte devozione, anche giovanile, che si basa su modelli tradizionali di fede. Dove sta la verità?

Non dialoghiamo abbastanza con i giovani per comprendere quello che i giovani vogliono davvero. I giovani si sentono unici, hanno bisogno di avere un senso di identità. Molte persone della mia generazione avevano il problema contrario: troppa forma e poca vita. Questo rende a volte difficile comprendere che i giovani possono essere conservatori. Noi dobbiamo prenderli come sono, dobbiamo ascoltarli.

La solidarietà è un ponte per portare i giovani nella Chiesa?

Sì, perché i giovani hanno un forte senso di giustizia, sono molto toccati dalle discriminazioni.

Uno dei motivi di allontanamento è dovuto anche allo scandalo degli abusi. Come si deve affrontare?

Ho tutta la confidenza e fiducia possibile nel Papa. La sua decisione di chiamare tutti i capi delle Conferenze Episcopali a discutere del problema è meraviglioso. Mi sento male come vescovo quando leggo i rapporti, sento che abbiamo abbandonato le vittime. In molti casi, io ho davvero pianto. Ma non è abbastanza reagire emozionalmente. Dobbiamo fare il nostro meglio perché le cose non accadano di nuovo, attuare la tolleranza zero. Ci saranno sempre persone che commettono crimini, anche nella Chiesa, ma questo non deve essere coperto, e deve essere denunciato. Nella mia diocesi c’è un test sulla pedofilia per tutti coloro che aspirano ad accedere a un certo tipo di ordinazione, e se non viene passato, i candidati sono fuori. Questo è parte della trasparenza che dobbiamo mostrare ai giovani.

È una crisi di Chiesa o una crisi di clero?

Credo ci sia stata una confusione su chi il prete sia e come la sua figura si sia sviluppata storicamente. Il prete è stato considerato parte di una classe speciale di persone con privilegi, e questo deve finire. Tutti sono discepoli di Cristo. Io sono solito dire che non è che Cristo mi ami di più perché sono vescovo. Essere vescovo è un servizio che sono chiamato a fare, non mi mette ad un livello più alto. Ci si dimentica, però, di essere chiamati a servire il popolo di Dio. Il Battesimo, in fondo, è più importante dell’ordinazione.