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Novanta anni di Patti Lateranensi. A cosa serve lo Stato di Città del Vaticano?

Vincenzo Buonomo e Papa Francesco | Il professor Vincenzo Buonomo, rettore della Pontificia Università Lateranense e consigliere dello Stato di Città del Vaticano, con Papa Francesco  | Vatican Media / ACI Group Vincenzo Buonomo e Papa Francesco | Il professor Vincenzo Buonomo, rettore della Pontificia Università Lateranense e consigliere dello Stato di Città del Vaticano, con Papa Francesco | Vatican Media / ACI Group

Dal 1870 al 1929, la Chiesa non ha avuto uno Stato, né poteva disporre liberamente dei propri beni. Era la questione “Romana”, che si era creata con la presa di Roma e l’annessione dello Stato pontificio al Regno d’Italia. Con i Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929, la Santa Sede otteneva di nuovo una piccola autonomia territoriale, lo Stato di Città del Vaticano. “Quel tanto di corpo che serve a portare avanti la nostra missione”, diceva Pio XI.

I Patti sono così importanti che il loro novantesimo anniversario è stato citato da Papa Francesco nella consueta udienza di inizio anno al Corpo Diplomatico

Novanta anni dopo, si deve riflettere sul senso e il significato dei Patti Lateranensi. I Patti erano costituiti da tre documenti: il Trattato che riconosce l’indipendenza e la sovranità della Santa Sede e fonda lo Stato di Città del Vaticano; la Convenzione Finanziaria con cui l’Italia si impegnava a risarcire la Chiesa, e infine il concordato, che definiva le relazioni civili e religiose tra la Chiesa e il governo italiano.

Vincenzo Buonomo, rettore della Pontificia Università Lateranense e consigliere dello Stato di Città del Vaticano, ha aiutato ACI Stampa a definire il senso dei patti.

A cosa sono serviti i Patti Lateranensi?

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Sono serviti anzitutto a riconciliare la Chiesa con lo Stato nel contesto particolare dell’Italia. In Italia, la Chiesa aveva i suoi possedimenti, anche territoriali, fino al 1870. Poi, con la presa di Roma da parte delle truppe dell’Esercito Italiano, venne annientato questo controllo territoriale, e si creò quella che viene chiamata la “Questione Romana”, una contrapposizione tra Chiesa e Stato. Questa contrapposizione ha significato anche per la Chiesa dover dire ai propri fedeli di non intervenire nella politica. Questa contrapposizione ha anche significato un limitato uso dei beni della Chiesa stessa. La Conciliazione, con i suoi tre documenti, riuscì a portare intorno allo stesso tavolo due visioni diverse.

Cosa ha significato, in questo contesto, la nascita dello Stato di Città del Vaticano?

Ha segnato, per la Santa Sede, il recupero molto piccolo di quella che è la sua sovranità territoriale. Pio XI, il Papa che fece la Conciliazione, diceva che lo Stato vaticano serviva alla Chiesa per poter esprimere fino in fondo la sua libertà e alla Santa Sede per esprimere fino in fondo la sua missione del mondo. Ancora oggi, concetto di sovranità e di indipendenza per qualunque potere si lega a dei territori. Certamente, chi conosce la Santa Sede e la sua funzione di organo centrale del grande corpo universale che è la Chiesa cattolica, sa che non c’è bisogno di quel territorio per operare a livello internazionale. Ma c’è bisogno, invece, per tanti che non lo comprendono. Il territorio non è un simbolo, ma una funzione. Il territorio è funzionale all’attività della Santa Sede, non è essenziale.

Il Concordato del 1929 può essere un modello per altri concordati?

Era certamente un modello per quel periodo storico. Ma va ricordato che, nel periodo in cui la Santa Sede non aveva un suo territorio, tra il 1870 e il 1929, sono stati conclusi ben 24 concordati. Significa che la Santa Sede manteneva la sua attività istituzionale, sebbene senza territorio. Il Concordato del 1929 è un prototipo di quel periodo storico. Oggi, l’evoluzione delle società, ma anche quella della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II, ha comportato per la Santa Sede un rivedere gli oggetti il concordato.

In che modo?

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Oggi si preferisce, prima di tutto, usare il termine concordato in luogo di concordato. L’ultimo concordato è quello concluso con la Polonia nel 1993, mentre gli altri sono accordi. E tutti gli accordi vanno a definire la libertà della Chiesa e la libertà di religione in un Paese, con un particolare riferimento alle strutture che sono più legate alla vita della Chiesa, come scuole, ospedali, centri di ascolto, attività caritative e di animazione, ma anche agli ordinariati militari, importanti perché oggi legati alle missioni di pace, più che alle guerre.

Quanto è importante la religione all’interno di uno Stato secolare?

Noi viviamo in Stati che sono aconfessionali, ma non areligiosi. Certamente non abbiamo più lo Stato che si proclama come uno Stato paladino e portatore di una certa religione. Abbiamo piuttosto uno Stato che deve far convivere esperienze religiose diverse, e in questo senso un accordo, sia esso formale come può essere un accordo internazionale, ma sia esso anche informale tra la Chiesa in un Paese e quel Paese stesso, certamente è a beneficio della Chiesa ma anche a beneficio dello Stato. Beneficio che nasce in questa possibilità di coesione. Oggi nei nostri Paesi la cosa più importante credo sia quella di avere una coesione intorno ai valori fondamentali: la vita, lo sviluppo, la crescita delle persone, l’attenzione alle giovani generazioni, il lavoro. Ecco, da questa coesione intorno ai valori fondamentali della vita umana può nascere da questa sana collaborazione tra la Chiesa e gli Stati.