Città del Vaticano , 29 November, 2025 / 4:00 PM
È ormai tradizione dei Papi svolgere in Turchia (Türkiye, secondo la dizione ufficiale) uno dei primi viaggi apostolici. Per Leone XIV si tratta del primo viaggio apostolico: una tappa già pensata da Papa Francesco, ma allungata nel tempo, che lo ha visto toccare Ankara come prima tappa. Nel discorso al corpo diplomatico e alla società civile, Leone XIV ha sottolineato il ruolo importante della Turchia nello scenario mediterraneo, ma ha anche chiesto un dialogo che renda tutti uguali. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha introdotto le parole del Papa con un lungo discorso, in cui ha ribadito la posizione turca sulla questione israelo – palestinese e fortemente criticato il governo israeliano. Vale la pena ricordare che la moglie del presidente turco, Emine, aveva incontrato Leone XIV lo scorso 2 luglio, parlando di sforzi umanitari comuni, dopo essere intervenuta alla Pontificia Accademia delle Scienze su “Economia basata sulla fraternità: multilateralismo etico”.
Erdoğan era stato in Vaticano il 29 aprile, in piena sede vacante, ed era stato incontrato dal Cardinale Kevin J. Farrell, Camerlengo di Santa Romana Chiesa. Incontro inusuale, perché non c’era il segretario di Stato (tutti gli incarichi apicali decadono alla morte del Papa), ma allo stesso tempo il Camerlengo si deve occupare solo della gestione ordinaria, mentre un’eventuale parte diplomatica dovrebbe spettare al decano.
Il presidente turco aveva avuto l’ultimo colloquio privato con Papa Francesco ad agosto 2024, anche lì per parlare della posizione turca su Gaza. Non è mai stata citata, almeno ufficialmente, la situazione di Cipro, la cui zona nord è occupata da un'autoproclamata repubblica riconosciuta solo dalla Turchia.
Dal 30 novembre, Leone XIV sarà in Libano, anche questo un viaggio sognato da tempo da Papa Francesco. Il viaggio sarà un’occasione per dare un segnale al Libano, “Paese-messaggio” secondo la felice espressione di Giovanni Paolo II, ma anche per guardare alla situazione in tutta la regione mediorientale.
FOCUS TURCHIA E LIBANO
Turchia e Santa Sede, come sono le relazioni diplomatiche?
Quando il presidente turco Erdoğan fece visita a Papa Francesco in Vaticano nel 2018, erano 59 anni che, nonostante le relazioni diplomatiche, un presidente di Ankara non faceva visita al Papa. Il primo era stato il presidente Celal Bayar.
I rapporti diplomatici tra Santa Sede e Turchia furono aperti nel 1960, e sono sempre stati fluttuanti. Nel 2018, al centro dei colloqui era la questione di Gerusalemme.
La Santa Sede si era più volte pronunciata per lo status quo della Città Santa dopo la decisione del presidente Trump di riconoscerla capitale di Israele spostandovi la sede dell’ambasciata USA nei prossimi mesi.
La questione di Gerusalemme è stata la scusa che ha portato il presidente turco a chiamare due volte Papa Francesco, il 7 e il 29 dicembre 2017. E queste due telefonate avevano gettato un ponte che però sembra essere soprattutto una necessaria propaganda del presidente turco.
Nel corso degli anni, ci sono stati molti passi avanti nel dialogo tra Santa Sede e Turchia sul tema del dialogo interreligioso. E non è da sottovalutare l’accordo che il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso siglò con il Dyianet, il dicastero turco che si occupa di affari religiosi, nel 2002. Ma proprio il Dyianet, ha mostrato a volte il suo volto più islamista, lasciando ad Erdogan, prima mprimo Ministro poi presidente, la parte di proporsi come un leader moderato.
Al di là delle possibilità di dialogo, la Santa Sede guarda con prudenza alla Turchia. La nazione è stata visitata da cinque papi: Paolo VI nel 1967, Giovanni Paolo II nel 1979, Benedetto XVI nel 2006 e Papa Francesco nel 2014 e ora da Leone XIV. E, sebbene la visita abbia avuto sempre tutte le cortesie diplomatiche del caso, il primo motivo di queste visite era ecumenico, perché a Istanbul c’è il Fanar, il “Vaticano” del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli.
Per quanto riguarda i rapporti diplomatici, questi sono in vigore dal 1960, grazie ai buoni uffici di San Giovanni XXIII, che veniva chiamato “il Papa turco” per il buon ricordo e il lavoro che aveva fatto a Istanbul quando vi era stato mandato come delegato apostolico tra il 1935 e il 1944. E fu lo stesso Papa turco, ad accogliere con un importante discorso, il primo ambasciatore di Turchia presso la Santa Sede Cemal Erkin nel maggio 1962.
Da parte turca - spiega l'Ambasciata di Turchia presso la Santa Sede - , sono stati in Vaticano il Primo Ministro Adan Menderes nel 1955, quindi il già citato presidente Bayar nel 1959, il ministro degli Esteri Feridun Cemal Erkin nel 1963, il Primo Ministro Turgut Ozal nel 1988, poi il vice ministro Bekir Bozdag per tre volte e il vice primo ministro Emrullah İşler nel 2014: in quello stesso anno Mehmet Gormez, presidente del Dyianet, si lamentò che la Santa Sede non prendeva una posizione contro gli attacchi alla moschee in Europa.
Dal 1988, dunque, non ci sono visite di personalità turche di alto livello politico in Vaticano.
Quando la Santa Sede chiese alla Turchia di rispettare la libertà religiosa e la dignità umana per l'ingresso in Europa, l'allora primo ministro Erdogan convocò i vescovi cattolici ad Ankara, ribadendo la sua promessa di rispetto della libertà religiosa. In generale, le comunità cristiane vivono comunque senza riconoscimento giuridico. E la richiesta di questo riconoscimento, insieme a quella di restituire delle proprietà confiscate poi dal governo di Ataturk, ma anche di quelle espropriate dalla presidenza Erdogan dopo il fallito golpe del 2016, sono parte della continua dialettica tra Chiesa e Turchia, che comunque hanno avviato un percorso di avvicinamento.
Questo percorso di avvicinamento è stato colpito da due eventi che hanno scosso la comunità cattolica di Turchia. A pochi è sfuggita la coincidenza che la visita di Erdogan a Papa Francesco avviene il 5 febbraio, nel 12esimo anniversario dell’uccisione del sacerdote romano Andrea Santoro a Trabzon, Trebisonda. Era il 2006. Quattro anni dopo, a morire per mano di un estremista islamico fu il vescovo Luigi Padovese, vicario apostolico di Anatolia.
Mentre è da notare che nel 2023 è stata inaugurata la prima chiesa mai costruita dai tempi di Atatürk, la cui prima pietra fu posata proprio dal presidente nel 2019.
Libano e Santa Sede, come sono le relazioni diplomatiche?
In pochi lo ricordano, ma nel 2017 Libano e Santa Sede rischiarono la frattura diplomatica. Perché Beirut aveva nominato Johnny Ibrahim come suo ambasciatore presso la Santa Sede, ma questa non aveva mai dato l’agrément alla scelta a causa dei presunti legami del candidato con la Massoneria. Il Papa lasciò quindi trascorrere il consueto periodo di tre mesi per la presentazione delle credenziali senza ricevere Johnny Ibrahim, dimostrando così il rifiuto della Santa Sede nei confronti del diplomatico.
Il Libano ha poi proposto un altro ambasciatore, Antoine Andary, ricevuto dal Papa a gennaio ma ritiratosi a maggio. Un ambasciatore di transizione, insomma, con una scelta che non era stata accolta positivamente. A fine aprile del 2018, il Libano aveva nominato Farid Elias Khazen a capo della sua missione diplomatica presso la Santa Sede, cattolico maronita, accademico ed ex parlamentare.
Una crisi scongiurata, insomma. La Santa Sede ha guardato comunque sempre con attenzione al Libano. Beirut e Santa Sede hanno piene relazioni diplomatiche dal 1946, ovvero tre anni dopo che il Paese dei Cedri aveva ottenuto l’indipendenza.
Il primo ambasciatore del Libano presso la Santa Sede è stato Charles Hélou, che presentò le credenziali il 17 marzo 1947.
.Fin dal primo anno di guerra, San Paolo VI, che aveva visitato il Libano nel 1964, espresse la sua preoccupazione per la sua salvaguardia, osservando con lucidità le cause del conflitto, che egli comprendeva non essere principalmente interne. “Chiunque abbia potuto conoscere e ammirare da vicino l'esempio di pacifica convivenza dato per così tanto tempo dalle popolazioni cristiana e musulmana del Libano – aveva detto Papa Montini - è quasi naturalmente portato a pensare che le esplosioni di violenta ostilità che ora vi sono scoppiate non possano essere spiegate in modo soddisfacente senza l'intervento di forze estranee al Libano e ai suoi veri interessi”.
(La storia continua sotto)
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Fu Paolo VI a canonizzare San Charbel a Roma nel 1976, quattro mesi dopo l'ingresso dell'esercito siriano in Libano, preludio a un'occupazione che sarebbe durata fino al 2005, con un controllo pesante sullo Stato a partire dal 1988.
Il pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005) è stato caratterizzato da numerose e varie iniziative a favore del Libano. Tra gli sforzi diplomatici da lui intrapresi con l'ONU e le grandi potenze per trovare una giusta soluzione al problema palestinese – una soluzione che avrebbe privato di ogni legittimità la guerriglia contro Israele, condotta dal Libano dall'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e sostenuta militarmente da alcuni Stati arabi – va menzionata la lettera che il Papa indirizzò in tal senso al Presidente israeliano Haim Herzog nel 1989, quando lo Stato di Israele non era ancora riconosciuto dalla Santa Sede.
Israele, che occupava parte del Libano meridionale dal 1978, aveva fatto avanzare il suo esercito a Beirut nel 1982 per espellere l'OLP. Il suo ritiro completo si concluse nel 2000. Il 4 ottobre 1989, inaugurando a Roma la Giornata universale di preghiera per la pace in Libano, il Sommo Pontefice chiese il ritiro di tutte le forze straniere dal Paese, richiesta che rinnovò il 13 gennaio 1990. Regolarmente, emissari del Vaticano si recavano a Beirut per valutare la situazione politica.
Una di queste azioni riveste un significato particolare. Nel luglio 1985, su richiesta di Giovanni Paolo II, il cardinale Roger Etchegaray, presidente della Commissione Giustizia e Pace, visitò il Libano meridionale, dove ad aprile più di 60 villaggi cristiani a est di Sidone erano stati devastati dalle milizie islamiste. I sopravvissuti si erano rifugiati nella città di Jezzine, a maggioranza cristiana, ora circondata e minacciata. Era in corso un esodo che minacciava di spopolare la regione della sua popolazione cristiana. Ricordando questa missione nelle sue memorie, il prelato confidò: "Libano! Quale uomo di Chiesa non prova tenerezza e compassione per questo meraviglioso e sfortunato Paese? Credo che non ci sia Paese al mondo per il quale Giovanni Paolo II sia intervenuto più spesso e al quale abbia indirizzato più messaggi".
Per preservare il “messaggio libanese”, Giovanni Paolo II arrivò anche a convocare nel 1995 un'Assemblea Speciale per il Libano del Sinodo dei Vescovi.
La decisione era stata presa d'accordo con i leader delle sei Chiese cattoliche presenti nel Paese (maronita, melchita, armena, caldea, siriaca e latina), con lo sguardo su due nodi fondamentali. Il primo: la disperazione e la crisi d'identità dei cristiani libanesi, i quali erano sfiniti da sedici anni di violenza, più divisi che mai in un momento in cui l'unità era essenziale per resistere alle ambizioni egemoniche dei loro vicini, e scoraggiati dopo i dolorosi scontri intercristiani del 1990 e l'indebolimento della loro influenza all'interno dello Stato in seguito alla revisione costituzionale derivante dall'accordo di Taif (22 ottobre 1989). Il secondo, il fatto che la guerra aveva sfigurato l'immagine del cristianesimo locale perché i suoi fedeli non avevano sempre difeso la loro esistenza con le armi di Cristo.
Il presidente Erdoğan all’incontro con Leone XIV
È interessante notare le parole del presidente Erdoğan, che hanno introdotto il discorso del Papa al corpo diplomatico ad Ankara lo scorso 27 settembre. Il presidente turco ha lodato “la richiesta di pace e diplomazia sul conflitto russo ucraino”
"Gli appelli del Papa alla pace e alla diplomazia sul conflitto tra Russia e Ucraina sono significativi", ha dichiarato Erdoğan. Il quale ha poi annunciato che Turchia e Santa Sede lavoreranno “insieme contro qualsiasi violazione dello status sacro di Gerusalemme Est", ha aggiunto.
Erdoğan ha accolto favorevolmente la "posizione accorta" del pontefice sulla questione palestinese e ha auspicato che la visita sia benefica per l'umanità in un momento di tensione e incertezza.
Erdoğan ha avuto un incontro individuale con il Papa presso il Complesso Presidenziale, durato circa mezz'ora. Durante l'incontro, i due leader hanno discusso delle relazioni tra Turchia e Vaticano e degli attuali sviluppi regionali e globali, con particolare attenzione alla situazione in Palestina. L'ordine del giorno prevedeva anche la discussione del genocidio in corso in Palestina da parte di Israele, degli sforzi per costruire la pace in Medio Oriente e di questioni internazionali più ampie.
Il presidente ha sottolineato che “la Turchia occupa una posizione eccezionale nel cuore di tre continenti, unendo Oriente e Occidente e fungendo da ponte tra culture e credenze diverse. Come sottolineo in ogni occasione, siamo un Paese ispirato dall'aquila bicipite selgiuchide, il cui volto e la cui direzione sono sia verso Oriente che verso Occidente. Per mille anni, persone di ogni razza, religione, setta e origine hanno vissuto liberamente, senza preoccupazioni o oppressioni, in queste terre che sono state la nostra patria”.
Il Presidente Erdoğan ha aggiunto che “il Museo di Santa Irene e la Sinagoga Neve Shalom a Istanbul, il Monastero di Sümela a Trebisonda, il Museo Akdamar a Van e molti altri sono solo alcuni esempi della nostra comune cultura della vita. Dal nostro insediamento nel 2002, abbiamo completato il restauro di quasi 100 chiese, monasteri e luoghi di culto. Abbiamo persino assistito personalmente alle cerimonie di inaugurazione di alcuni di essi".
Erdoğan, affermando che punta ad aprire altri cinque luoghi di culto entro la fine dell'anno, ha dichiarato: "Consideriamo le differenze culturali, religiose ed etniche non come fonte di divisione, ma piuttosto come fonte di arricchimento. Ogni singolo membro del nostro popolo, indipendentemente dalla lingua, dalla religione, dalla setta o dall'origine etnica, è un cittadino di prima classe della Repubblica di Turchia. Non permetteremo che nemmeno uno dei nostri cittadini sia oggetto di discriminazione".
Il presidente Erdoğan ha affermato che la base di tutto ciò è la visione di una civiltà che "ama il creato per amore del Creatore" e guarda all'universo con amore e compassione.
Inoltre, ha aggiunto che “in un momento in cui si sta provocando uno scontro di civiltà, l'Iniziativa dell'Alleanza delle Civiltà, in cui Turchia e Spagna hanno mosso i primi passi e che sta portando avanti sotto l'egida delle Nazioni Unite, è l'esempio più concreto di questa sensibilità. Il livello raggiunto dall'Alleanza delle Civiltà, che è giunta al suo ventesimo anno e comprende oltre 160 paesi e organizzazioni, è molto gratificante e pieno di speranza non solo per il nostro paese, ma per tutta l'umanità. Proprio come abbiamo fatto 20 anni fa, ci assumiamo la responsabilità dei conflitti, delle crisi e dell'oppressione che ci circondano. Scegliendo la strada difficile, non quella facile, ci assumiamo la responsabilità della pace, della giustizia e della stabilità”.
Ricordando che la Turchia è uno dei Paesi che forniscono la maggior parte degli aiuti umanitari al mondo in proporzione al suo reddito nazionale, Erdoğan ha osservato che “per 13 anni e mezzo, abbiamo ospitato oltre 3,6 milioni di nostri fratelli e sorelle siriani”. Proprio come in Siria, abbiamo aperto le nostre porte ai rifugiati in fuga dalla guerra in Ucraina, in particolare ai bambini vittime di guerra”.
E ha aggiunto: “Dall'iniziativa per i cereali del Mar Nero agli scambi di prigionieri e salme, abbiamo intrapreso numerose iniziative che hanno riunito le parti su un terreno comune. Abbiamo seguito da vicino i recenti movimenti volti a porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina e ci stiamo impegnando a fornire il supporto e il contributo necessari. Gli appelli alla pace e al dialogo del nostro stimato ospite sono inoltre preziosi per il successo del processo diplomatico. Giustizia per tutti, prosperità per tutti, pace per tutti e tranquillità per tutti. Questi sono i nostri obiettivi e ciò che cerchiamo di realizzare”.
Il presidente Erdoğan ha affermato che la questione palestinese è al centro del clima di pace duratura nella regione e che questa dolorosa verità è stata testimoniata ancora una volta dagli attacchi durati oltre due anni, durante i quali sono stati massacrati più di 70.000 abitanti di Gaza, per la maggior parte bambini e donne.
"Il governo israeliano bombarda da mesi insediamenti civili, tra cui chiese, moschee, ospedali e scuole. Uno dei luoghi di culto colpiti da Israele è stata la Chiesa della Sacra Famiglia, l'unica chiesa cattolica a Gaza", ha affermato Erdoğan, cogliendo l'occasione per porgere nuovamente le sue condoglianze.
"Come famiglia umana – ha detto il presidente turco - il nostro più grande debito nei confronti del popolo palestinese è la giustizia. Il modo per ripagare questo debito è attuare immediatamente la visione di una soluzione a due stati basata sui confini del 1967. Per raggiungere questo obiettivo, il cessate il fuoco a Gaza deve essere innanzitutto rafforzato, la sicurezza dei civili deve essere garantita e gli aiuti umanitari devono essere consegnati a Gaza senza interruzioni".
Ha quindi notato che “è un dato di fatto che l'intolleranza genera conflitti, e i conflitti generano divisione, odio e violenza. La crescente islamofobia e xenofobia in Occidente sono manifestazioni di questo circolo vizioso. I media, i social media e i politici populisti stanno, consapevolmente o inconsapevolmente, alimentando percezioni razziste e discriminatorie nei confronti dei musulmani. Dobbiamo considerare la possibilità che questa delicata questione, spesso trascurata a causa di preoccupazioni politiche, possa degenerare in dimensioni ancora più gravi in futuro”.
Erdoğan ha affermato che la Turchia richiama da tempo l'attenzione su questa minaccia e su questo pericolo, aggiungendo che attribuisce importanza all'approccio della Chiesa cattolica nello sviluppo di buone relazioni con i membri di altre religioni dopo il Concilio Vaticano II.
Erdoğan ha affermato che per il defunto Papa Francesco era importante non dare credito alla retorica conflittuale della Guerra Fredda, che aveva toccato anche gli ambienti religiosi, e che il documento sulla Fratellanza Umana da lui redatto all'epoca aveva aperto nuove strade.
Erdoğan, che ha dichiarato di aver seguito con grande soddisfazione i suoi forti messaggi sulla protezione della famiglia di fronte alle crescenti minacce, ha continuato: “Dio Onnipotente ha creato l'umanità da un uomo e una donna e li ha creati come linee evolutive e società affinché potessero incontrarsi e integrarsi tra loro. Pertanto, se non possiamo proteggere la famiglia, non possiamo proteggere l'individuo. Se non possiamo proteggere l'individuo, non possiamo preservare la consapevolezza di essere umani. In questo senso, desidero ribadire oggi che abbiamo tutti delle responsabilità molto importanti. Indubbiamente, le nostre somiglianze e i nostri punti in comune trascendono ogni opposizione e distinzione. Indipendentemente dalle nostre convinzioni, siamo tutti membri della grande famiglia umana. Il mondo in cui viviamo non è solo una prova per noi, servitori di Dio, ma anche un incarico affidatoci dalle generazioni future. Abbiamo la responsabilità di proteggere adeguatamente questo incarico e di trasmetterlo alle generazioni future”.
In una dichiarazione rilasciata dopo l'incontro nel Complesso Presidenziale, Erdoğan si è detto "profondamente lieto" di ospitare Papa Leone XIV in Turchia, definendo la prima visita all'estero del pontefice dall'insediamento "altamente significativa" e un passo importante verso il rafforzamento della condivisione di interessi tra Ankara e il Vaticano. Ha osservato che i colloqui sono stati "produttivi" e incentrati sulla pace globale, la stabilità e le sfide umanitarie.
Nel suo discorso introduttivo, Erdoğan ha affermato di accogliere con favore l'allineamento tra Turchia e Vaticano su un approccio che "difende la pace, dà priorità alla giustizia ed è radicato nella compassione", descrivendo questa convergenza come fonte di soddisfazione personale.
Ha definito la visita "un passo molto importante" che rafforza il terreno comune tra le due parti e ha espresso la speranza che il loro incontro possa portare "benefici a tutta l'umanità". Erdoğan ha anche esteso gli auguri di pace e benessere alla comunità cattolica mondiale.
Il presidente ha affermato che hanno discusso delle relazioni bilaterali e di "questioni attuali che riguardano la coscienza collettiva dell'umanità", tra cui migrazioni forzate, povertà, ingiustizia, cambiamenti climatici e conflitti in corso in tutto il mondo. Ha sottolineato la necessità non solo di proteggere le persone costrette a fuggire dalle proprie case, ma anche di eliminare le cause profonde che spingono alla migrazione.
Leone XIV in Turchia, le dichiarazioni del portavoce della presidenza turca
Il direttore delle comunicazioni presidenziali, Burhanettin Duran, ha condiviso un post sul suo account NSosyal riguardo all'incontro tra il presidente Erdoğan e Papa Leone XIV ad Ankara.
Duran ha affermato che durante l'incontro sono stati discussi i rapporti tra Turchia e Vaticano, le questioni relative alla coscienza comune dell'umanità, in particolare la Palestina, e gli attuali sviluppi regionali e globali, sottolineando che l'incontro è fondamentale non solo per i rapporti tra Turchia e Vaticano, ma anche per la ricerca globale della pace.
Duran ha detto che “invece di rimanere estranea alle crisi regionali e globali, la Turchia dimostra la sua volontà di assumersi attivamente la responsabilità per la pace e la giustizia”. Perché mantenere viva la scintilla della pace significa non solo porre fine ai conflitti, ma anche proteggere la coscienza collettiva dell'umanità. Il sostegno e il contributo forniti per porre fine alla guerra russo-ucraina ne sono uno degli esempi più concreti”.
Il portavoce ha poi aggiunto che “il riferimento del nostro Presidente alla crescente ostilità verso l'Islam in Occidente ha rivelato ancora una volta come l'incitamento all'odio avveleni le società e come questo pericolo che minaccia l'umanità abbia raggiunto un livello che non può più essere ignorato. L'islamofobia e la xenofobia non giovano a nessuno; al contrario, causano perdite. Questa mentalità è una pericolosa rottura di mentalità che colpisce la cultura della convivenza all'interno delle società”.
Infine, Duran ha rimarcato che “in un mondo in cui oggi prevale il rispetto dei valori, più forte sarà la voce della pace, più rapidamente fiorirà la speranza per l'umanità”. Nei suoi discorsi, il nostro Presidente ha sottolineato il genocidio commesso da Israele a Gaza e ha ribadito che consideriamo la nostra solidarietà con il popolo palestinese oppresso una responsabilità umanitaria e morale”.
Il cardinale Parolin sul viaggio di Leone XIV in Turchia e Libano
Come di consueto, alla vigilia di un viaggio papale, il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, concede un’intervista ai media vaticani, soffermandosi sul significato e sui temi del viaggio.
In particolare, il cardinale Parolin ha sottolineato che il viaggio in Turchia ha come centro i 1700 anni dal Concilio di Nicea, che “ha posto le basi della nostra fede”, ma va sottolineato anche “il fatto che ci troviamo in una terra che è stata un po’ la culla del cristianesimo, perché lì sono sorte le prime comunità, a queste comunità sono state dirette le lettere apostoliche”.
Nel programma del Papa è prevista anche una visita alla Moschea Blu. Parolin sottolinea che si tratta di “un gesto di dialogo, un gesto di rispetto interreligioso, che vuole sottolineare come cristiani e musulmani possono collaborare insieme per un mondo più giusto, un mondo più solidale un mondo più fraterno”.
Parlando della tappa in Libano del viaggio, il Papa parla di speranza perché “il Libano ha bisogno di speranza, il Libano ultimamente ha fatto dei passi avanti nella soluzione della crisi che l’ha colpito in questi ultimi anni”, ora c’è un presidente, un governo, delle riforme, ma “continuano a sussistere molte difficoltà, molte lentezze, molti ostacoli che possono rallentare il corso delle rifome e quindi deludere le attese e le aspettative della popolazione”.
Nel Libano, “Paese-messaggio”, ma anche in tutto il Medio Oriente, i cristiani sono chiamati a continuare il contributo che hanno sempre garantito “nella vita sociale, nella vita economica, nella vita culturale e anche nella vita politica”, e vorrebbero “continuare a darlo”, perché quello “è un ruolo di moderazione, che promuove anche l’incontro tra le parti”.
L’auspicio del Cardinale Parolin è che i cristiani restino nel Medio Oriente, mentre i dati dicono che stanno diminuendo sempre di più. Ma i viaggi del Papa – aggiunge il Segretario di Stato – “si possono paragonare alla semina. Noi seminiamo, poi i frutti saprà il Signore quali sono e quando sarà il tempo di raccoglierli”.
La Santa Sede, comunque, è chiamata “a proclamare il tema dell’incontro e non dello scontro”, e quindi a “superare le contrapposizioni per trovare degli ambiti comuni in cui lavorare per il bene della società e della famiglia umana”.
FOCUS SEGRETERIA DI STATO
Viene dalla Segreteria di Stato il nuovo sottosegretario al Dicastero per lo sviluppo integrale
Porte girevoli tra Segreteria di Stato e il Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale. Dopo che monsignor Anthony Ekpo è stato nominato assessore della Segreteria di Stato il 19 novembre, venendo trasferito dal suo incarico di sottosegretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, un monsignore di segreteria di Stato fa il percorso inverso.
Il 24 novembre, infatti, Leone XIV ha nominato sottosegretario del dicastero Monsignor Jozef Barlaš, finora Officiale presso la Sezione per gli Affari Generali della Segreteria di Stato. Quaranta anni, slovacco originario di Snina, Barlaš ha lavorato in Segreteria di Stato negli ultimi cinque anni.
La nomina è stata anunciata dal cardinale Parolin in una breve cerimonia in Segreteria di Stato, durante la quale il nuovo sottosegretario ha ringraziato per gli anni di lavoro in terza loggia.
Sacerdote dal 2010 e incardinato nell’arcidiocesi di Košice, monsignor Barlaš ha conseguito nel 2022 il dottorato in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Lateranense.
FOCUS UCRAINA
Ucraina, i vescovi cattolici pregano per le vittime di Ternopil
I vescovi della Chiesa greco-cattolica ucraina e della Chiesa latina, insieme all’arcivescovo Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico, hanno celebrato una cerimonia commemorativa per le vittime del massiccio bombardamento russo di Ternopil, avvenuto nella notte del 19 novembre, che ha causato 34 morti e 6 dispersi, e hanno poi avuto un dialogo con le famiglie che hanno perso i loro cari e con i feriti sopravvissuti all’attacco.
Sua Beatitudine Sviatoslav Shevchuk, arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina, ha detto: “Siamo qui, in questo luogo di tragedia, per abbracciare il nostro popolo ferito, per abbracciare voi, cari parenti e amici di quelle persone che sono state portate qui per mano nemica. Più di tre dozzine di morti, tra cui sei bambini, e quasi un centinaio di feriti gravi. Vogliamo essere con voi affinché sappiate: la vostra Chiesa vi ama, e il vostro dolore è il dolore dell'intero Corpo della Chiesa di Cristo, sia in Ucraina che in tutto il mondo.”
Il Nunzio Apostolico in Ucraina, l'Arcivescovo Visvaldas Kulbokas, ha affermato : "La Chiesa non è solo quella dei vivi. Anche coloro che sono morti sono la Chiesa. Sono altrettanto importanti per la Chiesa. Pregano per noi, e la loro preghiera, insieme alla vostra, la preghiera di coloro che sono sopravvissuti, è la preghiera dei poveri davanti al Signore. Di coloro che hanno perso tutto. Tutti insieme, come poveri, gli chiediamo di proteggerci e di condurci nel Suo Regno.
Ucraina, la chiesa di San Nicola deve essere restituita ai cattolici
Non era ancora stata restituita ai cattolici, la chiesa di San Nicola di Kyiv, conosciuta anche come “cattedrale”, sebbene ci fosse una decisione giudiziaria che fissava la restituzione all’1 giugno 2022. Questa decisione, però, non è mai stata rispettata.
Non solo. Il 28 ottobre scorso, il Ministero della Cultura e delle Comunicazioni Strategiche dell'Ucraina ha presentato al Tribunale amministrativo distrettuale di Dnipropetrovsk una richiesta di rinvio dell'esecuzione della decisione sul trasferimento della chiesa di San Nicola alla comunità religiosa.
Questa richiesta non solo è stata respinta, ma il Tribunale ha deciso di istituire un controllo sull'attuazione della decisione e ha obbligato il Ministero della Cultura a presentare una relazione sullo stato di attuazione.
Pertanto, la decisione del tribunale, che obbliga lo Stato a trasferire la chiesa all'uso della comunità religiosa dopo oltre trent'anni di attesa, rimane in vigore ed è soggetta a esecuzione immediata.
La Cattedrale di San Nicola, costruita in stile neogotico dal 1899 al 1909 su progetto dell'architetto Wladyslaw Horodecki, ha due torri a sesto acuto alte 62 metri ed è la seconda chiesa cattolica più antica di Kiev dopo la Chiesa di Alessandro.
Servì al suo scopo originale solo per un breve periodo, poiché la chiesa fu chiusa dal regime comunista negli anni Trenta del Secolo scorso. È stata poi un magazzino ed è stata gravemente danneggiata durante la Seconda Guerra Mondiale. Parzialmente ristrutturata nel Dopoguerra, la cattedrale ha ospitato l’archivio della regione e la Casa dell’organo e della Musica da Camera.
Nel 1992, la Chiesa cattolica è stata autorizzata a tenere funzioni religiose nella cattedrale, così come concerti. L’ostacolo più grande è stato il trasporto dell’organo in un altro edificio, dato che era stato costruito per la sala da concerto della Casa dell’Organo e della Musica da Camera. Il 3 settembre 2021, lo strumento è stato comunque distrutto da un incendio causato da un difetto tecnico dell’organo., che ha anche danneggiato parti interne della cattedrale.
La chiesa necessitava dunque di un ampio restauro, e questi lavori dovrebbero essere completati a marzo del prossimo anno.
La chiesa di San Nicola è uno dei monumento architettonici più famosi dell’Ucraina. Si era deciso di trasferirla alla comunità cattolica già nel 2005, e poi c’era una decisione definitiva nel 2022. Ma il Ministero della Cultura non aveva attuato la decisione. Nel 2024, la comunità parrocchiale ha presentato ricorso al tribunale, che il 24 gennaio 2025 ha obbligato il Ministero della Cultura a trasferire la chiesa alla comunità religiosa.
Tuttavia, ad oggi, la parrocchia non ha nemmeno ricevuto la decisione del Ministero della Giustizia di avviare un procedimento esecutivo.
"Si tratta di una decisione politica e sappiamo benissimo chi nell'ufficio del Presidente la sta bloccando", afferma il parroco, padre Pavlo Vyshkovskyi OMI. "Non tollereremo alcuna manipolazione, alcun riciclaggio di denaro, alcun abuso ai danni della nostra chiesa! Le autorità devono eseguire la decisione del tribunale!"
FOCUS AFRICA
Nigeria, i vescovi chiedono di passare dalla fragilità alla stabilità
La situazione di crisi che si vive in Nigeria ha visto la ferma reazione della Conferenza Episcopale Nigeriana, che ha diffuso una dichiarazione in cui definisce alcuni punti cruciali.
I vescovi puntano il dito contro la “deplorevole situazione di sicurezza della nostra nazione”, nonché la “persistente violenza che ha chiesto il pegno di innumerevoli vite, distrutto case e sfollato famiglie”.
I vescovi notano che i gruppi omicidi continuano a seminare il panico, e condannano con fermezza “queste atrocità che hanno portato una angoscia indicibile in molte comunità”.
La Conferenza Episcopale Nigeriana definisce come “questione di grave preoccupazione” che molte comunità cristiane, particolarmente nelle regioni del Nord e del Centro, sono stati soggetto di “ripetuti e brutali attacchi, che hanno portato a forti perdite di vite umane”, e notano che alcuni report hanno parlato persino di “una possibile collusione o una mancanza di volontà di agire”, mentre il senso di abbandono e disperazione della popolazione è stato esacerbato “dalla distruzione quasi totale e l’occupazione di alune comunità”.
Ma la crisi nazionale, notano i vescovi, è resa ancora più difficile da alcuni eventi recenti, a partire dai casi di rapimento di diversi fedeli nello Stato di Kwara (poi rilasciati), di 25 giovani donne nello Stato di Kebbi, tredici donne nello Stato del Borno, e 265 studenti e i loro studenti a Papiri, nello Stato del Nigero, così come l’assassinio brutale di più di 70 persone nella regione del Sud Taraba.
Sono tragedie che “rivelano quanto la criminalità sia penetrata nella nostra vita nazionale”.
Per questo i vescovi chiedono a tutti i livelli del governo di agire secondo il dover costituzionale e “non permettere più all’impunità di prevalere”, e di prendere tutte le misure legali e urgenti “per assicurare l’immediato e sicuro ritorno di tutte le persone rapite, incluse le giovani donne prese a Kebbi, gli studenti e insegnanti presi a Kontagora, e le giovani donne prese in Borno”.
“La pace durevole non può essere raggiunta con il silenzio o i ritardi”, denunciano i vescovi della Nigeria.
I quali poi mettono in luce “le persistenti violazioni dei diritti e delle libertà delle minoranze cristiane in diversi Stati del nord”, dove a volte le corti della Sharia pongono “serie preoccupazioni costituzionali, perché minacciano il carattere secolare della Nigeria e colpiscono i diritti delle minoranze cristiane”.
In particolare, vengono denunciati “gruppi di applicazione morale” come gli Hisbah, che portano spesso a “molestie e intimidazioni di cittadini innocenti, sia cristiani che musulmani”, con una “rigida interpretazione delle norme” che è “influenzata da ideologie estremiste”, e che “mette a rischio l’armonia di comunione” e “minaccia la coesione nazionale”.
La conferenza episcopale nigeriana, infine, loda “il coraggio del popolo nigeriano che continua a dimostrare una ammirevole resilienza e fiducia nella promessa di un futuro migliore”.
Sudafrica, il nunzio riceve la visita della Hilton Foundation
Il 27 novembre, una delegazione della Conrad N. Hilton Foundation ha fatto visita alla nunziatura apostolica di Pretoria, in Sudafrica. I membri della fondazione sono in Sudafrica con lo scopo di dare supporto alla vita consacrata e sviluppare una collaborazione più stretta con la Conferenza Episcopale del Sudafrica.
L’arcivescovo Henryk Mieczysław Jagodziński, nunzio in Sudafrica, ha espresso il suo apprezzamento per l’impegno a lungo termine della Fondazione Hilton nei confronti della Chiesa cattolica, e in particolare il supporto che ha dato alle religiose.
Riflettendo sulle radici spirituali della Fondazione, il nunzio ha messo in luce la vita e fede del suo fondatore Conrad Hilton, il quale andava a Messa ogni mattina alle 6, e prendeva ogni decisione pregando.
Per questo, la vita di Hilton aveva incarnato i valori del Vangelo, dato che “si può essere un uomo ricco e di successo, avendo anche una vita santa, non solo godendo, ma prima di tutto servire”.
Jagodziński ha anche notato il legame della Fondazione con la Santa Sede.
Come risposta, suor Jane Wakahiu LSOSF, presidente della Fondazione, si è detta grata del riconoscimento del lavoro svolto, e ha detto di “sentirsi a casa del Santo Padre in Sudafrica.
FOCUS MULTILATERALE
La Santa Sede a New York, la lotta contro la tratta
Il 25 novembre, la Santa Sede ha partecipato all’incontro di Alto Livello sulla valutazione del Piano Globale delle Nazioni Unite per combattere la tratta delle persone. In un intervento pronunciato da Monsignor Marco Formica, consigliere della Missione della Santa Sede alle Nazioni Unite, ha notato che il numero di vittime di tratta sta “crescendo globalmente”, e che questo colpisce soprattutto i bambini e in particolare quelli che “non sono accompagnati o sono separati dalle loro famiglie”, mentre le ragazze sono vittime di tratta “per sfruttamento sessuale” e i ragazzi sono “più spesso soggetti a lavoro forzato, attività criminale e chiedere l’elemosina”.
Sono forme che “minano la dignità data da Dio delle vittime”, e la Santa Sede resta preoccupata perché “nonostante i progressi fatti, le reti di traffico continuano a sfruttare le vulnerabilità che crescono, tra le altre cose, dalla povertà, dal sottosviluppo e dalle emergenze umanitarie”.
La Santa Sede mette in luce anche come le nuove tecnologie “facilitino il reclutamento, controllo e abuso delle vittime”, e per questo è “cruciale ribaltare la tendenza e assicurarsi che la tecnologia, inclusa l’intelligenza artificiale, sia usata per servire la dignità umana, la giustizia e il bene comune”.
La Santa Sede fa riferimento alla dichiarazione politica sul tema diramata dalle Nazioni Unite, e mette in luce come questa “giustamente chiede l’intensificazione della cooperazione internazionale e regionale per prevenire tutte le forme di traffico, prendersi cura delle richieste specifiche delle vittime (a partire da tempestive riunificazioni familiari) e migliorare le risposte della giustizia”.
La Santa Sede apprezza anche il riconoscimento dei rischi più grandi affrontati dai rifugiati. Tuttavia, la Santa Sede pone alcune riserve su alcune parti della Dichiarazione Politica.
Per esempio, al paragrafo 9 si parla di “sfruttamento della maternità surrogata”. Per la Santa Sede, la pratica va considerata “deplorevole in ogni caso”, dato che “costituisce una grave violazione della dignità della donna e del bambino”.
Al paragrafo 10 si parla di “servizi di salute sessuale e riproduttiva”. La Santa Sede chiede che questo termine si riferisca al concetto olistico di salute, e “non consideri l’aborto, l’accesso all’aborto o a farmaci abortifacenti” come parte del termine.
Anche sul termine gender, la Santa Sede sottolinea di comprenderlo solo se basato sull’identità sessuale biologica, ovvero maschile e femminile.
La Santa Sede alla FAO, la campagna “Sport contro la Fame”
Il 25 novembre è stata presentata, presso la sede della FAO di Roma, l’iniziativa “Lo sport nutre la speranza”, slogan della campagna “Sport contro la fame” promossa dalla FOCSIV, la Federazione degli Organismi di Volontariato Internazionale di Ispirazione Cristiana, e dal Centro Sportivo Italiano.
Portata avanti con la collaborazione dell’agenzia alimentare delle Nazioni Unite, l’iniziativa ha lo scopo di sostenere 58 progetti contro la fame e la malnutrizione in 26 Paesi tra Africa, America Latina, Asia e Medio Oriente.
Monsignor Fernando Chica Arellano, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le agenzie alimentari ONU (FAO, IFAD e PAM), ha sottolineato, lanciando l’iniziativa, che questa “è la risposta ad un grido che si leva dagli angoli più remoti del pianeta, dalle zone di guerra, dall’Ucraina al Sudan, da Gaza alle guerre dimenticate”.
Monsignor Chica nota che “la malnutrizione, specialmente quella dei più piccoli, è davvero il killer silenzioso che continua a mietere vittime in tutto il mondo”, tanto che in molti testi sacri questa è rappresentata in molti testi sacri come “una delle piaghe che, periodicamente, hanno devastato l’umanità”.
Il problema – aggiunge il monsignore – coinvolge “sistemi economici, intere catene industriali di produzione, elaborazione e distribuzione”, ed è “strettamente legato a stili di vita caratterizzati da spreco alimentare e sperequazione”.
Allora, cosa fare? Se le iniziative sembrano sempre essere una goccia nell’oceano, questa – sottolinea monsignor Chica – è un piccolo gesto, ma legato ad “un grande e potente alleato”, e cioè lo sport che “ci ha abituato a vedere, quando tutto sembrava impossibile, la vittoria dei piccoli Davide contro i giganti Golia”, e che oggi “si manifesta come uno dei linguaggi più universali ed inclusivi della nostra epoca”.
Insomma, “lì dove la parola non arriva, lo sport unisce e consola”, considerando che “milioni di persone seguono ogni giorno eventi sportivi, ispirandosi alle gesta di campioni” che spesso sono considerati non solo atleti, ma “simboli e modelli”.
Per questo, lo sport “assume una responsabilità che va oltre il campo da gioco”, e questa non si riduce a “generose donazioni o campagne benefiche”, ma vuole piuttosto “impegnarsi in una visione più alta e strutturale” dello sport stesso come “strumento di inclusione, educazione e promozione umana”.
Lo sport può dunque essere un mezzo efficace nella lotta contro la fame, perché “esso rappresenta, nella sua essenza più genuina, una straordinaria start-up relazionale, un vero e proprio incubatore di legami sociali”.
Il valore più alto dello sport “risiede nella capacità intrinseca di generare relazioni significative proprio nel contesto della competizione”, e la competizione sportiva non è un “un cum-fligere, ovvero uno scontro, ma come un cum-petere: un “con-correre”, un tendere insieme verso un fine comune”.
Nota monsignor Chica: “Il nostro tempo ha adottato un modello di progresso senza limiti, mettendo a repentaglio la tenuta dell'intero sistema. Lo stato di salute del nostro pianeta, come è emerso in questi giorni dalla conferenza COP 30 in Brasile, ci dice invece che questo modello va cambiato, perché insostenibile. Dobbiamo fare delle scelte di sviluppo sostenibile e regolamentato. Ma proprio ciò che può sembrare un limite dovrebbe invece scatenare la creatività umana per trovare nuove strategie di sviluppo più eque e rispettose”.
Secondo Chica Arellano, è “questa la grande lezione che lo sport può dare alla società di oggi”, ovvero di “aiutare a liberare la creatività all’interno di situazioni che sembrano limitanti”, e questo serve ad una società che “ha bisogno di cambiamenti profondi, di introdurre limiti al consumo compulsivo e allo spreco, e di usare le risorse della Terra in modo responsabile e solidale, considerando l'impatto che tali azioni hanno sempre sui più deboli”.
Come già diceva Paolo VI, c’è bisogno di solidarietà tra i popoli, perché – sottolinea ancora Chica Arellano – “anche in natura, la lotta quotidiana tra le specie viene temporaneamente sospesa di fronte a un pericolo comune, come quando si verifica un incendio nella savana o nella giungla. In tali circostanze, gli animali, rifugiati gli uni accanto agli altri, dimenticano i ruoli di predatori e prede. Il pericolo comune li ha uniti nella lotta per la sopravvivenza”.
Si chiede dunque l’Osservatore della Santa Sede: “Dovremo arrivare a una situazione estrema per imparare a condividere le risorse della Terra? Oppure saremo in grado di dare vita, con creatività e talento, a nuove forme di lotta contro la fame?”
La Santa Sede all’Unctad, il programma di azione per le nazioni meno sviluppate
Lo scorso 25 novembre, l’UNCTAD, ovvero l’agenzia ONU per il commercio, si è riunita nel suo 72esimo “Trade and Development Board”, discutendo il contributo dell’agenzia all’implementazione del Programma di Azione di Doha per le Nazioni Meno Sviluppate.
L’arcivescovo Ettore Balestrero, osservatore della Santa Sede presso le organizzazioni internazionali a Ginevra, ha notato nel suo intervento che, a tre anni dall’adozione del programma di azione di Doha, “ostacoli di lungo corso allo sviluppo, inclusa una insufficiente trasformazione strutturale, la diversificazione dell’export e le infrastrutture critiche”, sono state “recentemente ulteriormente complicate da crescenti livelli di debito, tensioni commerciali e il declino della assistenza ufficiale di sviluppo”.
Le 44 Nazioni Meno Sviluppate rappresentano il 20 per cento della comunità internazionale e ospitano il 15 per cento della popolazione globale - nota il nunzio – ma contribuiscono per il solo 2 per cento del Pil, e la loro crescita rallenterà al 4,1 per cento, molto al di sotto del 7 per cento, traguardo delineato nella dichiarazione di Doha. Inoltre, nota la Santa Sede, l’assistenza ufficiale allo sviluppo è scesa di 6 miliardi in appena cinque anni, e si stima un ulteriore perdita del 20 per cento, mentre l’ampio settore informale diminuisce la base tassabile, limitando la possibilità di finanziare servizi essenziali.
In tutto questo, i Paesi meno sviluppati continuano ad affrontare le loro sfide, non riescono a raggiungere gli obiettivi di sviluppo, ma, soprattutto, non riescono a creare una struttura sostenibile, al di là degli obiettivi. C’è, insomma, la sfida di portare sviluppo umano integrale a 1,3 miliardi d persone nel mondo.
Si tratta – sottolinea l’arcivescovo Balestrero – di “superare le sfide” e mettere i paesi in via di sviluppo su uno sviluppo sostenibile.
La Santa Sede all’UNCTAD, il supporto all’Africa
Il 25 novembre, l’UNCTAD ha discusso del supporto all’Africa. La Santa Sede ha notato che l’economia africana prevede una crescita dal 3,3 per cento del 2024 al 3,9 per cento del 2025, ma ciò resta comunque inferiore a quanto necessario per raggiungere gli obiettivi delineati nell’agenda 2063.
Questo accade anche a causa degli alti debiti, e infatti “si stima che le nazioni africane spendano una media di più di un quarto dei loro guadagni governativi su pagamenti di interesse”, cosa che fa perdere capacità di spesa su aree vitali. In particolare, tra il 2021 e il 2023, l’Africa ha speso 70 dollari a testa su pagamenti di interesse, che è significativamente di più dei 63 dollari spesi sull’educazione o i 44 sulla salute.
Fattori interni come “corruzione” o l’export di petrolio e un’inefficace raccolta di tasse rendono tutto più difficile, mentre l’intelligenza artificiale e i suoi progressi tecnologici rischiano di accrescere il gap di sviluppo.
Secondo la Santa Sede, l’Intelligenza Artificiale richiede una gestione etica propria e una cornice regolamentare centrata sulla dignità della persona umana data da Dio.
Le nazioni africane – aggiunge il nunzio – dovrebbero “ricevere assistenza tecnica e capacità di costruire per superare il digital divide” e quindi ci devono essere “investimenti sull’educazione digitale”.
Ma l’Africa è anche uno dei “continenti più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico”, come dimostrano i fenomeni atmosferici improvvisi e gravi che causano “insicurezza alimentare e distruzione”.
La povertà – conclude l’arcivescovo Balestrero – “resta una delle più grandi sfide globali”, ma questa “non è solo mancanza di reddito” ma anche “privazione di capacità, opportunità e infine speranza”, secondo una multidimensionalità che colpisce aree come “educazione, salute, accesso alla tecnologia e tecnologie di vita degne”.
La Santa Sede all’UNCTAD, il dibattito generale
Nel dibattito generale del Trade and Development Board dell’UNCTAD, lo scorso 28 novembre, l’arcivescovo Balestrero ha sottolineato la necessità di tradurre gli impegni in azione, mettendo prima di tutto al centro l’obiettivo di sradicare la povertà, e notando come “il peso di un debito insostenibile restringe con forza lo spazio fiscale delle nazioni in via di sviluppo, forzandole a rendere prioritario il debito.
Questo disequilibrio – nota la Santa Sede – è evidente nel concetto di “debito ecologico,” dove le nazioni che hanno contribuito meno al cambiamento climatico stanno ora affrontando le peggiori conseguenze, e ora c’è bisogno di fornire un supporto finanziario e tecnico, superando il cosiddetto “digital divide”.
La Santa Sede ribadisce la necessità di ripensare il commercio, e l’UNCTAD, che si basa sul consenso, può essere “un tramite per processi di decisione più inclusivi nelle istituzioni globali”.
FOCUS AMBASCIATORI
Un nuovo ambasciatore di Cuba presso la Santa Sede
Lo scorso 26 novembre, l’arcivescovo Edgar Peña Parra, Sostituto per gli Affari Generali, ha ricevuto copia delle lettere credenziali dal nuovo ambasciatore di Cuba presso la Santa Sede, Leyde Ernesto Rodríguez Hernández. Santa Sede e Cuba hanno festeggiato quest’anno i novanta anni di relazioni diplomatiche.
Il nuovo ambasciatore presenterà le credenziali al Papa al ritorno di Leone XIV dal viaggio in Turchia e Libano e sarà presente con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede al tradizionale incontro di inizio anno del Papa con il Corpo Diplomatico. Generalmente, l’incontro ha luogo il lunedì dopo l’Epifania, ma in questo caso Leone XIV incontrerà gli ambasciatori il 9 gennaio, il venerdì successivo all’Epifania, dopo aver, tra l’altro, tenuto due giorni di concistoro straordinario il 7 e l’8 gennaio.
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