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In Terrasanta, la Chiesa è chiamata a non perdere la memoria

Papa Francesco e l'ad limina del CELRA | Papa Francesco con il gruppo di vescovi della Conferenza Episcopale dei Latini nelle Regioni Arabe. Alla destra del Papa, l'arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme | Vatican Media / Patriarcato Latino di Gerusalemme Papa Francesco e l'ad limina del CELRA | Papa Francesco con il gruppo di vescovi della Conferenza Episcopale dei Latini nelle Regioni Arabe. Alla destra del Papa, l'arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme | Vatican Media / Patriarcato Latino di Gerusalemme

La Chiesa in Terrasanta deve avere la consapevolezza di essere chiamata a dare “uno stile cristiano” alla sua presenza, che significa anche fare cultura e andare alle radici, perché una delle più grandi crisi è quella della perdita della memoria. La pensa così l’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme. A Roma per la visita ad Limina della Conferenza Episcopale Latina delle Regioni Arabe, parla con ACI Stampa dell’incontro con il Papa e delle sfide che vive la sua comunità e tutto il Medio Oriente.

 Come è stato l’incontro con Papa Francesco?

È stato lungo, di quasi un paio di ore. Per me era la prima volta come membro di un ad limina. La visita dei dicaseri è stata interessante, ci ha dato uno sguardo di insieme. L’incontro con Papa Francesco è stato un incontro ad ampio raggio. La nostra conferenza episcopale è sui generis, include territori molto diversi. Ad ogni modo, ci sono dei problemi comuni: i conflitti presenti nelle regioni che amministriamo e la convivenza con l’Islam sono stati i temi di tutti. Ciascuno di noi ha parlato della sua esperienza, e della sua prospettiva. Si è trattato di un incontro libero, informale, con il quale abbiamo messo il Santo Padre al corrente della nostra situazione e abbiamo voluto sentire il suo incoraggiamento, la sua visione, e le sue domande.

Dopo la decisione del presidente statunitense Trump di spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme ha suscitato forti reazioni in Medio Oriente, e anche da parte delle Chiese locali, che più volte si sono pronunciate per lo status quo, così come ha fatto Papa Francesco. Quanto la questione Gerusalemme ha peso nei Paesi della vostra conferenza episcopale?

Nella vita ordinaria non credo più di tanto: la nostra Conferenza Episcopale ha una grande varietà di Paesi, alcuni molto lontani, difficilmente si parla continuamente della situazione in Medio Oriente. Però il tema ha un peso forte per i cristiani.

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Si è arrivati anche alla decisione senza precedenti di chiudere il Santo Sepolcro, dopo che la municipalità di Gerusalemme aveva deciso di aumentare le tasse. Si può dire che i rapporti con il mondo politico ebraico sono complicati?

Dobbiamo distinguere tra la politica e la religione. Per quanto riguarda i rapporti con il mondo politico, posso affermare che la Chiesa deve uscire dal limbo legale nel quale si trova.

Limbo da cui potrebbe uscire grazie all’Accordo Fondamentale con Israele, ormai in discussione da tempo innumerevole…

L’Accordo Fondamentale è diventato un caso scuola. Se ne parla da anni, ogni volta sembra la volta buona per firmarlo. Penso che ora manchino poche cose per finalizzare l’articolo, è un processo che va definito.

Come vivono i cristiani a Gerusalemme, in questa situazione difficile?

I cristiani a Gerusalemme vivono oggi esattamente come ieri. Le dinamiche del territorio non sono cambiate improvvisamente. La comunità dei cristiani di Gerusalemme è piccola, conta circa 10 mila persone. Ma vivere a Gerusalemme rende tutto più difficile, perché si vive nel mezzo di un conflitto politico, che tocca scuole, confini, proprietà. Così, di fronte anche a prezzi e costo della vita politici, chi non ha grandi mezzi fatica a stare in queste dinamiche.

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Ci sono poi situazioni difficili, come quella ormai nota di Gaza, ma anche il muro che è stato costruito nella Valle di Cremisan. Cosa fa la Chiesa?

Dal punto di vista pratico, la Chiesa fa tutto quello che può per aiutare la popolazione: si impegna nel gestire scuole, erogare microcredito, fare progetti vari. La Chiesa si fa così strumento e organizzazione. Ma la Chiesa è chiamata prima di tutto a fare la Chiesa non siamo una realtà sociale né politica. Dobbiamo dare una speranza, un orientamento e un senso a quanti si trovano in situazioni di difficoltà.

Siamo nel percorso verso il Sinodo dei giovani. Come vivono i giovani in Terrasanta?

I giovani sono quelli che pagano il prezzo più alto. L’alto tasso di disoccupazione dei nostri territori rende la loro vita più difficile, e le possibilità di successo molto complicate. C’è chi si lamenta e chi è frustrato, ma anche chi è in grado di mettersi in gioco.

Quale il pensiero di Papa Francesco per la Chiesa di Terrasanta?

Il Papa è stato sempre molto chiaro, sia quando è venuto in visita, sia quando ci ha incontrato: non possiamo presumere. Significa che i problemi resteranno, che non cambieremo le sorti del Medio Oriente. E pe questo dobbiamo fare quello che siamo chiamati a fare, seguendo il nostro stile.

E quale è lo stile?

È lo stile cristiano: non erigere muri, non avere nemici, creare relazioni, creare occasioni di incontro, fermento culturale, crescita… Un elemento culturale non è secondario, non è una questione solo intellettuale. In effetti, una delle grandi cristi del Medio Oriente è proprio questa perdita della memoria, della coscienza di sé, dell’identità.