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Diplomazia pontificia, lo sguardo ad Israele e alla Palestina

Non c’è ancora stata una risposta diplomatica della Santa Sede all’escalation in Israele, dove gli attentati di Hamas hanno portato alla dura risposta militare.

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La diplomazia della Santa Sede si trova ad affrontare un momento difficile, alla ricerca di una posizione di equilibrio su quanto sta succedendo in Israele. L’intervista che il Cardinale Parolin ha concesso ai media vaticani il 13 ottobre va in questo senso, così come la solidarietà espressa ad Israele con il gesto della visita all'ambasciata. Gli attacchi di Hamas, la carneficina efferata che non ha risparmiato bambini, hanno fatto sembrare vani tutti gli sforzi della diplomazia vaticana, che in questi anni ha sempre sostenuto che la soluzione dei “due popoli, due Stati” avrebbe potuto assorbire le tensioni, e avrebbe permesso al popolo palestinese di trovare un modo di convivenza. Per questo, la Santa Sede ha sostenuto il riconoscimento dello Stato palestinese all’UNESCO, il primo passo che ha portato poi la Palestina ad essere riconosciuto come Stato osservatore alle Nazioni Unite nel 2012.

Così non è stato, perché le organizzazioni come Hamas si sono invece continuate ad alimentare, mentre la situazione nella striscia di Gaza, spesso denunciata dalla Santa Sede, si è rivelata una polveriera che ha permesso di coprire le operazioni e le preparazioni dei terroristi.

Il 17 ottobre ci sarà una preghiera per la pace, proclamata dal Patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa, recentemente creato cardinale da Papa Francesco – una creazione che aveva generato speranza e interesse sia nella leadership israeliana che in quella palestinese. Il Papa ha chiesto la liberazione degli ostaggi.

Ma il problema, così come avvenne ai tempi dell’ISIS, c’è con i partner del dialogo. Al tempo dell’ISIS, il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso emise due dichiarazioni, chiedendo ai partner nel dialogo di esprimersi contro il terrorismo, senza se e senza ma. Oggi, forse, ci si potrebbe aspettare qualcosa di simile, ma probabilmente i tempi non sono maturi. Ci si chiede se la questione palestinese sia stata anche toccata nell’incontro alle Nazioni Unite tra l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro vaticano per i Rapporti con gli Stati, e il ministro degli Esteri iraniano, che chiedeva una alleanza per difendere i libri sacri. Mentre suonano molto attuali i continui appelli del Patriarca Maronita Bechara Rai contro le azioni di Hezbollah in Libano.

Non è una situazione che può essere letta in maniera semplice. Per ora, dal lato diplomatico abbiamo le dichiarazioni dei Patriarchi di Terrasanta, le dure risposte dell’ambasciata di Israele presso la Santa Sede, le parole del Cardinale Pizzaballa.

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                                                           FOCUS TERRASANTA

Terrasanta, i patriarchi e l’ambasciata sul conflitto

Lo scorso 9 ottobre, con una dichiarazione, l’Ambasciata di Israele presso la Santa Sede ha definito “deludente e frustrante” la dichiarazione dei Patriarchi e Capi delle Chiese di Gerusalemme diffusa il 7 ottobre, a seguito dell’attacco di Hamas ad Israele.

Secondo l’ambasciata, dalla lettura della dichiarazione “non si riesce a capire cosa sia successo, chi fossero gli aggressori e chi le vittime”. L’ambasciata aveva già diffuso un primo comunicato subito dopo l’attacco, il 5 ottobre, e a questo comunicato si è riferita commentando la dichiarazione dei patriarchi, sottolineando che già l’ambasciata aveva “menzionato l’immoralità dell’uso dell’ambiguità linguistica in tali circostanze. Molti non hanno avuto difficoltà a capirlo e hanno condannato l’orrendo crimine, nominando i suoi autori e riconoscendo il diritto fondamentale di Israele a difendersi da queste atrocità. È particolarmente incredibile che un documento così arido sia stato firmato da persone di fede”.

Inoltre, il comunicato faceva riferimento ad un convegno che si apriva in quei giorni in Gregoriana sul lavoro di Pio XII, affermando che sembrava non si fosse imparato nulla “dal passato oscuro” – un attacco trasversale, in fondo, quasi fuori luogo, considerando i molti dati che mostrano come Pio XII avesse aiutato e sostenuto gli ebrei durante la Shoah e avesse criticato il regime nazista già quando era nunzio in Germania negli Anni Trenta.

I patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme, nella loro dichiarazione, avevano espresso solidarietà e sostegno “alle popolazioni della regione che soffrono le devastanti conseguenze del conflitto in atto da tempo” e un appello alla comunità internazionale a raddoppiare gli sforzi per raggiungere una pace durevole, giusta e sostenibile”.

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I leader avevano chiesto “un immediato cessate-il-fuoco” e condannato “ogni forma di attacco ai civili da qualunque parte possa giungere”. “Si tratta – si legge nel testo – di azioni che vanno contro i fondamentali principi di umanità e contro gli insegnamenti di Cristo”.

I capi delle Chiese avevano anche implorato “i leader internazionali ad impegnarsi in un dialogo sincero per una soluzione duratura capace di promuovere la giustizia, la pace, la riconciliazione della popolazione di questa terra che porta il fardello di questo conflitto oramai da troppo tempo”.

L’ambasciata israeliana contestava, soprattutto, che non si facesse riferimento agli attacchi terroristici di Hamas.

In una intervista successiva, il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, aveva replicato: “Noi condanniamo senza remore e in maniera inequivocabile quello che abbiamo visto, sono immagini orribili, una barbarie inaccettabile. Detto questo capiamo i forti sentimenti di sgomento anche presso il Ministero. Ritengo che il comunicato, quella nota, sia stata eccessiva nei toni. E penso anche che la figura di Pio XII si poteva anche evitare così da mantenere la questione a livello locale. Detto questo però, ripeto - e aggiungo che non voglio polemizzare - è un momento in cui bisogna cercare di costruire le relazioni soprattutto con le autorità con le quali da sempre abbiamo cerchiamo di avere buone relazioni”.

Guardando alle ragioni del conflitto, il Cardinale Pizzaballa ha anche sottolineato che “questa crisi ha manifestato in maniera evidente che la questione palestinese, che era stata di fatto accantonata, esiste e non può più essere trascurata. Bisogna affrontare la questione palestinese in maniera seria, dando ai palestinesi chiare, serene e solide prospettive di futuro e di futuro autonomo nella libertà nel loro Paese. Altrimenti non finirà mai questa situazione di violenza. Come riprendere questo: dovremo attendere innanzitutto che le armi tacciano e poi poco alla volta cercare di riprendere i fili di un minimo di relazioni per costruire un minimo di fiducia senza la quale non ha alcun senso parlare di negoziato”.

In un’altra intervista, il Cardinale Pizzaballa ha ulteriormente specificato: "Il messaggio dei patriarchi è partito quando non si aveva ancora piena coscienza di quello che stava accadendo. Comprendiamo lo stato d’animo degli israeliani di fronte all’orrore e alla barbarie di cui solo ora si prende coscienza. Forse sono stati troppo precipitosi nel rispondere ma non è il momento delle polemiche. La situazione è gravissima, dobbiamo lavorare per comprenderci".

Il Cardinale ha comunque notato che l’ambasciata è una entità politica ed “è evidente che noi non possiamo usare il loro linguaggio. Cercheremo di comprendere le loro ragioni, ma non sono loro a determinare quello che diciamo noi".

Il 13 ottobre, con una nuova dichiarazione, Patriarchi e Capi delle Chiese in Terrasanta hanno notato come la richiesta di evacuare il Nord di Gaza in 24 ore, facendo muovere 1,1 milioni di persone, andrà “solo ad approfondire una catastrofe umanitaria già disastrosa”, considerando che la popolazione di Gaza è già privata di elettricità, acqua, carburante, cibo e medicine. A questi evacuati si aggiungono – sono dati ONU – 423 mila persone già sfollate a causa della distruzione delle loro case.

“Molti civili a Gaza – hanno aggiunto i capi religiosi – hanno detto che non ci sono vie realistiche in cui possano evacuare con sicurezza”. Per questo, si chiede allo Stato di Israele di permettere al supporto umanitario di entrare a Gaza in modo da permettere alle migliaia di innocenti civili di ricevere cure mediche e cibo, e si chiede a tutte le parti di fermare l’escalation.

Anche questa dichiarazione è stata fortemente contestata dall’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede Rafael Schutz, che - in una serie di post su X - ha sottolineato che “il circolo di violenza” è cominciato con “un attacco criminale non proclamato da Hamas e dalla Jihad Islamica – espressione, lamenta l’ambasciatore, che i patriarchi non menzionano per nome – che ha ucciso più di 1300 israeliani e persone di altre 35 nazionalità, “la maggioranza civili”, e hanno anche “violentato donne, bruciato bambini, decapitato persone e preso ostaggi”, mentre hanno lanciato “attacchi con missili e razzi ad ampio raggio contro centri di popolazione civile in Israele”.

L’ambasciatore sottolinea che l’azione di “autodifesa di Israele” è contro Hamas e la Jihad Islamica, non “prende di mira civili internazionalmente”, cosa che mostrerebbe una visione pregiudizievole dei patriarchi.

L’ambasciatore contesta anche quando si parla di “livello di morte e distruzione a Gaza”, perché questa “è la base da cui l’attacco genocida contro Israele è stato concepito, pianificato ed eseguito”, e i patriarchi si preoccupano del benessere di “questo nido di male e terrore” e non delle “cittadine israeliane distrutte”, nessuna delle quali è menzionata dai patriarchi.

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Schutz nota anche che a Gaza “livelli di cibo e acqua sono monitorati ogni giorno e sono altre la soglia che definisce la crisi umanitaria”, così come Hamas “ha ancora abbastanza carburante ed elettricità”, sebbene “preferisca usarlo per continuare le loro attività terroriste criminali contro Israele invece di aiutare la popolazione che dominano”.

Infine, l’ambasciatore lamenta che “l’unica parte in cui i patriarchi menzionano qualcuno con una specifica richiesta è Israele, ovvero la parte che è stata vergognosamente attaccata una settimana fa. Che vergogna, specialmente quando viene da persone di Dio”.

La COMECE chiede che si compia ogni sforzo perché cessino le violenze

“In Medio Oriente serve una pace duratura e sostenibile basata sul diritto internazionale, sulla giustizia e pari diritti per tutti". Lo sottolinea il vescovo Mariano Crociata, presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea, che ha diffuso il 10 ottobre una dichiarazione di vicinanza e solidarietà a quanti hanno subito gli attacchi partiti da Gaza contro Israele e invita le parti coinvolte a porre fine agli attentati e a liberare gli ostaggi rapiti:

Il presidente della COMECE ha chiesto che si compia “ogni sforzo per contribuire ad allentare la situazione” in Terra Santa e si garantiscano “al tempo stesso i diritti fondamentali di tutte le persone nella regione e rispettando lo Status Quo storico e giuridico di santuari e luoghi santi”.

Il comunicato manifesta anche “profondo dolore e preoccupazione” per le notizie che giungono dalla Terra Santa e per “crescente spirale di violenza, che ha causato centinaia di morti e feriti”.

Un maggiore impegno per una pace duratura

Il vescovo Crociata afferma di condividere “la dolorosa preoccupazione di Papa Francesco per questa grave situazione” ed esorta “tutte le parti coinvolte a cessare gli attentati, a liberare gli ostaggi rapiti”, poiché “il terrorismo e la guerra non portano ad alcuna soluzione, ma solo a la morte e la sofferenza di tante persone innocenti”.

L’auspicio è che “il continuo spargimento di sangue possa ricordare ai membri della comunità internazionale, compresa l’Ue, l’urgenza di perseguire con maggiore impegno gli sforzi verso una pace duratura e sostenibile nella regione del Medio Oriente”, che sia “basata sul diritto internazionale, sulla giustizia e pari diritti per tutti”.

Le dichiarazioni del Cardinale Parolin sulla situazione in Terrasanta

Prima di prendere la parola ufficialmente il 13 ottobre in una intervista istituzionale con i media vaticani, condannando senza se e senza ma l’attacco terroristico di Hamas, il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, aveva parlato in un paio di occasione a margine di altri eventi della situazione in Terrasanta, stabilendo sin dal principio alcune linee guida fondamentali: che la Santa Sede condanna l’attacco terroristico; che la Santa Sede vorrebbe scongiurare una escalation, fermo restando il diritto alla legittima difesa; che la Santa Sede torna, ora più che mai, a sostenere la politica dei “due popoli, due Stati”.

Il 9 ottobre, due giorni dopo l’attacco, il Cardinale Parolin era alla Gregoriana per un convegno sui documenti del pontificato di Pio XII e le relazioni ebraico cristiane. Sin dall’inizio del suo intervento ha espresso il dolore del Papa per i drammatici eventi in Terrasanta, e ha sottolineato che “Terrorismo, violenza, barbarie ed estremismo minano la legittima aspirazione di palestinesi e israeliani. Le armi tacciano, prevalga la ragione”.

Ha detto il Cardinale Parolin: “Non avrei mai pensato di iniziare, oggi, il mio discorso con il doveroso, triste obbligo di condividere e trasmettere il dolore che il Santo Padre ha espresso ieri per quanto sta accadendo in Israele”, ha detto il cardinale, seduto accanto al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. “Nel giorno del sabato, nella festa di Simchat Torah, la gioia della Torah, in Israele, molti fratelli e sorelle israeliani sono stati svegliati da un attacco terribile e spregevole. Siamo vicini alle famiglie delle vittime, alle migliaia di feriti, ai dispersi e ai rapiti, ora in grave pericolo”.

Il segretario di Stato vaticano ha assicurato che “la Santa Sede segue con profonda e grave preoccupazione la guerra che è stata provocata, in cui anche molti palestinesi di Gaza stanno perdendo la vita e molti sono sfollati e feriti”, e ha ribadito quindi “vicinanza” e “preghiere” anche alle loro famiglie e a tutti i civili, “totalmente innocenti”.

Il Cardinale ha quindi sottolineato che “il terrorismo, la violenza, la barbarie e l’estremismo minano la legittima aspirazione di palestinesi e israeliani”, e che spera che “le armi vengano messe a tacere e che la ragione prevalga e serva a fermarsi e a riflettere sulla strada giusta per raggiungere la pace in Israele e Palestina”.

Prima dell’evento, aveva chiesto una soluzione per “porre le basi” per il problema della convivenza tra palestinesi e israeliani, mettendo in atto “gli strumenti della diplomazia di cui la comunità internazionale si è dotata”.

L’opinione del Segretario di Stato vaticano è che “finché non si risolve quel problema, finché non si trova una formula di pace, queste cose rischieranno sempre di ripetersi e sempre con maggiore ferocia”, ha avvertito il porporato.

Parlando con i giornalisti, il Cardinale Parolin si è detto “turbato” dallo scoppio di “una guerra vera e propria” e ha sottolineato che “dovrà esserci l’impegno di tutti per cercare di limitare prima di tutto questo conflitto scoppiato in maniera del tutto sorprendente. Almeno da parte nostra, nessuno immaginava che si sarebbe scatenato quello che si è scatenato. Poi mettere in atto tutti gli strumenti della diplomazia”.

Il capo della diplomazia vaticana ha sottolineato che prima c’è bisogno di superare l’impatto iniziale, in cui è “difficile distaccarsi dalle cose” e in cui “sembra tutto molto difficile”, e ha sottolineato che “bisogna trovare le condizioni che permettano di vivere nella giustizia”, perché “la pace è frutto della giustizia”.

Terrasanta, gli appelli delle Chiese di tutto il mondo

Dopo gli attacchi terroristici di Hamas su territorio israeliano lo scorso 7 ottobre, si sono moltiplicati gli appelli delle Chiese di tutto il mondo. Papa Francesco ha chiesto la liberazione degli ostaggi, e così ha fatto l’arcivescovo Eric Moulins de Beaufort, presidente della Conferenza Episcopale Francese, ha affermato: “Mentre gli ebrei di tutto il mondo celebrano  la ' Simchat  Torah', Hamas ha lanciato un attacco allo Stato di Israele, provocando numerose vittime civili e militari e prendendo in ostaggio persone di vario status. Condanniamo senza riserve questi attacchi e la spirale di violenza che innescano. Chiediamo la liberazione degli ostaggi”. L’arcivescovo di Reims si è anche augurato che “la comunità internazionale riesca, quanto prima, a ottenere la fine delle violenze per evitare una spirale terribile per tutti e un numero ancora maggiore di vittime, da entrambe le parti. Possano tutti coloro che esercitano l'autorità politica, civile o religiosa collaborare senza scoraggiarsi per ristabilire la pace e costruire la giustizia in questa Terra Santa, così preziosa per il mondo intero. In queste ore di estrema tensione, con emozione, pensiamo a tutte le vite spezzate ".

La Chiesa italiana ha invitato a pregare per la pace, chiedendo anche la rapida liberazione degli ostaggi, perché – si legge in una dichiarazione della presidenza CEI - “la Terra che riconosciamo Santa merita una pace giusta e duratura, che sia un punto di riferimento di “fede, speranza e amore”. Troppo sangue è già stato versato, e troppo spesso quello di innocenti”.

Il vescovo David J. Malloy di Rockford, presidente del comitato Giustizia e Pace della Conferenza Episcopale USA, si è unito all’appello di Papa Francesco e ha pregato che “possano tutti coloro che amano la Terra Santa sforzarsi di convincere tutte le parti coinvolte nei combattimenti a cessare la violenza, a rispettare le popolazioni civili e a rilasciare gli ostaggi”.

Anche il Patriarca ecumenico Bartolomeo di Costantinopoli ha fatto un appello, e ha sottolineato che nel mezzo della rabbia e della distruzione, del male e dell’amarezza, gli esseri umani sono facilmente tentati di pensare e agire violentemente. Anche se molti vedono la violenza come un mezzo necessario per risolvere i conflitti, non possiamo mai vederla come parte della buona creazione di Dio”.

L’inviato speciale USA per l’antisemitismo da Papa Francesco

Il 12 ottobre, Deborah Lipstadt, storica della Shoah e inviata speciale USA per l’antisemitismo, ha incontrato Papa Francesco.

In una serie di post, Lipstadt ha affermato di aver discusso con il Papa l’importanza di aver aperto gli archivi di Pio XII, ma anche della violenza in Israele ed espresso la grande preoccupazione di Israele per il brutale attacco terroristico che sta avendo luogo.

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Il presidente di Cop28 da Papa Francesco

Sultan Al Jaber, presidente della COP 28 che si terrà negli Emirati Arabi Uniti, ha avuto una udienza privata con Papa Francesco lo scorso 11 ottobre, ad una settimana dalla promulgazione dell’esortazione apostolica Laudate Deum e in vista dell’appuntamento degli Emirati Arabi Uniti dal 30 novembre al 12 dicembre, dove Papa Francesco manderà una delegazione di alto livello guidata dal Cardinale Pietro Parolin e dove ci sarà anche una iniziativa per le religioni.

Parlando con i media vaticani, Al Jaber ha detto che il primo obiettivo è quello di mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi, e per farlo indica nella riduzione di 22 gigatonnellate di emissioni entro il 2030.

Al Jaber ha detto che “la Presidenza della COP28 ha sviluppato la sua Agenda d'Azione con quattro pilastri fondamentali: accelerare una transizione energetica giusta e ordinata, fissare la finanza climatica, concentrarsi sulle persone, la natura, le vite e i mezzi di sussistenza e sostenere tutto ciò con piena inclusività”.

L’appello del Papa nella Laudate Deum è stato apprezzato, e questo è stato detto nell’incontro con Papa Francesco. Al Jaber ribadisce che “dobbiamo ridurre le emissioni annuali del 43% entro il 2030 per rendere possibile il mantenimento dell'aumento della temperatura entro 1,5 gradi Celsius”, e per questo si deve “rapidamente costruire un sistema energetico libero da tutti i combustibili fossili non abbattuti, compreso il carbone, mentre decarbonizziamo in modo complessivo le energie che usiamo oggi”.

Ci vuole, insomma, “una transizione energetica rapida, giusta ed equa che non lasci indietro nessuno, in particolare gli 800 milioni di persone che oggi non hanno accesso all'energia”.

Considerando irresponsabile chiudere il sistema energetico prima di avere alternative, Al Jaber ha detto di aver “chiesto alle compagnie petrolifere e del gas di azzerare le emissioni di metano e le fiammate entro il 2030 e di allinearsi sulla neutralità carbonica entro il 2050”.

Al Jaber ha anche sottolineato che “la COP28 cerca di correggere il corso traducendo le promesse in progetti, le tendenze in trasformazioni e gli accordi in azioni. Abbiamo lanciato la nostra Agenda d'Azione con chiamate all'azione ambiziose ma realizzabili per tutti”. Ha aggiunto che “trasparenza e responsabilità sono centrali per un'azione climatica di successo. La Presidenza della COP28 ha invitato tutte le parti ad aggiornare i loro Contributi Determinati a Livello Nazionale prima della COP28 e a puntare a obiettivi più ambiziosi possibili”.

L’obiettivo è avere la COP “più inclusiva di sempre” che include “il sostegno al più grande programma di delegati giovanili, 1.000 sindaci, 200 startup tecnologiche per il clima, tra le altre cose, nonché assicurare spazi e padiglioni per tutti i gruppi, comprese persone di fede, popoli indigeni e donne”

La Santa Sede a New York, i diritti delle popolazioni indigene

Il 9 ottobre, le Nazioni Unite hanno visto la riunione del Terzo Comitato dell’Assemblea Generale, che si è dedicato al tema dei diritti dei popoli indigeni.

Intervenendo a nome della Santa Sede, l’arcivescovo Gabriele Caccia, osservatore permanente presso le Nazioni Unite, ha riaffermato la dignità e i diritti di tutte le popolazioni indigeni, così come il rispetto e la protezione delle loro culture, linguaggi, tradizioni e spiritualità.

La Santa Sede ha chiesto agli Stati di riconoscere l’esperienza delle popolazioni native nella protezione dell’ambiente e della biodiversità, e ne ha evidenziato il potenziale nel contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico sviluppando la resilienza degli ecosistemi.

L’arcivescovo Caccia ha anche sottolineato l’importanza della protezione dell’eredità culturale delle popolazioni indigene, e chiesto anche di praticare turismo sostenibile.

La Santa Sede all’ONU, educazione per lo sviluppo sostenibile

È stato “Educazione per lo Sviluppo Sostenibile” il sottotema del Secondo Comitato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite discusso lo scorso 10 ottobre al Palazzo di Vetro a New York.

Nel suo intervento, l’arcivescovo Caccia ha chiesto di impegnarsi in un modello di sviluppo che ha la persona umana al entro e sia orientato verso il bene comune.

L’arcivescovo Caccia ha inoltre notato che nell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile 2030 c’è l’impegno a fornire educazione di qualità a tutti i livelli, e questo “riconosce che tutti hanno diritto all’educazione”, che è poi un fattore fondamentale dello sviluppo sostenibile perché “fornisce gli strumenti per la crescita spirituale, morale e sociale della persona”.

La Santa Sede all’ONU, disarmo e sicurezza internazionale

È un appello a lasciare la logica della deterrenza, quello che l’arcivescovo Caccia ha lanciato lo scorso 11 ottobre alla riunione del Primo Comitato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che affronta questioni riguardanti il disarmo e la sicurezza internazionale.

L’arcivescovo Caccia ha spiegato che “un mondo di pace è un mondo senza armi nucleari stabilito sulle basi della fiducia”. Il rappresentante della Santa Sede si è detto speranzoso che tutti gli Stati, specialmente quelli che si affidano alla deterrenza nucleare, si “impegnino costruttivamente nel rettificare le ingiustizie diffuse dalle armi nucleari”.

La Santa Sede chiede anche una “nuova cornice internazionale” per la pace globale che affronti le tecnologie nuove ed emergenti, a partire dalle armi autonome, le tecnologie che possono essere usate anche per scopi bellici, e il cyberspazio, chiedendo agli Stati di riorientare le loro priorità di spera per promuovere una cultura di pace e della vita piuttosto che una di guerra e morte.

La Santa Sede a Ginevra, la situazione in Repubblica Democratica del Congo

Il 9 ottobre, il Consiglio dei Diritti Umani a Ginevra si è concentrato sulla situazione in Repubblica Democratica del Congo, delineata in un rapporto dell’Alto Commissario.

La Santa Sede ha rimarcato la sua preoccupazione per la situazione dei diritti umani Paese, laddove si continuano a documentare violazioni e abusi continuano ad essere documentati, e condanna fermamente “tutti gli atti di violenza, specialmente quelli che hanno come conseguenza la perdita di vita o le violenze sessuali”.

La Santa Sede ha notato che “oltre allo sfregio causato dal reclutamento di soldati bambini, desta particolare preoccupazione il numero crescente e intensificato di attacchi di gruppi armati nella parte Est del Paese come M23 o ADF”, come sono preoccupanti gli attacchi dell’esercito nazionale che “hanno causato gravi perdite di vite tra i civili”.

La Santa Sede denuncia che “a volte queste operazioni sono esacerbate e influenzate da nazioni straniere”, mentre il conflitto ha portato ad una crescita di quasi 3 quarti di un milione di sfollati interne nel solo 2023.

Per questo, c’è bisogno di implementare rapidamente le decisioni, le raccomandazioni e le conclusioni dei processi di Nairobi e Ruanda, mentre i gruppi armati devono raggiungere un “disarmo efficace”.

La Santa Sede ricorda anche che le milizie ADF “prendono di mira comunità cristiane riunite in preghiera, con attacchi brutali e sanguinosi nel centro dei villaggi”, e per questo “la comunità internazionale dovrebbe fornire assistenza efficace alle autorità congolesi per affrontare questa atroce violenza in crescita”.

C’è, poi, preoccupazione per “uno stato generale di impunità” che persiste nella Repubblica Democratica del Congo, mentre molte vittime di violazioni di diritti umani “non possono avere un processo trasparente o veloce, se mai ce n sia uno”, e questo è molto più disturbante considerando che a volte queste violazioni sono perpetrate da figure pubbliche.

In vista delle prossime elezioni politiche, la Santa Sede ribadisce anche che “tutti i cittadini congolesi hanno il diritto di esprimere la loro volontà politica in ambiente sicuro, pacifico e trasparente”.

La Chiesa sto così formando, insieme ai protestanti, gli osservatori delle elezioni, “essenziali per assicurare che le prossime elezioni siano credibili, trasparenti e inclusive”.

La Santa Sede sottolinea anche che è necessario “incoraggiare e aiutare le autorità locali a creare le condizioni necessarie per lo sviluppo in modo che popolo e cittadini comprendano che “il futuro è nelle loro mani”, e richiede “il contributo della loro intelligenza e duro lavoro”.

La Santa Sede a Ginevra, il programma per i rifugiati

Il 9 ottobre, monsignor Daniel Pacho, sottosegretario per la sezione Multilaterale della Segreteria di Stato, ha guidato la delegazione della Santa Sede al 74esimo Comitato dele Nazioni Unite sul Programma per i Rifugiati dell’Alto Commissario.

Nel suo intervento, monsignor Pacho ha ricordato che ci sono sempre “volti dietro le statistiche” delle migrazioni, e che “conflitti, violenze e persecuzioni, incluse alte istanze di discriminazione sulla base del credo religioso, così come le conseguenze del cambiamento climatico, continuano a causare sfollamenti di massa”.

La Santa Sede “segue con grande preoccupazione e tristezza il conflitto in Ucraina e le sue ripercussioni”, senza che si dimentichino “altri conflitti che colpiscono molte parti del nostro mondo”, perché “il numero di morti e feriti, così come quello di rifugiati, senza contare la distruzione e il danno economico e sociale che sono stati inflitti” mostrano “ancora una volta, la tragica assurdità della guerra”.

La Santa Sede sottolinea che “il riconoscimento della dignità umana è la pietra angolare di qualunque risposta autentica alla difficile condizione dei rifugiati”, perché “la protezione garantita ai rifugiati non è semplicemente una concessione” e “i rifugiati non sono meri oggetti di assistenza, ma piuttosto soggetti di diritti e doveri” e sono invece spesso “vittime di emergenze umanitarie che non hanno creato”.

Monsignor Pacho chiede di “osservare scrupolosamente” il principio del rimpatrio “sicuro e volontario”, perché “nessuno dovrebbe essere rispedito in una nazione dove possa affrontare gravi violazioni di diritti umani e anche peggio situazioni di minaccia della vita”.

La Santa Sede sottolinea che lo sfollamento “non dovrebbe diventare una esperienza comune collettiva e a lungo termine”, mentre le soluzioni temporanee devono lasciare “prima possibile spazio all’implementazioni di soluzioni durevoli e percorsi alternativi”, a partire da “un reinsediamento accelerato in una nazione terza”, la concessione di visti umanitarie e lo stabilimento di programmi di sponsorship individuali e comunitarie, nonché l’apertura di “corridoi umanitari per quanti sono più vulnerabile” e l’assicurazione della unificazione familiare”.

La Santa Sede nota che “il diritto di cercare asilo” si basa proprio sul riconoscimento della dignità di ogni persona umana, data da Dio e che ci fa “membri della famiglia umana”, e apprezza la generosità di molte nazioni che donano e delle comunità che hanno accolto milioni di persone sfollate con la forza, mentre si dice “profondamente preoccupata della crescente politicizzazione e strumentalizzazione deli bisogni di protezione del popolo e del supporto da dare alle comunità ospite”.

“È particolarmente disturbante – dice monsignor Pacho – notare le crescenti risorse usate e la pressione esercitate da nazioni più ricche per instillare la colonizzazione ideologica sulle nazioni in via di sviluppo, imponendo modelli culturali che non condividono”.

La Santa Sede punta il dito contro la tattica di “concedere l’assistenza finanziaria a condizione dell’accettazioni di queste ideologie”, che serve solo “ad aggravare il dibattito nelle organizzazioni internazionali, indebolendo la loro missione e correndo il rischio di vittimizzare ulteriormente i rifugiati”.

“Non possiamo – sottolinea monsignor Pacho – “permettere a ideologie e politiche di fare ombra al diritto dela protezione”.

La Santa Sede ricorda anche le tragedie del mare, chiede di “agire” perché “la priorità assoluta resta il bisogno di proteggere e salvare vite”, non riguarda il fatto che le persone “abbiano o meno un diritto legale alla protezione internazionale”, e scrollarsi dalle responsabilità è uno dei sintomi che “chiaramente mostrano l’urgente necessità per una azione concertata”.

La Santa Sede all’ONU, per la sicurezza alimentare

Lo scorso 12 ottobre, si è riunito il Secondo Comitato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha discusso  del tema “sviluppo dell’agricoltura, sicurezza alimentare e nutrimento”.

Intervenendo nel dibattito, l’arcivescovo Gabriele Caccia, osservatore della Santa Sede presso le Nazioni Unite a New York, ha sottolineato  che la povertà è “un affronto alla dignità di milioni di persone”, e che questa ha “molte manifestazioni, inclusi indicatori non monetari come la mancanza di accesso all’educazione, a cibo sufficiente, ad acqua potabile e sanitizzazione, energia ed elettricità”.

Per questo, ha affermato il rappresentante della Santa Sede, ci vuole “un approccio integrato che combini misure economiche con politiche che affrontino le privazioni non monetarie a livello educativo, sociale, politico, culturale e spirituale”.

La Santa Sede ha rimarcato poi che l’accesso all’educazione di qualità, a protezioni sociali adeguate e alla produzione sostenibile e l’equa distribuzione di cibo possono essere misure efficaci per lo sradicamento della povertà.

Santa Sede alle Nazioni Unite, la questione dei crimini contro l’umanità

Il 12 ottobre, la riunione del Sesto Comitato dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riguarda i “crimini contro l’umanità”.

L’arcivescovo Caccia ha sottolineato che c’è bisogno di una azione urgente ed efficace per prevenire e punire questi crimini, e ha rimarcato il supporto della Santa Sede a un trattato universale e multilaterale che codifichi la legge comune in modo da promuovere la cooperazione internazionale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità.

Allo stesso tempo, l’arcivescovo Caccia ha notato che gli sforzi per prevenire e punire questi crimini devono rispettare la sovranità degli altri Stati.

La Santa Sede all’ONU, gli effetti delle radiazioni atomiche

Il 13 ottobre, la Santa Sede è intervenuta nel dibattito alle Nazioni Unite sugli “effetti delle radiazioni atomiche”, che cadeva sotto il Quarto Comitato.

L’arcivescovo Caccia ha chiesto a tutti gli Stati di considerare le conseguenze ambientali e sanitarie della tecnologia nucleare, e ha inoltre sottolineato l’importante ruolo del Comitato Scientifico delle Nazioni Unite sugli Effetti delle Radiazioni Atomiche, e altre istituzioni simili, nell’assicurare che “l’avanzamento tecnologico sia accompagnato dallo sviluppo nella responsabilità umana, valori e coscienza per proteggere la vita e la nostra casa comune”.