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L’Armenia dopo il Papa, ancora alla ricerca del riconoscimento del genocidio

Tsitsernakaberd | La Fortezza delle Rondini a Tsitsernakaberd | Andrea Gagliarducci / ACI Stampa
Tsitsernakaberd | La Fortezza delle Rondini a Tsitsernakaberd | Andrea Gagliarducci / ACI Stampa
Tsitsernakaberd | La targa dedicata a Benedetto XV al Memoriale di Tsitsernakaberd | Andrea Gagliarducci / ACI Stampa
Tsitsernakaberd | La targa dedicata a Benedetto XV al Memoriale di Tsitsernakaberd | Andrea Gagliarducci / ACI Stampa
Tsitsernakaberd | Armenia Rinata, Tsitsernakaberd | Andrea Gagliarducci / ACI Stampa
Tsitsernakaberd | Armenia Rinata, Tsitsernakaberd | Andrea Gagliarducci / ACI Stampa
Tsitsernakaberd | Lista ufficiale dei massacri al Museo del Genocidio, Tsitsernakaberd | Andrea Gagliarducci / ACI Stampa
Tsitsernakaberd | Lista ufficiale dei massacri al Museo del Genocidio, Tsitsernakaberd | Andrea Gagliarducci / ACI Stampa

Tutto ruota intorno ad una parola: genocidio. Perché non c’è dubbio che milioni di armeni furono deportati, a più riprese, dal XIX secolo in poi, fino ai tragici fatti del 1915. C’è così poco dubbio che persino i turchi ne processarono e condannarono i responsabili, prima dell’arrivo della Turchia laica e moderna targata Kemal Ataturk. Tutto sta nel modo in cui definire quei “tragici fatti”. Ovvero, su come parlare della scomparsa di un milione e mezzo di persone. Per gli armeni non c’è dubbio: è genocidio. Per la comunità internazionale: dipende. Per i turchi, non fu genocidio, perché durante quei fatti non morirono solo gli armeni.

Dietro quella parola, il peso di relazioni internazionali ambigue e palesi. L’ambiguità delle nazioni che – come ha detto Papa Francesco – “si sono girate dall’altra parte”. Durante il suo viaggio in Armenia, il Papa ha menzionato due volte il genocidio: senza preavviso nel discorso alle autorità civili in Armenia e poi nella dichiarazione congiunta con il Catholicos Karekin II, anche quella arrivata quando ormai non si pensava più ci sarebbe stata.

Per il "popolo del libro", riconoscere il genocidio è ricostruire la loro storia. È dare dignità ad una parte di identità. Secondo Gaghik Baghdassarian, traduttore raffinato e già ambasciatore dell’Armenia presso l’Italia, “è importantissimo che il Papa ne abbia parlato. Usare il termine è importante, perché il termine che dice tutto”.

Per questo motivo, quando era ambasciatore, Baghdassarian si è impegnato in un instancabile tour in tutta Italia, supportato dalla grande comunità di intellettuali armeni, e accompagnando una mostra fotografica curata dal console Pietro Kuciukian e da sua moglie Annamaria Samuelli che presentava le foto di Armin Wegner, tra i primi ad alzare il velo sul tema del genocidio. Un lavoro corale, che ha fatto sì che comuni, regioni e altri enti pubblici riconoscessero il genocidio in mozioni e documenti, fino al riconoscimento della Camera dei Deputati, con una mozione portata avanti da destra e sinistra. Un lavoro cui ha contribuito anche l'Associazione di Amicizia Italo-Armena Zatik, parola che in Armenia significa sia "pasqua" che "coccinella". 

Si tratta della necessità di mantenere una memoria viva. Quando Adolf Hitler progettò la soluzione finale, e gli obiettarono che lo sterminio di milioni di ebrei non sarebbe passata inosservata, questi rispose: “Chi si ricorda dello sterminio degli armeni?” E questa frase campeggia al termine del percorso del Museo del Genocidio, annesso al memoriale di Tsitsernakaberd, dove il Papa è andato per una preghiera silenziosa ed ecumenica.

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“Il genocidio armeno – dice ad ACI Stampa Suren Manukyan, vicedirettore del Museo del Genocidio – non è solo parte della storia armena, ma è parte della storia del mondo. Il Papa non è venuto qui solo per menzionare le vittime armene. È venuto piuttosto in un luogo simbolico per ricordare tutte le vittime del genocidio”.

La stessa storia del memoriale racconta della tenacia di un popolo a vedere riconosciuta la sua drammatica storia. Nel 1965, nel cinquantesimo anniversario della fase peggiore del genocidio, fu un movimento di intellettuali a riempire le piazze e le strade della capitale Erevan, e a chiedere con insistenza un memoriale per ricordare il genocidio.

Si era in pieno periodo sovietico, e l’Unione Sovietica era anche alleata con la Turchia, che ancora oggi non riconosce l’appellativo del genocidio. Eppure, la manifestazione ebbe effetto di rottura. Si bandì un concorso pubblico, e nel 1967 fu finalmente inaugurato il Memoriale. Solo nel 1995, all’80esimo anniversario dei fatti del 1915, si poterono aprire le porte del museo adiacente. Un museo basato su dati fattuali, fotografie, documenti, reperti storici. Molto crudo e molto reale, lasciato aperto gratuitamente al pubblico perché tutti possano vedere.

Ma è tutto il memoriale a raccontare della necessità di un popolo di preservare la sua memoria. La diaspora è rappresentata dalla piramide spaccata in due, che guarda verso il cielo e testimonia le due Armenie, quella grande della diaspora e quella più piccola del territorio che le è rimasto assegnato: si chiama “Armenia rinata” ed è tutta in granito. La “Fortezza delle Rondini” si presenta con dodici pietre (a rappresentare le 12 regioni dell’Armenia perduta, ora in territorio turco) che circondano una fiamma eterna. Il muro racconta di una Armenia isolata dal resto del mondo, e che pure è ancora lì, anche grazie a quanti hanno aiutato il popolo armeno nel periodo dei tragici eventi. Tra questi, Benedetto XV, che addirittura ospitò dei rifugiati armeni nelle Ville Pontificie di Castel Gandolfo.

Manukyan sottolinea che “la Santa Sede è sempre stata in prima linea. Nelle parole del Papa riguardo il genocidio, c’è grande continuità nella posizione che da sempre il Papa di Roma ha avuto in difesa del popolo armeno. Ci sono lettere, dispacci diplomatici, che raccontano del continuo interesse della Santa Sede sul tema, e dell’aiuto costante dato ai rifugiati armeni.

Il problema è ancora con la Turchia. Racconta l’ambasciatore Baghdassarian che “per i turchi è difficile ammetterlo, dopo più di 70 anni di negazione. E c’è il problema di Ataturk, Mustafà Kemal, il fondatore della nazione turca”.

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Perché Ataturk aveva preso una posizione fortemente nazionalista dopo il trattato di pace di Sevrés del 1920, che menzionò espressamente le responsabilità turche e mise l’impero sul banco degli imputati. Nasce la retorica nazionalista turca, che sopravvive ancora oggi.

Non sorprende che, quando il Papa ha parlato di genocidio, subito è arrivata la reazione della Turchia. Prima, il vicepremier turco Nurettin Canlikli, ha denunciato “tutti i segni e i riflessi della mentalità dei crociati nelle azioni del Papa” perché parlare di genocidio “non è una dichiarazione obiettiva che corrisponda alla realtà”. 

E poi la notizia, filtrata dal quotidiano turco Hurriyet, che monsignor Angelo Accattino, primo consigliere della nunziatura della Santa Sede ad Ankara e responsabile diplomatico in attesa della presentazione delle credenziali del nuovo nunzio Russell Fitzpatrick, sarà presto convocato dal governo di Ankara, e gli verrà espresso il “malessere” del governo turco nei confronti delle parole del Santo Padre.

Non sembra in vista un richiamo dell’ambasciatore turco presso la Santa Sede, Mehmet Pacaci, da poco rientrato a Roma dopo dieci mesi di congelamento dei rapporti diplomatici, grazie al lavoro di ricucitura portato avanti dalla Segreteria di Stato vaticana.

Di certo, agli armeni tutto questo via vai diplomatico interessa poco. Il popolo della diaspora, che riconosce la propria appartenenza dall’accento con cui si parla una lingua difficilissima eppure foneticamente semplice da scrivere, vuole semplicemente che la sua storia venga riconosciuta. E, con il riconoscimento del genocidio, vorrebbe che finalmente si riconosca il popolo armeno come un popolo martire. Sempre sotto attacco, sempre a rischio. Eppure ancora lì, presente, con la sua fede cristiana e il cristianesimo popolare coltivato sui libri. Un popolo la cui storia e memoria non sono state sterminate.