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Pio XI e i Patti Lateranensi, ci voleva un "Papa immune da vertigine"

La foto della ratifica dei Patti il 7 giugno del 1929 nel Palazzo Apostolico  |  | BAV La foto della ratifica dei Patti il 7 giugno del 1929 nel Palazzo Apostolico | | BAV

La mattina del 6 febbraio del 1929 Papa Pio XI celebrava l’anniversario della sua elezione. Si era alla fase finale della firma dei Patti Lateranensi. Una strada lunga per la soluzione della Questione romana aperta dall’arrivo delle truppe italiane nel 1870 a Roma e la conseguente auto reclusione  del Papa in Vaticano.

Quel giorno il Papa consegnò la bozze della Convenzione al suo segretario: “Ecco, disse soddisfatto, le ho avute or ora; il lavoro è finito”.

Racconta il Cardinale Carlo Confalonieri, per anni suo segretario personale, che quel giorno a pranzo il Papa ripercorse la lunga vicenda delle trattative. A cominciare dai dubbi iniziali di Re Vittorio Emanuele. Pio XI era certo che valesse la pena sacrificare anche molto del temporale a favore dello spirituale. Dal riconoscimento del matrimonio religioso all’educazione cristiana.

Certo, ricordava il Papa, la Conciliazione era un grande responsabilità, ma sarebbe stato peggio non farla potendola fare.

Il giorno dopo, il 7 febbraio, il Cardinal Gasparri convocava il Corpo Diplomatico per dare la comunicazione in forma riservata, perché si temeva che le difficoltà da parte dei massoni si sarebbero fatte sentire fino all’ultimo.

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Il giorno della firma l’ Italia era in festa. Moltissimi inviarono telegrammi al Papa. Tanto che gli uffici italiani furono costretti a mandarli aperti senza sprecare tempo a chiuderli e sigillarli. Ricorda Confalonieri che venivano letti al Papa a rotazione continua. Ma la strada era appena all’inizio.

Iniziarono subito dopo per Pio XI i “discorsi illustrativi”. Il primo forse quello al Corpo Diolomatico, ma certamente quello ai quaresimalisti, i parroci di Roma e i predicatori del periodo quaresimale.

Una frase in particolare rimase nella storia. Alla Santa Sede serviva “ quel tanto di territorio  senza la quale questa non potrebbe sussitere, perché non avrebbe dove appoggiarsi”. E citando San Francesco: “qual tanto di corpo che bastava per tenersi unita l’anima”.

C’era poi il passo successivo: lo scambio delle ratifiche. Nubi e schermaglie. In una lettera al Cardinale Gasparri del 30 maggio metteva in evidenza i punti di divergenza e metteva in evidenza l’indissociabilità del Trattato dal Concordato che “ simul stabunt , oppure simul cadent , anche se dovesse per conseguenza cadere la Città del Vaticano col relativo Stato: per parte Nostra col divino aiuto: impavidum feriente ruinae”. La citazione di Orazio rendeva chiaro l’intento del Papa.

Il Marchese Pacelli fu spessissimo a Palazzo Venezia e superate le ultime difficoltà le Ratifiche vennero scambiate il 7 di giugno Festa del Sacro Cuore di Gesù.

Pio XI inviò subito un telegramma al Re scrivendo il testo personalmente, e fu inviato con il telegrafo del nuovo stato. La giornata si concluse con un gesto semplice e significativo.

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Il Papa per la prima volta attraversava il portone della Zecca che era stata confiscata dall’ Italia e quindi era ostacolo tra i palazzi pontifici e i giardini.

L’ultimo passo della “scalata” era fatto. Il 13 febbraio Pio XI parlando agli studenti della Università Cattolica disse che “ci voleva un papa alpinista immune da vertigine”.

E ancora “ Forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare, un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale”. Frase che diede spesso adito a confusione, ma che è ben chiara se unita a quella che il 14 maggio il Pontefice disse ai seminaristi di Mondragone: “Quando si tratta di salvare qualche anima, di impedire maggiori danni di anime, ci sentiremmo il coraggio di trattare con il diavolo in persona”.

Nel piccolo lembo di terra che è ancora lo Stato della Città del Vaticano il Papa iniziò una magnifica opera di bonifica e costruzione.

Alle spalle della basilica un assembramento di casette e casupole soffocavano l’edificio. Una specie di villaggio rurale molto lontano dall’ampiezza e luminosità dell’area come la conosciamo ora. Le colonìe vennero bonificate grazie all’architetto Giuseppe Momo. Era l’inizio di una nuova storia.