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Diplomazia Pontificia: lo sguardo su Gerusalemme, l’attenzione per i rifugiati

Monsignore Tomasz Gysa alle Nazioni Unite | Monsignore Tomasz Gysa, della Missione Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, legge la dichiarazione della Santa Sede alla 10ma sessione speciale delle Nazioni Unite lo scorso 21 dicembre | Holy See Mission Monsignore Tomasz Gysa alle Nazioni Unite | Monsignore Tomasz Gysa, della Missione Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, legge la dichiarazione della Santa Sede alla 10ma sessione speciale delle Nazioni Unite lo scorso 21 dicembre | Holy See Mission

C’è stato anche un intervento della Santa Sede alla sessione speciale delle Nazioni Unite convocata per affrontare la questione di Gerusalemme. E, in quelli stessi giorni, in Myanmar, il Cardinale Charles Maung Bo portava assistenza ai Kachin, una delle tante minoranze perseguitate nella nazione, mettendo così in luce che non c’è solo il problema dei Rohingya, su cui invece i media volevano si focalizzasse il recente viaggio di Papa Francesco.

Gerusalemme

Un intervento breve, quello della Santa Sede al dibattito presso le Nazioni Unite sullo status di Gerusalemme. Per ribadire, in fondo, quello che la Santa Sede ha sempre sottolineato, e cioè che Gerusalemme è la capitale “spirituale” di tre religioni monoteiste. Il suo status va, insomma, maneggiato con cura.

La sessione di emergenza delle Nazioni Unite chiamata a definire la situazione di Gerusalemme dopo la decisione dell’amministrazione Trump di spostare l’ambasciata USA nella Città Santa si è tenuta lo scorso 21 dicembre. A leggere la posizione della Santa Sede c’era monsignor Tomasz Gysa, della Missione Permanente presso le Nazioni Unite di New York.

Secondo il classico stile delle dichiarazioni diplomatiche, si inizia con i lati positivi, e in particolare plaudendo all’impegno dell’assemblea di evitare ogni situazione di violenza e di promuovere il dialogo e la negoziazione tra Israeliani e Palestinesi.

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Allo stesso tempo, però, la Santa Sede ha richiamato “l’obbligo di tutte le nazioni a rispettare lo storico status quo della Città Santa, in accordo con rilevanti risoluzioni delle Nazioni Unite”. È così che la Santa Sede ha dato voce e peso internazionale alla richiesta di tutte le realtà religiose operanti in Gerusalemme, una posizione che si è concretizzata in una lettera di Natale congiunta di tutti i capi delle Chiese cristiane con sede nella Città Santa.

“L’unica identità di Gerusalemme, che è di interesse universale – ha sottolineato la Santa Sede – consiste nella sua particolare natura di Città Santa, considerata sacra dalle tre religioni monoteistiche e un simbolo per milioni di credenti in tutto il mondo che la considerano la loro ‘capitale spirituale’.”

Per questo – sottolinea la Santa Sede – la sua importanza va “oltre la questione dei confini” e dovrebbe essere considerata “una priorità in ogni negoziazione” per una soluzione politica.

Da sempre, la Santa Sede preme perché ci siano due Stati riconosciuti, Israele e Palestina, e perché si giunga a questa soluzione attraverso un accordo politico.

In conclusione, la Santa Sede ha chiesto “una risoluzione pacifica che rispetti la natura di Gerusalemme, la sua sacralità e il suo valore universale”, e allo stesso tempo ha ribadito che “solo uno status garantito a livello internazionale può preservare la sua unica caratteristica di essere una assicurazione di dialogo e riconciliazione per la pace nella regione” . 

Dopo il viaggio in Myanmar, l’attenzione sui rifugiati cristiani

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Durante il viaggio di Papa Francesco in Myanmar, l’attenzione dei media era soprattutto focalizzata sulla questione dei Rohingya. In realtà, ci sono molte altre minoranze che vivono una persecuzione nel Paese, come non mancava di sottolineare il Cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon che ha chiesto al Papa di non usare nel Paese un termine politicamente sfruttato come “rohingya”. Due settimane dopo la visita del Papa, il Cardinale Bo ha fatto personalmente visita ad una di queste minoranze, i cristiani dello Stato del Kachin, dove gli sfollati sono causati dall’annoso conflitto tra esercito e Kachin Independence Army.

Il Cardinale è stato a Myitkyna, capitale dello Stato, dove ci sono molti centri caritativi, e lì ha invitato i leader della Chiesa a “favorire l’unità, la carità e il risanamento nella vita del popolo”.

Il conflitto si è rinfocolato nel 2011, quando nuovi scontri hanno concluso una tregua siglata nel 1994. In sei anni, oltre 120 mila persone sono fuggite, e sono attualmente ditribuite su 167 campi profughi nel solo Kachin.