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Un anno fa il Papa in Marocco, il Cardinale Lopez: “Non è un problema essere in pochi”

L’arcivescovo di Rabat fa il punto della situazione in Marocco, a due anni dal viaggio di Papa Francesco

Papa Francesco e Cardinale Cristobal Lopez | Il Cardinale Cristobal Lopez, allora arcivescovo, con Papa Francesco durante un momento della visita di Papa Francesco a Rabat, 30 marzo 2019 | InfoANS Papa Francesco e Cardinale Cristobal Lopez | Il Cardinale Cristobal Lopez, allora arcivescovo, con Papa Francesco durante un momento della visita di Papa Francesco a Rabat, 30 marzo 2019 | InfoANS

“Papa Francesco ci ha insegnato che non è un problema essere in pochi. È un problema non avere sapore”. Il Cardinale Cristobal Lopez, arcivescovo di Rabat, guarda indietro al viaggio di Papa Francesco in Marocco, avvenuto un anno fa. Da allora, la piccola Chiesa del Marocco ha continuato la sua strada, rafforzata anche dalla decisione di Papa Francesco di creare cardinale l’arcivescovo di Rabat. È lui a fare con ACI Stampa un punto della situazione.

Un anno dopo la visita di Papa Francesco, cosa è rimasto di quel viaggio e come lo avete sviluppato? 

Prima di tutto ha portato un ricordo inenarrabile. Il ricordo di una esperienza di comunione ecclesiale straordinaria, il ricordo di un popolo marocchino, con in testa le autorità, contento di ricevere il Papa. A noi, la visita ha portato le indicazioni che il Papa ci ha lasciato nei suoi diversi interventi, così come il discorso di Sua Maestà il Re, straordinario nel contenuto e nella forma.

La visita del Papa ci ha portato l’impegno di orientare la nostra vita cristiana sulla linea di ciò che il Papa ci ha insegnato con le sue parole, ma anche con i suoi gesti, con la sua testimonianza, con il suo esempio.

La missione del successore di Pietro è di “confermare i fratelli nella fede”. E Papa Francesco lo ha fatto abbondantemente con noi. Noi ci siamo sentiti compresi, appoggiati, valorizzati, amati.

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C'è un messaggio di Papa Francesco che è rimasto particolarmente impresso nella Chiesa del Marocco? 

Ci sono varie cose che ci sono rimaste impresse. La prima è che non è un problema essere pochi, è un problema essere del sale che ha perso sapore o luce che non illumina nulla. Il secondo che la nostra Chiesa deve compiere la sua missione di evangelizzare non con proselitismo, ma attraverso la testimonianza e il dialogo interreligioso. Quindi, che la dimensione samaritana della nostra Chiesa (e di tutta la Chiesa universale) è fondamentale e fa parte della sua identità e missione.

Quando Papa Francesco ha deciso di crearla cardinale, lei ha detto che non era un riconoscimento personale, ma un riconoscimento a tutta la Chiesa del Marocco. Perché la Chiesa in Marocco ha avuto questo riconoscimento?

Certamente, la mia creazione a cardinale, quando ero arcivescovo da appena due anni, non è stato un riconoscimento personale, perché io non ho un percorso di vita che lo merita e nemmeno alcun merito particolare. È stato, credo, un riconoscimento per le Chiese del Nord Africa, non solo per la Chiesa del Marocco. Si tratta di Chiese che, a livello mondiale, sono conosciute poco o per niente, quasi invisibili. E un cardinale a Rabat può essere un mezzo in più – come lo è stato la visita del Papa, per renderle visibili, per porle nella mappa ecclesiale. Crediamo, molto umilmente, che la nostra esperienza di vita cristiana possa essere utile ad aiutare tanto le Chiese di antica cristianità, ovvero le Chiese europee, quanto le giovani chiese di Africa e Asia.

Il Marocco è un luogo di dialogo e tolleranza, ma questo non è successo in altri Stati nella regione. Penso all'Algeria e ai martiri di Tibhirine, ma anche ad altre situazioni. Cosa porta la Chiesa marocchina alla regione? Quale è l'esperienza che può dare e quale l'esperienza che può prendere?

Sentiamo sulla nostra stessa onda i diversi Paesi della Conferenza Episcopale del Nord Africa, senza considerare le peculiarità di ogni Paese. La Libia, dove si vive una terribile situazione di conflitto civile, non è la stessa cosa del Marocco. Non sono la stessa cosa Algeria e Tunisia. Però credo che, nelle cose basiche fondamentali, le nostre Chiese coincidono: siamo una Chiesa estremamente minoritaria in un contesto di Islam maggioritario; desideriamo essere in queste popolazioni “servitori della speranza”, costruendo una cultura del dialogo e dell’incontro.

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I martiri di Algeria non indicano, di per sé, una situazione di persecuzione al cristianesimo in questo Paese, dove i nostri fratelli cristiani continuarono e continuano a vivere la fede, promuovendo un dialogo islamo-cristiano nel mezzo delle difficoltà sorte a causa di quella che è stata una terribile guerra civile, durante la quale anche 100 imam furono assassinati per non aver voluto avallare la violenza dal punto di vista religioso

Nella Conferenza Episcopale della Regione Nordafricana (CERNA) condividiamo esperienze, riflettiamo insieme e ci aiutiamo in tutto il possibile. La Chiesa del Marocco ha qualcosa da portare alle altre, soprattutto nella dimensione della relazione con lo Stato e in campo educativo. Però la Chiesa del Marocco ha anche tanto da ricevere e apprendere, nella dimensione dell’incarnazione del mondo e della cultura islámica, per esempio.

C'è una raccomandazione di Papa Francesco che le è più rimasta impressa? 

Io dissi al Papa che in Marocco preferiamo non parlare di “migranti”, ma piuttosto di “persone in situazione di migrazione” o “persone migranti”. E lui mi disse più o meno così: “Sì, sì, deve essere così. Perché siamo installati disgraziatamente in una cultura dell’aggettivo, che etichetta e definisce le persone attraverso una caratteristica: omosessuale, migrante, politico… dobbiamo passare ad una cultura del sostantivo, nella quale vediamo, soprattutto, all’essere umano nella sua profonda identità, nella sostantività. Lo vediamo come persona, come fratello… ma al di là delle qualificazioni che possono convenire, perché non venga diminuita in nulla la sua dignità fondamentale”.