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Cina, una missione difficile, a partire dalla traduzione della parola Papa

Il 24 maggio è la festa di Maria Ausilitrice, patrona della Cina. Ed è anche la giornata di preghiera dei cattolici cinesi

Cina | Cattolici cinesi in piazza San Pietro | ACI Group Cina | Cattolici cinesi in piazza San Pietro | ACI Group

Il pellegrinaggio al Santuario di Sheshan, vicino Shanghai, caratterizza il 24 maggio, festa di Maria Ausiliatrice, patrona della Cina. Ma il 24 maggio è anche, dal 2007, giornata di preghiera per i cattolici di Cina, stabilita da Benedetto XVI dopo la sua densa lettera ai cattolici di Cina, ancora non recepita del tutto. L’anniversario e la ricorrenza sono festeggiate dalla Cina con un po’ di restrizioni in più sui cattolici, mentre la sede vacante è stata celebrata dal governo di Pechino con la nomina unilaterale di due vescovi ausiliari, uno addirittura nella diocesi di Shanghai, dove un ausiliare c’è ma è agli arresti domiciliari dal 2012.

È il segno di una difficile situazione, e un equilibrio ancora più difficile, che rendono la Cina un territorio missionario da gestire in maniera creativa. Mentre il Cardinale Chow, vescovo di Hong Kong, fa sapere che Leone XIV è stato più volte in Cina, c’è uno studio, pubblicato ai tempi del Conclave sul sito web cattolico cinese Xinde, che ha fornito la storia della parola Papa in mandarino. E il senso di quel lavoro di traduzione è anche al centro dell’incomprensione del governo cinese per la figura del Papa.

Ma andiamo con ordine. Nel Seicento, i missionari occidentali – specialmente gesuiti –che avevano avuto contatti con la raffinata corte di Pechino e con i ceti alti della società cinese contribuirono a diffondere in Europa una grande ammirazione per quel Paese e per quella civiltà. Poi venne la colonizzazione. Alla fine del Settecento, la Gran Bretagna introdusse in Europa un’immagine diversa della Cina: Paese arretrato, corrotto, governato da gente inaffidabile. Le affermazioni inglesi trovarono gioco facile in una Cina che viveva una fase di grande decadenza, cominciata nel XIX secolo, che porterà alla caduta della dinastia Qing e alla proclamazione delle Repubblica nel 1911.

Sono processi da cui non sono estranee le Chiese. Se prima penetrare in Cina era difficile per i missionari, e richiedeva un grande lavoro di mediazione tra le culture, le guerre dell’oppio, dalla metà dell’Ottocento, segnano una stagione di maggiore libertà d’azione per i religiosi stranieri, e vi arrivano a frotte, cattolici e protestanti.

Una libertà di azione che si inserisce in un rinnovato slancio missionario della Chiesa tutta, che tocca il suo culmine sotto Leone XIII. Sono migliaia i missionari europei che si trasferiscono in Cina. Entrano in contatto non con i ceti alti, ma con uomini e donne che non erano mai usciti dai loro villaggi e ce non avevano mai incontrato neanche cinesi di altre regioni. Ma erano anche missionari che non conoscevano la lingua, si muovevano sulla base di valutazioni inadeguate delle tradizioni religiose locali, non comprendevano neanche la struttura della società cinese. Il divario con i missionari guidati da padre Matteo Ricci era evidente. E in Cina – dove padre Matteo Ricci era addirittura venerato –  avvertirono questa differenza in maniera quasi dolorosa. Anche perché i nuovi missionari non riuscivano a familiarizzare nemmeno con i fedeli o i sacerdoti cinesi e i religiosi stranieri. Contrariamente a quanto chiesto da Adriano VII, affidavano con riluttanza le responsabilità pastorali e amministrative agli indigeni. Pensavano che l’identità cinese fosse così forte da ostacolare l’evangelizzazione.

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E cosa successe dal punto di vista cinese? Gli yang guizi, i diavoli stranieri – così i cinesi chiamano coloro che vengono da fuori – assunsero per la prima volta il carattere aggressivo e minaccioso dei colonizzatori. I missionari erano arrivati con le potenze colonizzatrici, ed erano protetti dalla Francia. Facile, per gli abitanti dello Zhongguo, cioè il Paese di mezzo, ovvero il centro del mondo (così i cinesi chiamano la Cina) identificarli con i portatori degli interessi occidentali.

A tutto questo si sono aggiunte le difficoltà culturali. Padre Joseph Gabet, lazzarista e missionario in Cina, scrisse a Papa Pio IX nel 1847: “I cinesi credono comunemente che il Dio dei cristiani sia un monarca europeo e i missionari stranieri siano inviati per procurargli nuovi sudditi”. Era una credenza normale in Cina, dove l’imperatore, figlio del cielo, era la massima autorità sia politica ce religiosa, e non era per niente comprensibile la distinzione tra potere temporale e potere spirituale.

Una difficoltà che si trascina ancora oggi, e che è evidente nei problemi che ci sono nel tradurre in cinese alcuni termini cattolici. Papa, per esempio, in cinese si traduce jiaohuang o jiaozong. Ovvero, letteralmente: imperatore della religione, capo degli affari religiosi. Santa Sede si traduce con jiao ting, dove jiao significa religione e ting e il carattere usato per indicare la corte imperiale. Sono termini che richiamano una dimensione politica, e hanno in sé un’ambiguità. Così, per i cinesi la nomina dei vescovi non riguarda la libertà religiosa. Riguarda piuttosto il fatto che un capo di Stato straniero nomina i suoi rappresentanti nel territorio cinese. Se si aggiunge poi il fatto che i cinesi sono un popolo fortemente materialista (e non solo a causa dei sessanta anni di marxismo, ma anche a causa del fatto che confucianesimo e buddhismo, le due credenze più diffuse, non hanno una vera e propria dottrina dell’aldilà) si comprende la radice della difficoltà della Chiesa cattolica in Cina.

Ma da dove nascono queste traduzioni? Il termine Jiaohuang per dire Papa Fu introdotto per la prima volta dal grande missionario Giulio Aleni nel suo trattato geografico Cronache di paesi stranieri (Zhifang Waiji), pubblicato nel 1623.

Il termine Jiaohuang è composto dai caratteri Jiao (dottrina) e Huang (imperatore). Prima di allora, erano state proposte altre traduzioni per la parola "papa", alcune prese in prestito dalla terminologia buddista, come "Grande Monaco" ( Da Seng ) o "Re del Dharma" ( Fa Wang ).

Giunto alla corte Ming nel 1583, il noto gesuita Matteo Ricci optò invece per l'espressione Jiaohua Wang (letteralmente "re della dottrina"), sottolineando il ruolo di guida spirituale del Papa e allineandolo all'idea confuciana di "educare il mondo". La scelta di Ricci mostrava chiaramente l'intenzione di evitare di usare il termine Huang , che all'epoca era riservato esclusivamente all'imperatore, preferendo invece il titolo Wang , che significa "re" o "sovrano", tipicamente usato per riferirsi ai capi degli stati vassalli.

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Adattandosi alla cultura e ai costumi del Paese ospitante, il missionario maceratese cercò di evitare possibili conflitti con le autorità centrali e di sostenere l'opera di evangelizzazione. La traduzione di Ricci apparve per la prima volta nella sua Mappa completa dei diecimila paesi del mondo ( Kunyu Wanguo Quantu ), in cui afferma: «Il re (Jiaohua Wang) di questo luogo non si sposa e pratica la religione cattolica.»

Da questo momento in poi, l'espressione Jiaohua Wang si diffuse, comparendo nella maggior parte dei successivi documenti cattolici e nei libri di preghiere in lingua cinese, come le Ore Sante ( Sheng jiao ri ke ), che rimasero in circolazione fino alla fondazione della Repubblica di Cina (1912-1949).

Lo stesso Giulio Aleni preferì questa espressione nella sua opera del 1642 Classico in quattro caratteri della sacra religione del Signore del Cielo ( Tianzhu shengjiao sizi jingwen ), che può essere tradotta come "Scrittura in quattro caratteri della sacra religione del Signore del Cielo".

La traduzione di Ricci rimase popolare anche durante la dinastia Qing (1644-1912), un periodo caratterizzato da profonde divisioni tra la Chiesa cattolica e il Regno di Mezzo. Fu in particolare l'imperatore Kangxi (regnò dal 1661 al 1722) a insistere affinché il titolo Huang fosse riservato solo al  Figlio del Cielo" e a nessun altro monarca, compreso il Papa.

Fu solo con la fine delle guerre dell'oppio e il successivo declino della dinastia Qing che la parola Huang cessò di essere di esclusiva competenza dell'imperatore. Il termine Jiaohuang , proposto nel 1623, poté così essere riutilizzato per designare il Vicario di Cristo, venendo gradualmente accettato nella società cinese fino ai giorni nostri.

Più di recente, tuttavia, i cattolici e le comunità accademiche in Cina hanno iniziato a mettere in discussione la rilevanza di questo termine, ormai considerato obsoleto, e hanno proposto di sostituirlo con Jiaozong . Composta dai caratteri Jiao (dottrina) e Zong (grande maestro), quest'ultima espressione sottolinea il ruolo spirituale del papa piuttosto che quello secolare, in accordo con i principi dei Patti Lateranensi.

Secondo la rivista cattolica Xinde, il termine Jiaozong era quindi particolarmente appropriato in riferimento al defunto Papa Francesco, considerando la sua umiltà e semplicità, il titolo Huang era ritenuto inappropriato.

Nonostante gli sforzi dei circoli accademici e dei media vicini all'Amministrazione statale per gli affari religiosi volti a promuovere l'uso del termine Jiaozong , esso non ha ancora sostituito completamente l'espressione Jiaohuang. E contrariamente alle speranze di Xinde , neanche l'elezione del nuovo papa Leone XIV ha invertito questa tendenza, poiché molti siti di notizie cinesi continuano a preferire la vecchia traduzione.