Che però si andasse in questa direzione era prevedibile. Nel 2022, dopo che il conflitto in Nagorno Karabakh si era concluso con un cessate il fuoco doloroso per l’Armenia, nell’ultimo atto di quella che sembra una guerra combattuta prima di tutto sul piano culturale, Anar Karimov, ministro della Cultura dell’Azerbaijan, ha annunciato la creazione di un gruppo di lavoro per le aree riconquistate del Nagorno-Karabakh per “rimuovere le tracce fittizie di armeni su siti religiosi albaniani”. Dichiarazione che rilanciano la preoccupazione degli armeni per il patrimonio cristiano in Artsakh, il nome storico armeno del Nagorno Karabakh.
Per comprendere le dichiarazioni del ministro della cultura si deve fare un passo indietro. Il territorio del Nagorno Karabakh era stato assegnato all’Azerbaijan dall’Unione Sovietica, e si era poi proclamato indipendente al momento della dissoluzione dell’URSS, proclamando la sua identità armena. Nel corso del secolo scorso, è stata più volte denunciata la sistematica distruzione di patrimonio cristiano storico nel territorio, definito da alcuni studiosi come un genocidio culturale, come è stata denunciata anche la volontà azera di riscrivere la storia etnica del territorio esaltandone le radici albaniano-caucasiche.
Da parte azera, si lamenta invece che l’Armenia reclami una presenza che è solo successiva alla presenza degli albaniani, e viene denunciata la distruzione di moschee durante il periodo in cui il Nagorno Karabakh aveva mantenuto una autonomia, sebbene mai riconosciuto come Stato nemmeno dall’Armenia.
C’è un genocidio culturale in atto in Artsakh? Da parte azerbaijana, si nega la distruzione del patrimonio cristiano, si lamenta, piuttosto, la distruzione di patrimonio musulmano nel Nagorno Karabakh da quando gli armeni ne hanno preso il controllo, e quindi si è passati al contrattacco, delineando la storia della Chiesa cattolica albaniana.
La conferenza del 10 aprile era intitolata Cristianesimo in Azerbaigian: storia e modernità. Dedicata al patrimonio dell’Albania caucasica, la conferenza era stata organizzata dal Baku International Multiculturalism Center, dall’A.A. Bakikhanov Institute of History and Etnology dell’Accademia Nazionale delle Scienze dell’Azerbaigian, dall’Ambasciata della Repubblica di Azerbaigian presso la Santa Sede e dalla Comunità religiosa cristiana Alban-Udi.
Non è stata ovviamente coinvolta alcuna organizzazione di studi armeni, mentre – ha denunciato il team di Monitoraggio del Patrimonio Culturale dell’Artsakh – “sono stati riuniti e reclutati decine di specialisti provenienti da diversi paesi (Turchia, Kazakistan, Uzbekistan, Corea del Sud, Russia, Polonia, Italia, Georgia, Germania, Francia, Canada, Stati Uniti, Lituania) con l’obiettivo di escludere la storia armena, la cultura armena e la presenza degli Armeni nel territorio dell’Azerbaigian, quindi, in particolare quei monumenti armeni, ricoperti da centinaia di iscrizioni armene, vengono presentati come albanesi. Si tratta di Amaras, Ganadzasar, Dadivank, ecc.
Per noi è anche incomprensibile che abbiano partecipato alcuni noti ricercatori del settore, visto che a questa Conferenza non ha partecipato nessun ricercatore armeno e non è stata pronunciata una sola parola sugli Armeni”.
La conferenza è parte di una marcia di avvicinamento dell’Azerbaijan alla Santa Sede. La fondazione legata al presidente Aliyev, da ormai dieci anni, finanzia restauri in Vaticano, mentre Baku ha voluto stabilire una ambasciata residenziale presso la Santa Sede e, dal 2 aprile, Vatican News si è persino arricchita dell’offerta di una sezione in lingua azerbaijana.
Ovvio che le comunità armene, alla notizia della conferenza, si siano ribellate. Il Consiglio per la Comunità Armena di Roma si è unita “allo sgomento e rabbia di tutti gli Armeni” per la conferenza in cui “ancora una volta gli oratori hanno ripetuto la falsa teoria sulla Chiesa Cristiana Albana che sarebbe stata spodestata da quella Armena; teoria infondata e ridicola che non ha alcun cultore al di fuori dell’Azerbaigian e che è stata riproposta per giustificare l’occupazione del Nagorno-Karabakh (Artsakh) cancellando secoli di civiltà e storia armena nella regione, dopo aver cacciato da quei territori, sotto la minaccia della pulizia etnica, più di 120 mila Armeni, che oggi, dopo aver perso tutto, persino le tombe dei loro cari, si trovano rifugiati in Armenia”.
Durante la conferenza, è intervenuto anche l’analista politico Fuad Akhundov, che ha accusato gli armeni di distruggere i monumenti religiosi azeri, descrivendo queste azioni come “una politica anticristiana volta a distruggere la vera storia della regione”.
“Il Consiglio per la comunità armena di Roma – si legge nella comunicazione - ritiene inaccettabile che istituzioni pontificie, ancorché in buona fede, ospitino tali eventi caratterizzati da armenofobia, razzismo, intolleranza e basati su teorie prive di qualsiasi valore storico, religioso e scientifico e offensive nei confronti di un popolo che ha versato il proprio sangue per non rinnegare la propria fede Cristiana e che si sta accingendo a commemorare il prossimo 24 aprile il 110° anniversario del Genocidio del 1915 dove persero la vita più di un milione e mezzo di Cristiani Armeni”.
Il Patriarcato Armeno di Divani, in un comunicato, è arrivato a dire che “il Vaticano si è comportato irresponsabilmente, permettendo alla sua piattaforma accademica di essere usata per propagare una narrativa ben conosciuta e inventata – che cerca di cancellare la presenza storica della Chiesa Apostolica Armena nel Caucaso del Sud dalla memoria intellettuale degli studiosi”, e a denunciare una narrativa che punta a “tinteggiare tratti di una statualità moderna in un passato che non esiste”.
Gli azerbaijani sostengono che la storia cristiana della regione è legata a quell’Albania caucasica, l’Antica Illiria, e fanno risalire l’evangelizzazione della zona addirittura al periodo apostolico, sottolineando come il cristianesimo fu adottato come religione ufficiale dell’Albania caucasica nel 313, e che avrebbe fatto sviluppare una architettura cristiana dal IV al VII secolo. Anzi, pongono il cristianesimo dell’Albania caucasica come un modello perché si sarebbe integrato con gli altri sistemi religiosi della regione, creando uno stile architettonico peculiare. Poi c’è uno stop per via della conquista del territorio azero da parte del Califfato nel IX secolo, e poi una nuova fioritura di architettura cristiana fino al XII secolo, quando poi ci sarebbe stata una nuova fioritura di edifici religiosi. E vengono citati i complessi monastici di Khudavang (1214, situato nell’attuale distretto di Kelbajar in Azerbaigian), Ganjasar (1216-1238, distretto di Terter in Azerbaigian), Khatiravag (1204, distretto di Kelbajar) e altri, divennero centri dove fiorirono le costruzioni religiose.
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Ma è davvero questa la storia? In realtà da quando il Nagorno Karabakh è stato assegnato alla gestione dell’Azerbaijan, musulmano, negli Anni Venti del secolo scorso, gli studiosi hanno dettagliato quello che hanno ritenuto essere una sorta di “genocidio culturale”, ovvero la scomparsa dei “khachkar” (le tipiche croci armene), persino di chiese ed edifici religiosi della antica popolazione cristiana. Quando negli Anni Novanta del secolo scorso l’etnia armena ha preso il controllo della regione proclamandola indipendente (ma lo Stato non è mai stato riconosciuto dall’Armenia stessa) si è verificato, secondo gli azerbaijani, l’opposto, ovvero che l’eredità musulmana della regione è stata estirpata. Ora, però, dopo la guerra del 2020 e la cosiddetta “operazione antiterrorismo” di settembre 2023, il Nagorno Karabakh è sotto controllo azerbaijano. Centinaia di migliaia di armeni hanno lasciato le loro case, i loro terreni, e la custodia dei luoghi santi. L’allarme per la perdita del patrimonio cristiano è risuonato di nuovo nella regione.
Tra gli edifici armeni considerati a rischio, c’è il monastero Dadivank, già passato sotto il controllo armeno nel 2020, che si dice sia stata fondata da San Dadi in persona. Ma anche la chiesa armena di San Gregorio a Baku. A dire il vero, questa chiesa figura nel registro dei monumenti religiosi dell’Azerbaijan, ma è attualmente chiusa al pubblico.
Ma è considerata a rischio anche la cattedrale del Santo Salvatore a Shusha, tra l’altro colpita dai razzi nel conflitto del 2020. Gli azerbaijani considerano Shusha come la loro capitale culturale, la cattedrale cristiana è stata restaurata, ma non si trova più la croce sulla sua sommità.
Il lavoro storico dell’Azerbaijan è impressionante. Vengono fuori nuovi documenti a testimoniare non solo una antica presenza musulmana nella regione dominata da persone della più antica nazione cristiana, ma viene definita anche la presenza di una Chiesa di tipo bizantino, la Chiesa Greco Albaniana, a testimoniare che no, gli armeni non erano i soli e che dunque non sono i padroni dei territori.
Non sono dettagli, perché ricostruire la storia significa anche ricostruire una legittimità. Gli armeni lamentano, in effetti, che le tracce del loro passato siano state sistematicamente cancellate a partire dagli Anni Venti, in quello che loro definiscono un “genocidio culturale”. Mentre la fuga a centinaia di migliaia dopo il raid di autodefinito “anti terrorismo” nel corridoio di Lachin bloccato da mesi deriva dalla paura di una nuova pulizia etnica.
L’Università di Cornell ha stabilito il Caucasus Heritage Watch, che usa immagini satellitari ad alta risoluzione per documentare il destino dei siti culturali armeni in Karabakh e nella exclave azerbaijana di Nakchivan, che si trova vicino al confine con l’Iran.