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Al Meeting di Rimini il racconto del perdono delle madri

Il perdono non sia un atto immediato né scontato, ma un cammino personale e comunitario

Madri per la pace al Meeting2025 |  | Meeting2025 Madri per la pace al Meeting2025 | | Meeting2025

“Per questa 46^ edizione è stato scelto il titolo: ‘Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi’. Una citazione che è anche una sfida, come tradizione per le giornate di Rimini. Abbiamo bisogno di costruttori di comunità. Costruttori di convivenza, di pace, di partecipazione, di solidarietà. Costruttori di una società capace di governare i mutamenti restando umana nelle fondamenta e nella civiltà. Non possiamo dare per scontate le conquiste che le precedenti generazioni ci hanno trasmesso. Libertà, democrazia, pace, modello sociale, vanno continuamente rigenerati nella fedeltà ai loro presupposti valoriali. Rigenerati e condivisi”.

Questo è stato il messaggio del presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, letto dal presidente della Fondazione del Meeting per l’Amicizia tra i Popoli, Bernhard Scholz, in apertura della kermesse riminese nel giorno in cui papa Leone XIV lo ha indetto per il digiuno e la preghiera. Ed anche se non tutti ha fatto digiuno la giornata è stata dedicata al dialogo ed al perdono con la testimonianza delle ‘Madri per la pace’, che hanno messo al centro il conflitto in Medio Oriente con il dialogo tra Layla al-Sheik, madre musulmana di Betlemme che ha perso un figlio piccolo, Qusay, nella Seconda Intifada; Elana Kaminka, israeliana, madre di Yannai, soldato ucciso il 7 ottobre 2023 e suor Azezet Habtezghi Kidane, religiosa comboniana eritrea, conosciuta anche come suor Aziza, che opera da anni in Israele e nei Territori Palestinesi, dopo esser stata missionaria in Sudan e in Eritrea.

Hanno raccontato un cammino lento e faticoso ma portatore di una speranza invincibile, in nome del futuro delle giovani generazioni israeliane e palestinesi: “Quando perdi un figlio, contestualmente, perdi anche la paura. Non temi più nulla”, ha detto Layla al-Sheikh, a cui ha fatto risonanza l’israeliana Elana Kaminka: “Bisogna immedesimarsi con l’avversario, cosa sei disposto a fare se raggiungi il culmine della disperazione? Che tipo di adulto puoi diventare se vivi soprusi continui, come succede ai bambini palestinesi? Ecco perché nessuno deve permettersi di uccidere nel nome di mio figlio”.

Elana (colpita negli affetti più cari, in un attacco ad opera di Hamas, ma non accecata per questo da odio etnico) è un’attivista impegnata nella promozione della pace e nella costruzione di ponti tra le comunità israeliane e palestinesi. E’ membro attivo di ‘Tag Me’ir’, organizzazione che offre supporto alle vittime di violenza razzista in Israele e volontaria con ‘Humans Without Borders’, collabora a un’opera assistenza umanitaria a bambini palestinesi malati, aiutandoli a raggiungere ospedali israeliani per cure mediche urgenti.

Ugualmente nello stesso lavoro è impegnata a fare Layla, sul fronte mussulmano, perché la pace, oltre ad auspicarla e a pregare per essa, va costruita, coltivando il metodo del dialogo, della comprensione della solidarietà fra vittime sui diversi fronti. In questo lavoro di mediazione è impegnata la terza testimone dell’incontro, suor Aziza Kidane, da 12 anni in Terrasanta al servizio dei più poveri, infaticabile costruttrice di ponti tra israeliani e palestinesi.

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Elana Kaminka, madre di quattro figli, ha perso il primogenito Yanai, giovane ufficiale di 21 anni, ucciso il 7 ottobre 2023 durante l’attacco di Hamas. Prima di morire, il figlio aveva salvato numerosi commilitoni e civili, come ha raccontato questa madre: “Yannai era mio figlio, ma anche un maestro. Credeva che il primo compito di un leader fosse amare le persone affidate alla sua responsabilità”. Dopo la tragedia, Elana ha scelto di unirsi al Parent Circle, associazione che riunisce genitori israeliani e palestinesi.

Anche Laila Al Shaikh, madre di cinque figli, ha raccontato la perdita del piccolo Qusay, morto a soli sei mesi durante la seconda intifada a causa di un ritardo imposto da un check point: “Per anni non ho parlato con i miei figli di quella ferita. Non volevo che crescessero con il desiderio di vendetta”. Dopo 16 anni ha avuto il coraggio di unirsi al Parent Circle: “La prima volta che ho visto israeliani e palestinesi ridere insieme, ho capito che l’altro non è un nemico, ma un essere umano”.

Ha fare da raccordo tra le due donne è stata la testimonianza di suor Aziza, che ha portato lo sguardo sulle comunità più vulnerabili: i beduini della Cisgiordania, i profughi, i più poveri dei poveri: “Abbiamo imparato che l’incontro con l’altro nasce dall’ascolto e dal riconoscimento della sua dignità… Quando si vede il volto dell’altro, si vede il volto di Dio. Solo così è possibile il perdono”.

In questo modo le tre protagoniste hanno testimoniato come il perdono non sia un atto immediato né scontato, ma un cammino personale e comunitario, come ha raccontato Laila Al Shaikh attraverso l’incontro con un ex soldato israeliano che anni prima le aveva impedito di raggiungere l’ospedale: “Per me è stato come rivivere la morte di mio figlio. Ma il suo coraggio nel confessare la verità mi ha spinta a perdonarlo”. Ed ha condannato Hamas, affermando che per alcuni anni ha dubitato anche dell’esistenza di Dio: “Ho condannato Hamas perché quello non è l’Islam in cui credo. Credo che Dio parli sempre di pace. Nell’Islam la prima cosa che si dice quando si incontra qualcuno è ‘Salaam alekum’, che significa ‘La pace sia con te’. Anche in ebraico si dice ‘Shalom’, che vuol dire ‘pace a te’, e quindi Dio è amore e amore e pace. Non si parla di omicidi, di uccisione. Purtroppo alcune persone spiegano le regole come vogliono e le interpretano a modo loro. E giustificano quello che fanno. Anche nell’ebraismo e nel cristianesimo fanno la stessa cosa. Ma questo non è l’Islam, l’Islam parla di amore”.

Per questo Elana Kaminka ha sottolineato che “non possiamo vivere di generalizzazioni’, raccontando la scelta del secondo figlio di servire nell’esercito, che è obbligatorio, come paramedico: “Ha deciso che il suo compito sarà salvare vite, non toglierle. E’ questo l’esempio che vogliamo dare”. Però non ha risparmiato le critiche al governo israeliano: “Non ha rispetto per la vita, né per quella dei palestinesi, né per quella degli ostaggi, non permettendo la loro liberazione. Per l’ebraismo la vita è il valore più importante, ma la gente al potere oggi, si vede che non conosce i valori della nostra religione”.

La prima giornata è stata chiusa dalla presentazione della mostra ‘Un’esplosione di vita. San Francesco’, a cui hanno partecipato Maria Pia Alberzoni, già professoressa di Storia medievale, Università Cattolica del Sacro Cuore; Davide Rondoni, poeta e presidente Comitato nazionale per l’ottavo centenario della morte di San Francesco d’Assisi; Marco Villani, vicesegretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri; fra Francesco Piloni, ministro della Provincia dei Frati Minori dell’Umbria: “Nel Cantico delle creature, quando aggiunge la strofa: Laudato si, mi' Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, san Francesco colloca il perdono al centro di quella rete di relazioni che costituisce il tessuto della vita. Quanto è attuale questa parola oggi! Il peccato rompe quest’armonia”.

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Tra inizio e fine giornata anche una testimonianza del monaco trappista, p. Thomas Georgeon, postulatore della causa di beatificazione dei 19 martiri d’Algeria sui martiri di Algeria: “La testimonianza dei 19 beati martiri colpisce perché ciascuno di loro ha avuto un proprio e personale cammino di fede. Quando sono arrivati gli anni della tragedia, queste figure così diverse hanno vissuto una forma di convergenza comune verso il dono definitivo, verso la morte. Convergenza che hanno sperimentato tutti coloro che vivono nella Chiesa in Algeria: parliamo di quelli che sono stati uccisi, certo, ma non dimenticando che furono un centinaio i cosiddetti ‘permanenti’ che hanno accettato la possibilità del martirio, o almeno della morte violenta, e che sono ancora in vita. Quindi ciò che si rende evidente è la testimonianza di tutta una Chiesa.

‘Oranti tra gli oranti’ (come si percepivano i monaci di Tibhirine in riferimento alla popolazione musulmana circostante), avevano costruito relazioni quasi ‘familiari’ con molti abitanti della zona, in particolare attraverso la condivisione del lavoro agricolo nel monastero e soprattutto grazie all’impegno indefesso di fratel Luc nel dispensario. E proprio questa frequentazione di tante persone permetteva loro di mantenere uno sguardo lucido e saggio su quanto stava accadendo negli anni bui del conflitto civile, che ha provocato la morte di circa 150.000 persone negli anni ’90 dello scorso secolo, compresi i 19 religiosi e religiose cattolici, uccisi tra il 1994 e il 1996. Tra questi, anche i monaci di Tibhirine, a cui seguirà, il primo agosto 1996, l’assassinio del vescovo di Orano, mons. Pierre Claverie…

Il loro contributo mirava principalmente a spiegarci come per loro la parte essenziale dell’attività missionaria consistesse nella creazione e nello sviluppo di ‘relazioni di buon vicinato’, fatte di attenzione e prossimità alle persone ed alle famiglie, nella semplicità e nella fedeltà, fino alla fine, a causa di Cristo Gesù, di cui non nascondevano di essere discepoli”.

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