Nonostante la Corte Internazionale dell’Aja lo scorso 21 dicembre abbia chiesto di prevenire e punire atti di profanazione e vandalismo contro il patrimonio culturale armeno in Nagorno Karabakh, questo patrimonio continua ad essere a rischio. E così il 10 marzo, a un anno e quattro mesi dal cessate il fuoco, il Parlamento Europeo si è riunito e ha discusso una risoluzione che condanna l’Azerbaijan per quello che alcuni hanno chiamato un “genocidio culturale”.
Nell’ultimo atto di quella che sembra una guerra combattuta prima di tutto sul piano culturale, Anar Karimov, ministro della Cultura dell’Azerbaijan, ha annunciato la creazione di un gruppo di lavoro per le aree riconquistate del Nagorno-Karabakh per “rimuovere le tracce fittizie di armeni su siti religiosi albaniani”. Dichiarazione che rilanciano la preoccupazione degli armeni per il patrimonio cristiano in Artsakh, il nome storico armeno del Nagorno Karabakh.
La Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato lo scorso 14 dicembre all’Azerbaijan di prevenire e punire atti di vandalismo e profanazione contro l’eredità culturale armena durante il conflitto in corso in Nagorno Karabakh. Una posizione, quella del Tribunale, che rappresenta un nuovo approccio alla difesa del patrimonio culturale, non solo armeno, ma che, in quella lingua di terra chiamata Nagorno Karabakh, in armeno Artsakh, rappresenta la speranza concreta che il patrimonio culturale non vada perduto.
Nel monastero che conserva le reliquie di San Giovanni, il Catholicos Karekin I ha pregato per la sicurezza dell’Armenia e dell’Artsakh, il territorio che il mondo chiama Nagorno Karabakh e che gli armeni sentono parte della loro storia. Succede a Gandzasar, uno dei monasteri che si trovano nel territorio del Nagorno Karabakh, a raccontare le radici cristiane di un territorio a lungo conteso, e diventato oggetto di una guerra che ha portato ad un accordo doloroso per l’Armenia, che ha perso i territori precedentemente sotto il suo controllo.
La visita del ministro degli Esteri palestinese in Segreteria di Stato vaticana lo scorso 6 maggio ha rimesso al centro il tema del Medio Oriente nell’agenda della Santa Sede. Non che il tema sia mai stato messo da parte, ma gli incontri personali hanno sempre il pregio di sollevare questioni, e sviluppare rapporti. È stato in Segreteria di Stato anche l’assistente al primo vice presidente di Azerbaijan Elchin Ambirbayov, che in una conversazione con ACI Stampa ha voluto stabilire il punto di vista azero sul conflitto in Nagorno Karabakh e sui rapporti con l’Armenia.
Il Cardinale Parolin lo aveva detto: l’enciclica Fratelli Tutti è uno strumento diplomatico. Questo approccio si è concretizzato lo scorso 15 aprile a Ginevra, quando un evento di Alto Livello alle Nazioni Unite ha messo insieme due cardinali e quattro direttori generali per discutere dell’impatto dell’ultima enciclica di Papa Francesco.
Non c’è tempo da perdere, e anche il Parlamento Europeo deve prendere una posizione sulla perdita del patrimonio cristiano nella regione del Nagorno Karabakh, in armeno Artsakh. Lo ha detto, in un recente intervento, Nathalie Loiseau, presidente del sotto-comitato sulla Sicurezza e la Difesa del Parlamento Europeo, in un articolato intervento pubblicato da La Croix International.
Il presidente azero Ilhan Aliyev ha recentemente dichiarato la città di Shushi, in Nagorno Karabakh, come “capitale culturale” dell’Azerbaijan. La presa della città da parte delle forze azere ha portato l’Armenia a dover accettare un doloroso accordo che ha portato alla conquista azera di molti territori. Quello che si teme, ora, è che continui il “genocidio culturale” contro la presenza armena e cristiana nel Nagorno Karabakh, conosciuta in armeno con Artsakh.
Il primo katholikos di Armenia fu San Giuda Taddeo. E il suo discepolo Dadi fu colui che andò ad evangelizzare l’Armenia orientale. Fu così che cominciò a delinarsi la prima nazione cristiana. Le reliquie di San Dadi sono ora nel monastero di Dadivank, nella regione di Karvacar. E questa regione entrerà sotto il controllo azero. Il monastero resterà così isolato, visibile agli occhi, ma difficile da raggiungere per la popolazione armena. Un po’ come l’Ararat, un segno ulteriore del paradosso di cui vive il popolo armeno.
L’attacco dello scorso 8 ottobre alla cattedrale di Sushi, simbolo della cristianità armena in Nagorno Karabakh, era già un primo segnale. Il 13 ottobre, era stata una chiesa battista ad essere colpita dalle bombe. Ma, nel corso di questi anni di conflitto – un conflitto freddo e caldo alternato – sono stati tanti gli edifici della cultura armena nel territorio che gli armeni chiamano Artaskh ad essere colpito. Tanto che un recente studio ha parlato di un vero e proprio “genocidio culturale” in atto nel territorio.
Nagorno Karabakh: un nome bizzarro, che evoca un luogo che solo nelle fiabe potrebbe esistere. In realtà è un luogo reale e di fiabesco non ha più nulla, dopo oltre un secolo di conflitti.