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Diplomazia pontificia, sguardo all'Asia e questione migranti

Papa Francesco, viaggio in Myanmar e Bangladesh | L'arrivo di Papa Francesco in Myanmar, 27 novembre 2017 | Edward Pentin / NCR, ACI Group Papa Francesco, viaggio in Myanmar e Bangladesh | L'arrivo di Papa Francesco in Myanmar, 27 novembre 2017 | Edward Pentin / NCR, ACI Group

Quali le frontiere della diplomazia pontificia in Asia dopo il viaggio di Papa Francesco in Myanmar e Bangladesh? Chiamata a dirimere situazioni complesse, la diplomazia del Papa ha agito da ponte, calibrando i discorsi del Papa alle autorità in modo da creare quella cultura dell’incontro che Papa Francesco predica sempre. Uno sguardo speciale, ovviamente, sulle migrazioni, cui Papa Francesco ha dedicato anche il tema della Giornata Mondiale della Pace. E alle migrazioni è stato dedicato un intervento e un evento della Santa Sede a Ginevra durante quest’ultima settimana.

Punto Myanmar

Ben Rogers, del Christian Solidarity Worldwide, ha dedicato cinque libri alle vicende del Myanmar, e uno di questi lo ha consegnato a Papa Francesco, quando è andato in udienza da lui con i partecipanti all’incontro dell’International Legislators Network. Era il giorno in cui fu annunciato il viaggio di Papa Francesco in Myanmar.

Parlando con ACI Stampa, si concentra in particolare sulle sfide del dialogo con il mondo buddista, che “non va generalizzato troppo”, perché è vero che ci sono buddisti parte di un “movimento nazionalista birmano”, ma la “loro agenda non rappresenta l’attitudine di tutti i buddisti”. Il target primario di questo movimento nazionalista – aggiunge – sono i musulmani, ma ci sono stati anche discorsi contro i cristiani. E poi ci sono movimenti, spinti dai militari, che “cercano di usare il nazionalismo religioso come mezzo politico”.

E, se tutti guardano al dramma dei Rohingya – parola che il Papa non ha mai pronunciato in Myanmar, su suggerimento diretto del Cardinale Bo – ci sono altre situazioni da segnalare, perché “per decenni, i cristiani nelle aree tecniche hanno sofferto per mano dei militari in molti modi, per esempio con la distruzione delle croci nello Stato a maggioranza cristiana di Chin. I Chin, in particolare, sono stati forzati a costruire pagode buddiste al posto di croci, e le famiglie cristiane sono state forzatamente convertite al buddismo”.

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Proprio per questo motivo, è stato importante incontrare il generale Hlaing, cercando di stabilire un dialogo, così come è stato importante l’incontro con il tavolo interreligioso, a sottolineare l’importanza che la Chiesa dà al dialogo tra tutte le religioni.

Il viaggio in Myanmar come una risposta alla Cina?

Si è parlato anche dell’idea di un viaggio del Papa in Myanmar per dare un segnale alla Cina, considerata tra i più attivi supporter del regime dei militari, con i quali ha moltissimi rapporti commerciali. Per Rogers, però, si è trattato più che altro del “consistente desiderio del Papa di dare maggiore attenzione alla Chiesa e alle nazioni ai margini, in parte più piccole, povere e colpite da conflitti”, senza segnali diplomatici indiretti.

Va notato il peso sempre maggiore dei cattolici nel territorio, culminata proprio con l’apertura delle relazioni diplomatiche tra Myanmar e Santa Sede, anche quella una piccola vittoria della Chiesa locale. “I cattolici – spiega Rogers hanno un numero piccolo, ma sono influenti in termini di voce, servizio alla società attraverso attività caritative, umanitarie ed educative, la loro leadership nel dialogo tra le fedi e nella costruzione della pace.”

Importante la voce dei vescovi – in particolare Francis Daw Tang di Mytyikyina, Raymond Sumlut Gaw di Bamaw e Philip Lasap Za Hawng di Lashio, insieme all’arcivescovo Paul Zingtung Grawng di Mandaly – i quali “sono stati particolarmente attivi e influenti nel parlare dei conflitti in corso della nazione”.

Insomma, la voce della Chiesa sa come farsi sentire. Ed la situazione del Myanmar rappresenta il chiaro esempio di come proprio il lavoro della Chiesa locale possa aprire a situazioni diplomatiche favorevoli, per portare avanti il dialogo e creare pace.

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Punto Bangladesh

Il Bangladesh ha una situazione diversa. Nato da un conflitto con il Pakistan, di cui faceva parte, il Bangladesh ha visto la Santa Sede come uno dei principali sponsors, tra i primi a riconoscerne l’autonomia e tra quelli che da subito ha aperto relazioni diplomatiche con la nazione.

In particolare, il Bangladesh è ora conosciuto per la situazione dei rifugiati e la loro accoglienza dei Rohingyache Papa Francesco ha citato con apprezzamento nel suo discorso al corpo diplomatico. La diplomazia pontificia ha lavorato a lungo perché la situazione dei Rohingya cambiasse. E, prima della visita del Papa, con uno straordinario opportunismo politico, c’è stato un accordo tra Myanmar e Bangladesh sull’accoglienza dei Rohingya.

Ma in quali termini l’accordo è positivo? Le Ong cristiane sul territorio sottolineano che in realtà non si conoscono ancora i termini esatti dell’accordo, e restano alcune questioni aperte: quella del numero di Rohingya che potranno tornare nello stato di Rakhine; il fatto che i Rohingya nei campi profughi hanno molti dubbi sul rimpatrio, specialmente considerando la situazione che possono trovare a casa; e il fatto che non hanno assicurazioni che non saranno più discriminati. “Ci sarà bisogno non solo del supporto di Bangladesh e Myanmar, ma di tutta la comunità internazionale”, dice una fonte impegnata nell’advocacy in Bangladesh che preferisce non essere citata. È quello che ha chiesto il Papa nel suo discorso alle autorità.

L’impegno internazionale della Santa Sede sulla questione migranti

La Santa Sede è membro della Organizzazione Internazionale delle Migrazioni dal 2011. La richiesta di diventare Stato membro dell’organizzazione mostra come il tema delle migrazioni e dei migranti sia sempre stato al cuore della pastorale della Chiesa cattolica. Lo scorso 30 novembre, a Ginevra, il Consiglio dell’Organizzazione si è riunito per la 108esima volta.

La posizione della Santa Sede sul tema è stata delineata dall’arcivescovo Ivan Jurkovic, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra.

L’arcivescovo Jurkovic ha notato che “l’inizio del terzo millennio è stato caratterizzato dal più grande movimento migratorio di persone nella storia, che – in termini di luoghi di origine, di transito e di destinazione – coinvolge praticamente ogni parte del mondo”.

Insomma, le migrazioni sono “un segno dei tempi”, e il Papa incoraggia a guardare alle migrazioni con “confidenza”, e chiede che tutti quelli che “fuggono da conflitto, fame, discriminazione, estrema persecuzione, povertà, disastri naturali e degrado ambientale” siano “ricevuti e protetti”.

La delegazione della Santa Sede ha chiesto di affrontare la questione da “una prospettiva integrale e olistica, dato che le migrazioni non sono solo divenute una componente strutturale, ma una componente vitale delle nostre società”.

Uno dei temi di preoccupazione è quello dei migranti ambientali, ovvero di coloro costretti a lasciare le proprie terre a seguito di disastri naturali.

La Santa Sede ha quindi ricordato il documento in 20 punti che è stato stilato in vista dei due Global Compacts sulle migrazioni da approvare alle Nazioni Unite, nella cornice dei quattro verbi accogliere, proteggere, promuovere e integrare, che sono anche le quattro parole che caratterizzano il messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della Pace 2018.

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Come integrare? Un evento a Ginevra

Sul tema dell’integrare, l’arcivescovo Jurkovic ha sottolineato l’evento che la Santa Sede ha organizzato insieme ad Ordine di Malta, International Catholic Migration Commission e fondazione Caritas in Veritate, dedicato a “Contributi condivisi e benefici: integrare i migranti nelle società ospiti”.

All’incontro, anche quello in programma il 30 novembre, è intervenuto il Cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco-Frisinga e presidente del COMECE, la Commissione di Conferenze Episcopali della Comunità Europea. 

Nel suo intervento, il Cardinale Marx ha sottolineato che l’integrazione deve essere guidata da “partecipazione e inclusione”, e che quest’ultima si delinea in tre parole chiave: lingua, educazione e lavoro.

Il Cardinale ha chiesto un cambiamento di percezione: dalla considerazione dei migranti come elementi “passivi” che supplicano di avere favori, ma sono piuttosto “persone che osano un nuovo inizio e che si impegnano per raggiungere benessere per loro, per le famiglie e per le società in cui vivono.

Secondo il Cardinale Marx, l’integrazione è una “strada a due sensi” che trae benefici e richiede gli sforzi di tutti coloro che sono coinvolti “in modo da sviluppare un senso di appartenenza alla comunità”, perché la “responsabilità per il bene comune ha bisogno di essere condivisa tra i migranti e le società che li ospitano e deve essere guidata da mutuo riconoscimento e stima”. Infine, il presidente del COMECE ha ammonito dal pericolo di “usare il cristianesimo come strumento di esclusione”, chiedendo di rafforzare la cooperazione interreligiosa.