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Diplomazia Pontificia, le relazioni con Cipro e Grecia, l’anniversario con l’Albania

Molti i nodi diplomatici che accompagnano il viaggio di Papa Francesco a Cipro e in Grecia. Nella scorsa settimana, festeggiati i trenta anni di relazioni diplomatiche con l’Albania

Papa Francesco, Cipro | Papa Francesco con i membri del Corpo diplomatico a Cipro, 2 dicembre 2021 | Vatican Media / ACI Group Papa Francesco, Cipro | Papa Francesco con i membri del Corpo diplomatico a Cipro, 2 dicembre 2021 | Vatican Media / ACI Group

Il viaggio di Papa Francesco a Cipro e in Grecia porta con sé molti nodi diplomatici. La linea della Santa Sede è, come sempre, quella della prudenza diplomatica e del dialogo. Sia Cipro che Grecia hanno ormai da quattro decenni (Cipro un po’ di più) piene relazioni diplomatiche con la Santa Sede.

Nella scorsa settimana, è stato festeggiato anche il 30esimo anniversario dell’allacciamento di relazioni diplomatiche tra Albania e Santa Sede. Altre notizie: in Nicaragua c’è chi cerca ancora la mediazione della Santa Sede; i vescovi del Salvador preoccupati dalla crisi diplomatica del Paese con gli Stati Uniti; il cardinale Parolin risponde alle linee guida anti-Natale dell’Unione Europea.

                                                FOCUS VIAGGIO PAPALE

Santa Sede, le relazioni con Cipro e Grecia

Papa Francesco è in questi giorni in Cipro e Grecia, per un viaggio dai profondi significati diplomatici.

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La capitale di Cipro, Nicosia, è divisa da un muro. Un muro meno iconico di quello di Berlino, fatto di case svuotate e strade presidiate, ma comunque un confine, una green line, dal conflitto del 1974 in cui la Turchia attaccò Cipro e poi rimase nella parte Nord del Paese, facendovi arrivare 200 mila contadini turchi e riportando a casa alcuni dei turchi che già avevano cominciato ad uscire dal Paese. L’attacco turco nasce a seguito del Colpo di Stato della Giunta dei Colonnelli in Grecia, con i piani per l’unificazione di Cipro ad Atene. Dal 1974, c’è stato dunque uno Stato federato turco-cipriota”, diventato nel 1983 “Repubblica Turca di Cipro del Nord”, riconosciuta solo dalla Turchia. Nel 2004, il piano dell’ONU di riunificare l’isola in una confederazione delle due comunità greca e turca con uguale peso politico e istituzionale è fallito.

È una storia che, ovviamente, va raccontata da tutti i punti di vista: quella che Cipro chiama occupazione, la Turchia chiama difesa.

Fatto sta che ci sono due territori, a Cipro, e due governi, uno di etnia greca e uno di etnia turca, famiglie divise e persino chiese che non si possono raggiungere dall’altro lato del confine. Da tempo, i ciprioti hanno lamentato anche il danneggiamento e la distruzione di diverse chiese nel lato turco.

La Santa Sede ha relazioni diplomatiche con Cipro dal 1948, quando Pio XII eresse la delegazione apostolica di Palestina, Transgiordania e Cipro. La nunziatura apostolica a Cipro è stata istituita il 13 febbraio 1973 e il nunzio apostolico è anche nunzio in Israele e delegato apostolico a Gerusalemme e Palestina.

Attualmente, la nunziatura è nella parrocchia cattolica di Santa Croce, proprio sulla green line. Ma prima del viaggio il governo cipriota ha approvato la concessione di un terreno alla Santa Sede per la costruzione di un nuovo edificio di nunziatura. Si pensa che dopo la Santa Sede nominerà un incaricato di affari residente a Nicosia, un segno di particolare interesse per il Paese.

Sia il presidente Anastasiadis che l’arcivescovo ortodosso Chrysostostoms II non hanno mancato di sollevare duramente la questione di quella che chiamano “occupazione turca”. L’arcivescovo Chrysostomos è perfino arrivato a dire che la Chiesa ortodossa di Cipro è “martirizzata dai turchi”, e ha chiesto a Papa Francesco di mediare per la restituzione dei beni, un po’ come riuscì a fare Benedetto XVI, attraverso un canale aperto con l’allora cancelliere tedesco Angela Merkel, ottenendo la restituzione di 500 frammenti archeologici di proprietà cipriota rinvenuti nella parte occupata turca dell’isola. L’arcivescovo Chrysostomos ha usato toni durissimi per definire “l’occupazione turca”, considerata “brutale”, lamentando l’espulsione di 200 mila ciprioti.

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Papa Francesco non è entrato direttamente nella questione diplomatica. Nel Libro D’Oro dell’Arcivescovado ha però lasciato una frase simbolica: “Grazie per aver parlato di dialogo. Dobbiamo sempre procedere sulla via del dialogo, un cammino faticoso, paziente e sicuro, un cammino di coraggio. Parresia e pazienza”.

I negoziati per la riunificazione ci sono stati anche recentemente. In un Angelus dell’agosto 2020, Papa Francesco aveva incoraggiato i negoziati per la riunificazione, che sono tornati in una fase di Stallo dopo gli incontri infruttuosi a Cras Montana. La posizione della Santa è quella di un dialogo, che comunque resta difficile a causa delle diverse posizioni: la Turchia vuole due Stati, la Grecia una “Federazione di Stati”.

Il presidente turco Erdogan, da parte sua, ha chiesto a tutti i Paesi “amici e fraterni” di valutare il riconoscimento della Repubblica turcocipriota di Cipro nord autoproclamata, in occasione del 15° vertice dell’Organizzazione per la cooperazione economica (ECO). Tra questi Paesi, anche la Santa Sede, che si cerca in tuti i modi di fare esprimere.

Erdogan ha anche espresso preoccupazione per una Grecia diventata “una base statunitense” per le molte basi stabilite sul territorio. Al di là della preoccupazione geopolitica, la Grecia sembra aver stretto relazioni diverse con il Vaticano, entrando in quella fase di incontro con le nazioni ortodosse che sta caratterizzando la diplomazia del Papa.

Grecia e Santa Sede hanno stabilito relazioni diplomatiche nel 1980, e subito la Santa Sede istituì l’Ufficio Apostolico in Grecia e ad Atene. L’ambasciatore greco presso la Santa Sede ha risieduto a Parigi fino al 1988, quando Atene stabilì una ambasciata residente.

Oggi, nell'incontro tra Papa Francesco e la presidente, un bilaterale Grecia - Santa Sede. Da una parte, il Cardinale Parolin, segretario di Stato vaticano, l’arcivescovo Pena Parra, sostituto, e l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro per i Rapporti con gli Stati, e l’arcivescovo Savio Hon, nunzio apostolico. Dall’altra, il Primo Ministro e il Ministro degli Esteri greco. Sarà, questo bilaterale, culmine di una serie di scambi avuti anche recentemente in Segreteria di Stato con il ministro degli Esteri Dendias, dove si era arrivati a teorizzare anche una cabina di regia sulla questione dei Balcani.

                                                FOCUS EUROPA

Unione Europea, le linee guida contro il Natale. La risposta del Cardinale Parolin

In maniera non scontata, e quantomeno inusuale, il Cardinale Pietro Parolin ha affidato ai microfoni di Vatican News la sua reazione alla pubblicazione del manuale della comunicazione dell’Unione Europea.

Il manuale, che ora è stato ritirato alla luce delle molte proteste, invitava all’inclusione suggerendo di evitare parole come “Miss” o “Mrs”, ma anche “Natale”, e persino nomi come Maria e Giovanni.

Nella sua reazione ai microfoni vaticani, il Cardinale Parolin ha sottolineato di ritenere “giusta la preoccupazione di cancellare tutte le discriminazioni”, ma che il manuale non era “certamente la strada per raggiungere questo scopo”, perché “alla fine si rischia di distruggere, annientare la persona, in due direzioni principali”.

La prima strada è quella di “omologare tutto”, la seconda è “la dimenticanza di ciò che è una realtà”.

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Ma c’è anche un altro problema, afferma il Segretario di Stato vaticano, ed è “la cancellazione di quelle che sono le radici, soprattutto per quanto riguarda le feste cristiane”. Perché “noi sappiamo che l’Europa deve la sua esistenza e la sua identità a tanti apporti, ma certamente non si può dimenticare che uno degli apporti principali, se non il principale, è stato proprio il cristianesimo. Quindi, distruggere la differenza e distruggere le radici vuol dire proprio distruggere la persona”.

La decisione di affidare la reazione ai microfoni vaticani può essere data da un lato dalla necessità di non dare troppo risalto alla questione (si tratta, alla fine, di un manuale di comunicazione), e dall’altro di voler essere parte del dibattito. Allo stesso tempo, ci si poteva anche aspettare una dichiarazione formale della Segreteria di Stato, divulgata attraverso i canali del Dicastero della Comunicazione, che potesse dare un peso maggiore alle preoccupazioni della Santa Sede.

La reazione della COMECE alla linee guida UE

Dal canto suo, la COMECE (Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea) ha invece reagito con una nota ufficiale. La COMECE, che monitora le istituzioni europee, ha sede a Bruxelles, ed è considerato un po’ il braccio della Segreteria di Stato in Europa.

Nel suo comunicato, la COMECE ha plaudito al ritiro delle linee guida del 30 novembre. Mentre – scrive la COMECE – “rispettiamo il diritto della Commissione Europea di modellare la sua comunicazione verbale e scritta e apprezzando l’importanza dell’eguaglianza e della non discriminazione”,  non si può che essere preoccupati “dall’impressione che un pregiudizio anti-religioso abbia caratterizzato alcuni passaggi della bozza di documento”.

Il Cardinale Jean-Claude Hollerich, presidente della COMECE, ha affermao che “la neutralità non può significare relegare la religione alla sfera privata: il Natale non è solo pare delle tradizioni religiose europee, ma anche della realtà europea. Rispettare la diversità delle fedi non può portare alla conseguenza paradossale di sopprimere l’elemento religioso dal discorso pubblico”.

Il Cardinale ha aggiunto che “mentre la Chiesa Cattolica nell’Unione Europea supporta pienamene l’eguaglianza e il contrasto alla discriminazione, è chiaro che questi due obiettivi non possono portare a distorsioni o autocensure”.

Trenta anni di relazioni diplomatiche tra Albania e Santa Sede

Il giorno prima la visita del Primo Ministro albanese Rama a Papa Francesco, l’Albania ha festeggiato i trenta anni di relazioni diplomatiche con la Santa Sede con un ricevimento a Roma, offerto da Malinda Dodaj, ministro plenipotenziario dall’Ambasciata di Albania presso la Santa Sede.

Il ricevimento si è svolto il 26 novembre e ha visto la presenza del Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano. Si ricordava, in particolare, la festa nazionale albanese, che cade il 28 novembre, perché in quel giorno del 1912 fu raggiunta l’indipendenza dall’Impero Ottomano. E, appunto, i trenta anni di relazioni diplomatiche con la Santa Sede, avviate il 7 settembre 1991.

Tre decenni, ha detto il Cardinale Parolin, durante i quali “l’Albania ha realizzato progressi molto significativi”, sebbene ci siano “sfide ancora aperte”, come “il consolidamento delle istituzioni democratiche”, e la necessità di sostenere sviluppo, famiglia e giovani.

Il Cardinale ha mostrato apprezzamento per il rispetto e l’attenzione che l’Albania ha nei confronti della Santa Sede, e detto che a sua volta la Santa Sede “non mancherà di sostenere il Paese nel suo dialogo con le confessioni religiose in cammino verso la piena integrazione della famiglia dei popoli europei”. Perché l’Albania, terra di eroi e di martiri “non solo riceve, ma porta anche i valori che la distinguono da sempre, come ospitalità, sacralità della famiglia e armonia religiosa”.

Durante il ricevimento, il premier Edi Rama ha insignito il Cardinale Parolin con una onorificenza.

La Santa Sede aveva eretto una delegazione apostolica in Albania nel 1920, ma nel 1945 il regime comunista espulse monsignor Leone Nigris, delegato apostolico, e fucilo il suo successore, il beato Frano Gjini. Solo nel 1990, un anno dopo la caduta di Berlino, si poté celebrare di nuovo la Messa a Tirana. Le relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Albania sono state riallacciate il 7 settembre 1921. Attualmente, il nunzio è l’arcivescovo Luigi Bonazzi.

Il Cardinale Parolin al Festival della Dottrina Sociale

Concludendo il Festival della Dottrina Sociale di Verona il 28 novembre, il Cardinale Parolin ha ricordato la necessità di infondere speranza – dichiarazioni in linea con il tema del Festival, che quest’anno era “Audaci nella speranza. Creativi con coraggio”.

Uno dei modi di realizzare sentieri di speranza, ha detto il Cardinale Parolin, è proprio facendo uso della dottrina sociale della Chiesa, che ha “un interesse anche per i non credenti, perché quando parliamo di temi come la pace, il lavoro, lo sviluppo, la vita comune, la politica, credo siano ambiti che interessano tutti”.

Per quanto riguarda la pandemia, il Cardinale ha parlato di una responsabilità “costante per quanto riguarda il vaccino”, ma anche una ricerca delle cure.

Il Segretario di Stato vaticano si è poi riferito al fatto che si vive in una “società che è sempre più scristianizzata, dove il riferimento al valore infinito della vita viene sempre meno, anche a questa apertura al trascendente, che per noi cristiani è fondamentale, proprio nell’affrontare anche queste tematiche”.

Il Cardinale Parolin ha detto che “i cristiani, naturalmente, debbano insistere su quella che è la visione antropologica della fede, che viene dal Vangelo, che è condizione della salvaguardia della dignità di ogni persona, perché se noi difendiamo questi valori non è tanto per il gusto di difenderli in sé stessi, ma perché siamo convinti che siano condizione indispensabile per difendere, promuovere, tutelare e sviluppare la dignità concreta di ogni persona”.

Il Cardinale Parolin ha anche parlato del futuro della Chiesa. Ha affermato che “personalmente, anche io mi sento, a volte, un po’ in ansia di fronte alla situazione in cui si trova la Chiesa. Però credo che, da parte del magistero, soprattutto del magistero del Papa, ci sono anche delle indicazioni molto precise, molto determinate, proprio per non rimanere prigionieri, o addirittura vittime, di questo clima di poca speranza, di scoraggiamento, ma per riprendere in mano la situazione, sempre in quella dinamica di cui parlavo prima: grazia di Dio e sforzo dell’uomo e andare avanti”.                                     

                                                FOCUS AMERICA LATINA

Nicaragua, nessuna pace per il Paese

Ancora difficile la situazione in Nicagua. Un gruppo di familiari di prigionieri dell’opposizione in Nicaragua ha annunciato il 29 novembre che sta cercando l’appoggio della Santa Sede per chiedere la scarcerazione dei loro parenti detenuti. La richiesta di mediazione è stata affidata all’arcivescovo Sommertag, nunzio apostolico, che la scorsa settimana è stato privato per decreto governativo dell’incarico di decano del Corpo diplomatico, incarico che per consuetudine antica ribadita dal Trattato di Losanna spetta al nunzio apostolico.

La richiesta di mediazione è parte di una campagna denominata “Natale senza prigioniere né prigionieri politici”, promossa dall’Alleanza Civica per la Giustizia e la democrazia.

Daisy Georgia, una attivista, ha detto che il nunzio resta l’unico canale possibile per “fare uscire i prigionieri”.

L’arcivescovo Sommertag non ha voluto commentare l’eventuale richiesta di mediazione, né il suo coinvolgimento. Secondo la Commissione Interamericana dei Diritti Umani, in Nicaragua ci sono più di 160 prigionieri politici, di cui 41 dirigenti dell’opposizione, attivisti o professionisti incarcerati negli ultimi sei mesi. Tra questi figurano anche sette aspiranti alla presidenza che volevano anche affrontare il presidente Ortega nelle elezioni del 7 novembre che hanno visto la riaffermazione del presidente, il quale ha ora 76 anni.

Pare che il presidente Ortega, nella sua prossima cerimonia di installazione, lancerà nuovamente un “dialogo nazionale”.

Sempre secondo la Commissione Interamericana dei Diritti Umani, dall’inizio della crisi ci sono stati 355 civili e 33 poliziotti morti tra aprile 2018 e luglio 2019, mentre altrti 2000 civili risultarono feriti e più di 103 mila sono esiliati. Il governo assicura che si tratta di terroristi, e riconosce solo 200 morti.

Crisi diplomatica Stati Uniti – El Salvador, la preoccupazione dei vescovi

L’arcivescovo José Luis Escobar Alas di San Salvador ha definito preoccupante la tensione occorsa tra il suo Paese e gli Stati dopo che Jean Manes, incaricata di affari USA, ha detto che le relazioni tra i due Paesi sono “in pausa”.

Una situazione di crisi che l’arcivescovo Escobar definisce “triste e preoccupante”. Escobar ha anche sottolineato che la Chiesa non ha preso una posizione sulle relazioni e ha puntualizzato che “la sua posizione sta con il popolo”, perché è la popolazione salvadoregna quella che più di tutti viene colpita.

Jean Manes, dal canto suo, ha detto il 23 novembre che il governo salvadoregno ha mostrato “interesse” nel migliorare le relazioni con gli Stati Uniti, e assicurato che l’ambasciata avrebbe mantenuto le “porte aperte” con El Salvador, ma ha notato che il governo salvadoregno ha mostrato segnali di disinteresse pagando i media “per attaccare gli Stati Uniti tutti i giorni”.

Manes aveva come obiettivo, al suo arrivo nel Paese, di essere un “ponte” affinché il governo potesse “tornare ad un cammino democratico a seguito della destituzione del procuratore generale della Repubblica e dei magistrati della corte costituzionale.

Costituzione Cile, una iniziativa popolare per l’inclusione della libertà religiosa

Con una lettera firmata da tutte le confessioni religiose del Cile, lo scorso 24 novembre, è stata inoltrata alla Convenzione Costituzionale di Santiago una petizione popolare che chiede di inserire i temi della libertà religiosa e di coscienza nella Costituzione la cui riforma è in discussione. La petizione popolare è accompagnata con un memorandum giustificativo della storia dello sviluppo della norma che viene proposta.

                                                FOCUS MEDIO ORIENTE

Iran, una sentenza della Corte Suprema nuova speranza per i cristiani.

La Corte Suprema dell’Iran ha stabilito, in una sentenza del 3 novembre scorso, che l’appartenenza a una chiesa domestica non rende i cristiani “nemici dello Stato”. Il caso riguardava nove convertiti cristiani che stanno scontando condanne per cinque anni per aver frequentato Chiese domestiche, con l’accusa di “agire contro la sicurezza nazionale”.

Nella sentenza emessa il 3 novembre, la Corte suprema iraniana ha affermato che i convertiti non avrebbero dovuto essere accusati di questo perché il loro coinvolgimento nelle chiese domestiche o la promozione del cristianesimo non equivale ad agire contro la sicurezza nazionale.

La disposizione afferma anche che la formazione di chiese domestiche non costituisce una violazione degli articoli 498 e 499 del codice penale islamico, che riguardano il coinvolgimento in “gruppi anti-statali”.

In particolare questo passaggio della sentenza è stato giudicato “significativo” da Open Doors, l’organizzazione non governativa che aiuta i cristiani perseguitati in tutto il mondo a causa della loro fede, perché i due suddetti articoli sono stati utilizzati per condannare gli oltre 20 cristiani attualmente nelle carceri iraniane per il loro coinvolgimento nelle chiese domestiche.

Santa Sede e Iran hanno rapporti bilaterali dal regno di Shah Abbas il Grande. Dal 2 maggio 1953, sotto il pontificato di Pio XII, Iran e Santa Sede hanno relazioni diplomatiche formali, che sono state maenute durante la rivoluzione iraniana 1978- 1979.

L'unico Papa ad aver visitato l'Iran è stato San Paolo VI, che vi trascorse poche ore il 26 novembre 1970 durante uno scalo tecnico sulla rotta del viaggio che lo avrebbe portato in Asia Orientale, Oceania e Australia: Due presidenti dell’Iran sono stati in visita in Vaticano:  gli ayatollah Mohammad Khatami (11 marzo 1999) e Hassan Rohani (27 gennaio 2016).                  

                                    FOCUS MULTILATERALE

Un nuovo osservatore della Santa Sede all’UNESCO

È monsignor Eric Soviguidi il nuovo osservatore della Santa Sede all’UNESCO. Prende il posto di monsignor Francesco Follo, che è stato a Parigi dal 2002 e che si è reso protagonista di diverse iniziative, non ultima la giornata di studio su don Primo Mazzolari o anche il lavoro sull’intelligenza artificiale.

Monsignor Follo ha compiuto 75 anni, e dunque è arrivato alla fine del suo servizio attivo. Monsignor Soviguidi, che lo sostituisce, è al primo incarico come “rappresentante del Papa”.

Beninese, classe 1971, sacerdote dal 1998, monsignor Soviguidi è nel servizio diplomatico della Santa Sede dal luglio 2005. Ha lavorato nelle nunziature apostoliche di Haiti, Ghana, Haiti, Tanzania, Guatemala e presso la Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. Conosce il francese, l’italiano, l’inglese e lo spagnolo.

La Santa Sede all’OSCE, i grandi temi sul tavolo

Si è tenuto il 2 dicembre a Stoccolma il 28esimo Consiglio Ministeriale dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Per la Santa Sede è intervenuta Francesca Di Giovanni, sottosegretario per il settore multilaterale della Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato vaticana.

Nel suo intervento, Di Giovanni ha notato che “il mondo oggi sta affrontando l’emergenza di nuovi conflitti, l’esacerbazione di conflitti esistenti e la protrazione di cosiddetti conflitti congelati. La Santa Sede – ha spiegato – è convinta che “la nostra organizzazione è ben equipaggiata per affrontare i conflitti”, a partire dal fatto che nell’Atto Finale di Helsinki gli Stati partecipanti includevano tra i Principi che Guidano le relazioni tra gli Stati partecipanti il “rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o pensiero”.

Si trattava di un approccio che andava oltre il tradizionale aspetto di sicurezza “Stato-centri e militare) e che è sostenuto dalla Santa Sede, la quale nota che una caratteristica unica dell’OSCE è quella di avere un collegamento esplicito e strutturale tra i diritti umani e le libertà fondamentali da una parte e la sicurezza dall’altra parte.

Di Giovanni ha notato che la Santa Sede dà “grande attenzione al lavoro dell’OSCE”, che hanno “adottato differenti prospettive e approcci su alcune questioni, in particolare sulle Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa” in quanto diverse per natura e composizione di membri.

Per questo, si devono fare distinzioni, non si può considerare l’OSCE legato alle decisioni delle altre organizzazioni internazionali, sebbene ci siano questioni comuni tra l’OSCE e le altre organizzazioni internazionali.

L’OSCE è diverso, spiega la Santa Sede, soprattutto riguardo la partecipazione e il coinvolgimento di tutti gli Stati, perché “la nostra organizzazione, sin dal momento della sua fondazione, è stata caratterizzata dalla regola del consenso nel processo di fare decisioni”, e le ragioni per cui questa regola viene adottata “sono sempre valide”, perché riflettono “il principio dell’equa sovranità di tutti gli Stati e facilita le negoziazioni al di là di ogni alleanza o blocco”, dando tra l’altro una autorità morale “unica alla loro natura politica”.

Il consenso, spiega Di Giovanni, include una “volontà di scendere a compromessi”, e può essere anche doloro, ma “una volta che questo viene raggiunto, gli Stati immediatamente mettono in campo azioni comuni nell’affrontare minacce e sfide”.

La Santa Sede ricorda che l’implementazione degli impegni richiede il rispetto de principio della buona fede, sottolinea di contare sulla professionalità e l’imparzialità delle strutture esecutive dell’OSCE, ma allo stesso tempo mette in guardia dal fatto che prendere l’interpretazione delle stesse strutture come qualcosa di già accordato “non corrisponde all’imparzialità che dovrebbe guidare le strutture esecutive dell’OSCE”.

La Santa Sede – nota Di Giovanni – è sempre stata vista come un importante strumento di pace da parte della Santa Sede, e per questo supporta le attività dell’organizzazione, seguendo il principio che porta la Santa Sede anche a dedicarsi alle grandi questioni della sicurezza e e della pace e ai problemi che più direttamente riguardano la persona umana.

Di Giovanni affronta poi le due crisi di oggi: la pandemia e il cambiamento climatico, crisi entrambe che vanno ad “accrescere le ineguaglianze che mettono coloro in situazioni già vulnerabili a un più grande rischio di sofferenza”.

In particolare, “le popolazioni a basso reddito sono le più vulnerabili ai tempi di sosta e più confidenti nei loro redditi per la sopravvivenza”, e per questo corrono il rischio di “pagare il più alto prezzo”. A questa ineguaglianza si aggiunge quella del gap tecnologico tra ricchi e poveri, che “sta ancora costando vite”, perché l’ineguale accesso “a tecnologia e risorse online significa che tutta l’informazione scientifica sul COVID 19 non arriva in tempo, quando è ricevuta”, mentre anche l’accesso ad opportunità di lavoro a distanza è ridotto.

La Santa Sede non manca di notare che “le misure di contenimento del COVID 19 non hanno sempre rispettato e protetto i diritti umani e le libertà fondamentali”, perché hanno “un impatto sproporzionato sulle persone che sono parte di minoranze nazionali, e in particolare alle comunità religiose”.

La Santa Sede riconosce l’importanza degli interventi dei governi nel recupero post-COVID, perché mentre “la crisi ha reso evidente molta solidarietà e generosità delle persone ordinarie”, questo non è comunque sufficiente e richiede azioni da parte dei governi.

La Santa Sede ricorda che già nel Documento Conclusivo di Vienna 1989 “i nostri Stati hanno riconosciuto che la promozione del diritto economico, sociale e culturale è “di grande importanza per la dignità umana e per il raggiungimento delle legittime aspirazioni personali di ciascun individuo”.

Per quanto riguarda gli eguali diritti di uomini e donne, la Santa Sede ribadisce la differenza di maschio e femmina come “due individui con eguale dignità, che non si riflette in una eguaglianza statica, perché la specificità della femmina è differente dalla specificità dell’uomo”. La Santa Sede, dunque, supporta gli impegni OSCE per una vera e autentica eguaglianza tra donne e uomini, così come tutte le iniziative contro le discriminazioni basate sul sesso.

La Santa Sede a Ginevra, la questione della salute

Lo scorso 30 novembre, si è tenuta a Ginevra la Seconda Sessione Speciale dell’Assemblea Mondiale della Salute. Con un intervento dell’incaricato affari John Putzer, la Santa Sede ha chiesto ancora una volta una risposta coordinata alla pandemia, con particolare attenzione ai più vulnerabili.

“Come membri di una unica famiglia umana – ha detto Monsignor Putzer – tutta la società è il dovere di rispettare la dignità di ogni persona. Nel contesto dell’attuale pandemia, questo implica non solo la responsabilità dei governi di adottare le misure necessarie, ma anche che ogni membro della società agisca responsabilmente in modo da proteggere la salute propria e degli altri”.

La Santa Sede ribadisce che la pandemia COVID 19 ha dimostrato “come l’accesso a trattamenti sanitari universali di base è una condizione sine qua non per lo sviluppo integrale di ogni persona umana”.

La Comunità internazionale ha anche l’imperativo morale di “impegnarsi anche più a fondo per assicurare la fornitura e condivisione di adeguate risorse, informazione e tecnologie”.

La Santa Sede ricorda che ogni decisione prese alla Sessione Speciale della Assemblea Mondiale della Salute avranno “un impatto decisivo su come la comunità internazionale risponderà a tali sfide urgenti”, e sottolinea che sarebbe benefico “sviluppare un nuovo strumento internazionale per rafforzare gli strumenti e i meccanismi esistenti, fintanto che si metta comunque in primo piano la solidarietà e sostenga possibilità, specialmente verso le nazioni a medio e basso reddito.