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Diplomazia pontificia, Santa Sede all’OSCE, e poi Cina, Palestina Ucraina

L’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro vaticano dei Rapporti con gli Stati, è stato come di consueto al ministeriale OSCE. La questione Cina. La mediazione in Ucraina

OSCE | Gallagher al Ministeriale OSCE di Lodz | Missione della Santa Sede all'OSCE OSCE | Gallagher al Ministeriale OSCE di Lodz | Missione della Santa Sede all'OSCE

Il 2 dicembre, il Cardinale Piero Parolin ha celebrato l’ordinazione episcopale del nuovo nunzio a San Salvador, Luigi Roberto Cona, finora assessore della Segreteria di Stato. Nell’omelia, il Cardinale gli ha chiesto di essere “architetto di pace”. In quello stesso giorno, si celebrava la festa di Albania alla presenza del presidente Bajram Begaj, che era stato in udienza da Papa Francesco.

Il 28 novembre, l’arcivescovo Gallagher ha tenuto un incontro con gli ambasciatori accreditati pressi la Santa Sede sulla Praedicate Evangelium.

Il 3 dicembre, Riad Al Malki, Ministro degli Affari Esteri di Palestina, ha incontrato l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, appena tornato dal ministeriale OSCE. Diversi gli incontri bilaterali a margine dell’OSCE: Gallagher ha incontrato il ministro degli Esteri turco Cavusoglu e il ministro degli Esteri azerbaijano Jeyhum Bayramov,

Mentre il 10 dicembre, Suzana Caputova, presidente di Slovacchia, sarà per la terza volta in visita da Papa Francesco, che ha dimostrato più volte di apprezzarla.

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La Santa Sede e le sfide nell’area OSCE

Si è tenuto a Łódź, in Polonia, il consueto appuntamento annuale del ministeriale OSCE, il 29esimo, cui, come di consueto, ha partecipato l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati.

Nel suo intervento, Gallagher ha notato che il ministeriale avviene in un momento in cui l’Europa si trova nel mezzo di una guerra, ma anche che “oltre all’Ucraina, altri Stati partecipanti stanno ancora affrontando numerose sfide alla loro sicurezza e stabilità, a causa di conflitti che si protraggono da decenti, altri più recenti, e attacchi terroristici”.

Gallagher ha ricordato il coinvolgimento della Santa SEde nei negoziati di Helsinki che portarono alla nascita dell’OSCE, e invitato a domandarsi se, in questa situazione, si sti tradendo lo spirit di Helsinki, anzi denuncia che “la nostra infedeltà a Helsinki è continuata molto prima dello scorso febbraio”.

Ad Helsinki – ha ricordato - ci si presentava con un mondo diviso in blocchi e due diverse ideologie, eppure “i nostril predecessor si sono messi intorno ad un tavolo e hanno trovato il modo di discutere temi di commune interesse”.

Si deve, insomma, “costruire e consolidare la pace”, impegno “non solo serio e urgente”, ma piuttosto “obbligo morale per le organizzazioni governative e intergovernative”.

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“Denunciare le violazioni di diritti umani”, ha notato la Santa Sede, non può che essere “solo il primo passo”, perché poi ci vuole dialogo, che sembra “meno glorioso del campo di battaglia”; ma i cui risultati portano benefici di più lungo termine”.

Mettendo gli Stati insieme intorno ad un tavolo, nota Gallagher, l’OSCE, “ha provato e può continuare, anzi dovrebbe continuare a provare il suo valore e il suo impatto”, anche grazie al fatto che l’OSCE sia regolato dalla regola del consenso.

Tra le sfide di oggi, la Santa Sede guarda alla crisi umanitaria, alla difficile situazione dei rifugiati e degli sfollati per tutta l’area OSCE e nel mondo”, e anzi mette in luce con particolare preoccupazione che “in situazioni di conflitto e crisi umanitarie i criminali soggioghino, riducano in schiavitù e traffichino persone”.

Gallagher mette anche in luce il fenomeno della migrazione economica, “antica come la sessa storia umana”, e ricorda che “ogni persona che lascia la sua nazione ha il diritto di vivere e,p rima ancora, di sopravvivere.

La Santa Sede non può guardare anche al panorama di sicurezza globale, che include la sicurezza energetica e climatica, cambiata “drammaticamente” dal momento in cui la Russia ha mosso guerra contro l’Ucraina.

Infine, Gallagher parla delle discriminazioni, che toccano ebrei e musulani in Europa, ma anche i cristiani.
I numeri dei cristiani perseguitati sono in crescita, così come crescono “attacchi che prendono di mira sinagoghe, moschee, chiese, cimiteri e altrei siti religiosi”.

Ma è anche l’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani a crescere, e “non solo dove i cristiani sono minoranza, ma anche dove sono in maggioranza”.

Vaticano – Cina, a rischio l’accordo tra Cina e Santa Sede?

Non sarebbe a rischio l’accordo sino-vaticano per la nomina dei vescovi, nonostante lo scorso 26 novembre la Santa Sede abbia pubblicato una dichiarazione molto dura riguardo l’installazione di un vescovo in una diocesi non riconosciuta da Roma.

Di fatto, la dichiarazione della Santa Sede aveva un duplice scopo: far comprendere al governo cinese che, nonostante l’accordo, la Santa Sede non manca di notare quando ci sono delle violazioni; e mettere in luce la buona fede della Santa Sede, che resta in attesa di risposta e che comunque punta ad un dialogo costruttivo.

La questione era particolarmente complessa. Il vescovo Peng, installato nella diocesi di Xanji, era già vescovo. Ma era vescovo di una diocesi sotterranea, nominato da Papa Francesco e poi subito arrestato per qualche mese. Regolarizzandosi, ha accettato di diventare ausiliare di una diocesi che per la Santa Sede non esiste.

La Cina, infatti, ha creato una sua divisione diocesana. Non ci sono arcidiocesi, non ci sono vicariati, solo diocesi che a volte coprono grandi territori o mettono insieme i terriori di più diocesi.

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È il caso della diocesi di Xanji, che di fatto accorpa cinque diocesi, e che vede ora il vescovo Peng come suo ausiliare. La questione della suddivisione in diocesi non è prevista dall’accordo sino-vaticano, e infatti la Santa Sede non ha parlato di “rottura” dell’accordo, ma piuttosto della violazione dello “spirito” dell’accordo.

Secondo alcune fonti, la decisione cinese sarebbe stata la risposta cinese al fatto che la Santa Sede avrebbe rifiutato di nominare un vescovo presentato da Pechino. La “presentazione” sarebbe avvenuta a Tianjing, mentre la delegazione vaticana era in Cina per negoziare il rinnovo dell’accordo.

Così facendo, la Cina mostra il pugno duro, dicendo alla Santa Sede che ha ancora il controllo della situazione e che può decidere in ogni momento della distribuzione territoriale delle diocesi.

Alla base, c’è un problema di percezione: la Cina considera la religione affare di Stato e i sacerdoti cittadini che non possono essere soggetti a un capo di Stato estero, e non accetta che la divisione delle diocesi possa essere decisa dalla Chiesa. La Chiesa, invece, sottolinea la totale separazione tra Stato e religione.

Dopo la dichiarazione della Santa Sede, Zhao Lijian, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha detto in una conferenza stampa che “Cina e Vaticano negli ultimi anni hanno mantenuto un accordo e hanno sollevato la questione di una serie di importanti accordi comuni.

Anzi, il modo in cui la Chiesa ha migliorato i rapporti in Cina “ha anche contribuito allo sviluppo armonio del cattolicesimo in Cina”.

Le proteste russe alle parole del Papa sulla Cecenia

Dopo aver inviato una lettera al popolo ucraino per i nove mesi di guerra, Papa Francesco ha ribadito, in una intervista con il magazine gesuita America, che è colpito dalle atrocità delle guerra, e che queste atrocità sono compiute sì, da russi, ma da russi non di etnia e tradizione russa, come i ceceni e i buriati.

Nelle intenzione del Papa c’era probabilmente la volontà di non offendere un popolo che ama, quello russo, e di appellarsi alle comuni radici cristiane che dovrebbero portare a rendere più umana una guerra – un po’ quello che proponeva il Cardinale Pietro Parolin anni fa, quando metteva in luce quanto sarebbe stato bene avere una sorta di valutazione per come le parti rendessero “umana” una guerra.

Di fatto, però, le parole di Papa Francesco hanno ottenuto l’effetto contrario, con proteste dal fronte russo che sono arrivate ai massimi livelli.

Il 30 novembre, Ramzan Kadyrov, il presidente della Cecenia, ha risposto alle parole del Papa. “Noi – ha detto – non cominciamo alcuna battaglia senza suggerire prima la pace. E dall’inizio della operazione militare speciale, lo abbiamo probabilmente fatto dozzine di volte. Gli stessi soldati ucraini nostri prigionieri potranno eventualmente parlare del trattamento ceceno dei prigionieri e spiegare se è crudele o no”.

Kadyrov ha anche sottolineato che nelle truppe cecene non ci sono né alcolisti né dipendenti da droga. Anzi, “ogni soldato è profondamente religioso, e ogni soldato sa che anche durante una guerra, non si deve dimenticare l’onore, la dignità e il rispetto per il nemico”.

In più, ha aggiunto, in generale “come si può definire in battaglia se l’avversario sia accomodante, simpatico, sentimentale o crudele? E ancora, come è possibile discriminare a vista l’etnia di un officiale russo in una forza mista, dato che la nostra nazione è casa per più di 190 gruppi etnici? Il capo del Vaticano, naturalmente, non può rispondere alla domanda. È semplicemente diventato vittima della propaganda e dell’insistenza che viene dai media stranieri”.

In maniera ancora più dura, Pandito Hambo Lama Damba Aysheyev, leader spirituale dei russi buddisti, comunità che si trova in Buriazia, ha spiegato in una dichiarazione diffusa sul suo canale Telegram che “i cattolici romani europei non capiscano che la vita nella fredda Siberia o nell’estremo Est rende il popolo più resiliente, paziente e resistente a diverse durezze della vita”.

Il vicepresidente del Senato russo, Konstantin Kosachev, ha invece dichiarato alla Tass che “le parole del Papa sono inaccettabili”, perché “non tocca al leader della Chiesa cattolica commentare una situazione con la quale né lo Stato (vaticano) né la Chiesa hanno nulla a che fare”.

Il 28 novembre, poco dopo l’uscita dell’intervista, Maria Zajarova, portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, ha denunciato le parole del Papa come “una scandalosa perversione della verità”, e non tanto russofobia, anche perché invece “nel 2000 si diceva esattamente il contrario, ovvero che “i russi stavano torturando i popoli del Caucaso”.

Inoltre, Alexander Avdeev, amabasciatore della Federazione Russa presso la Santa Sede, ha dichiarato all’agenzia Ria Novosti, ha detto di aver espresso alla Santa Sede “l’indignazione di Mosca per tali insinuazione e sottolineato che niente può far vacillare la coesione e l’unità del popolo multinazionale russo”.

Infine, il 30 novembre è stato lo stesso ministro degli Esteri Sergej Lavrov a commentare le parole di Papa Francesco: “Dice di voler mediare, ma recentemente ha fatto delle dichiarazioni non cristiane sulle crudeltà commesse in particolare da membri di due nazionalità della Russia, cioè i Ceceni e i buriati”.

Lavrov ha aggiunto che “il Vaticano ha detto che ciò non si ripeterà e che probabilmente c’è stato un malinteso, ma questo non aiuta ad aumentare l’autorità dello Stato Pontificio”.

Santa Sede e Ucraina, mediazione della Santa Sede?

Parlando la scorsa domenica a TgCom24, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, “ministro degli Esteri” vaticano, ha ribadito la proposta della Santa Sede di fare da mediatore, o perlomeno di fornire una piattaforma negoziale.

Il 28 novembre, Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, ha fatto sapere che la Santa Sede apprezza l’offerta della Santa Sede, ma allo stesso tempo “data la situazione de facto e de jure che abbiamo dalla pare ucraina, queste piattaforme non possono essere utili.

                                                FOCUS EUROPA

Il nunzio in Bielorussia ricorda il ministro degli Esteri di Minsk

È morto a soli 64 anni, in maniera improvvisa e per alcuni misteriosa, il ministro degli Esteri bielorusso Vladimir Makei. Il suo ultimo incontro ufficiale era stato con l’arcivescovo Ante Jozic, nunzio a Minsk, che lo ha ricordato in una cerminonia lo scorso 29 novembre.

“La morte di Vladimir Makei – ha detto Jozic – è una grande perdita, non solo per lo Stato, ma anche per quanti lo conoscevano e che hanno lavorato con lui qui, in Occidente e Oriente. Era un uomo di dialogo, e questo lo percepivo ogni volta che ci incontravamo”.

L’ambasciatore del Papa ha anche espresso speranza che il dialogo sviluppato da Makei resta lo stesso, e che contribuisca a pace e armonia”.

                                                FOCUS ASIA

Corea del Sud, il perdono necessario oggi

L’arcivescovo Peter Chung Soon-Taick di Seoul ha aperto sabato i lavori del Korean Peninsula Peace-Sharing Forum 2022, un seminario che la Chiesa di Seoul tiene ogni anno riunendo sacerdoti, attivisti e studiosi di tutto il mondo per riflettere sul cammino di pace tra Nord e Sud.

Quest’anno, l’incontro è caduto in una fase di forti tensioni tra Pyongyang e Seoul, una situazione che rammarica l’arcivescovo Chung, che è anche amministratore apostolico di Pyongyang.

L’appuntamento vuole tenere vivo l’invito del Papa al dialogo intercoreano durante la Messa a Myeongong nel 2014.

.Al Forum, tenutosi presso il Campus teologico dell’Università cattolica coreana, è intervenuto anche il nunzio apostolico a Seoul, l'arcivescovo Alfred Xuereb. “La Santa Sede – ha detto - non manca di sostenere la Corea nelle sue aspirazioni più profonde, a partire dal processo di riconciliazione e prosperità dell'intera penisola coreana”. E citando le parole pronunciate da Papa Francesco durante il recente Congresso dei leader religiosi in Kazakistan, ha ricordato che la pace “nasce dalla fraternità, cresce attraverso la lotta all'ingiustizia e alla disuguaglianza, si costruisce tendendo la mano agli altri”.

Libano, il patriarca Rai critica il blocco delle elezioni

In una omelia del 27 novembre, il Cardinale Bechara Rai, patriarca maronita, è tornato a criticare il blocco delle elezioni presidenziali nel Paese.

A Roma per qualche giorno e celebrando nella Chiesa di San Marone del Pontificio Istituto Maronita di Roma, il Cardinale Rai ha definito il Giordo di Indipendenza del Libano un giorno triste.

In particolare, il Cardinale Rai ha criticato la decisione di Nabih Berry, presidente del Parlamento, di aggiornare le sessioni dedicate all'elezione del nuovo presidente dopo il primo scrutinio, denunciando anche l’operato di Hezbollah, che dopo il primo turno ha lasciato l’emiciclo causando la mancanza del quorum, sottolineando per contrasto il principio giuridico che dice che “non c’è usanza contraria alla Costituzione”.

 Il Patriarca ha inoltre sottolineato che "Nabih Berry ritiene che ogni nuova sessione reimposta il processo di voto”, ma “i parlamentari affermano che questo approccio contraddice la Costituzione, che richiede una maggioranza dei due terzi per eleggere un presidente al primo turno, mentre è richiesta solo una maggioranza semplice per tutti i turni successivi”. 

Il Patriarca maronita, che ha più volte proposto una “neutralità attiva per il Libano” ed è noto per i suoi interventi anche duri in ambito politico, ha aggiunto che il Libano non può “aspettare” che altri Paesi eleggano il presidente, perché “ciò che sta accadendo nella regione non promette soluzioni a breve termine ai problemi esistenti", e c’è invece “sempre il rischio che vengano dichiarate nuove guerre, il che complicherebbe la risoluzione".

Nel suo incontro con gli ambasciatori dello scorso 21 novembre, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, ha molto insistito sulla necessità di aiutare il Libano, delineandola come una priorità della Santa Sede. Il Papa avrebbe voluto andare in Libano già a luglio di quest’anno, viaggio poi mai ufficializzato.

                                                FOCUS NUNZIATURE

L'arcivescovo Pawlowski nunzio in Grecia 

L'1 dicembre, Papa Francesco ha nominato l'arcivescovo Jan Romeo Pawlowski nunzio apostolico in Grecia. Prende il posto dell'arcivescovo Savio Hon, che lo scorso 24 ottobre Papa Francesco ha nominato come nunzio a Malta dopo un quinquennio ad Atene.

Pawlowski era senza incarico dal 10 settembre, da quando Papa Francesco aveva nominato al suo posto come capo della Sezione per le Rappresentanze Pontificie l'arcivescovo Luciano Russo.  

Sacerdote dal 1985, nel servizio diplomatico della Santa Sede dal 1991, ha lavorato l'arcivescovo Pawlowski ha lavorato nelle rappresentanze pontificie di Repubblica del Congo, Repubblica Centrafricana e Ciad, Thaildandia, Brasile, Francia. Dal 2002 al 2009 ha lavorato nella sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato della Santa Sede. Dal 2009 al 2015 era stato nunzio apostolico nella Repubblica del Congo e in Gabon, ed è poi tornato come delegato per le rappresentanze pontificie nel 2015. Nel 2020, quando il suo incarico si trasformò nella Terza Sezione della Segreteria di Stato, il Papa lo nominò segretario per le relazioni pontificie.                                                FOCUS MULTILATERALE

La Santa Sede sulla protezione dei civili

Lo scorso 18 novembre, la delegazione della Santa Sede ha partecipato a Dublino all’adozione della “Dichiarazione Politica sul Rafforzamento della protezione dei civili dalle conseguenze umanitarie che nascono dall’uso di armi esplosive in armi popolate”.

La delegazione era guidata da Monsignor Julien Kaboré, incaricato di affari della nunziatura in Irlanda. Nel suo intervento, monsignor Kaboré ha ricordato che la Santa Sede è “fermamente convinta che una delle più alte aspirazioni dell’umanità è l’abolizione del conflitto e il raggiungimento della pace e della giustizia”, e per questo la Santa Sede ha “negoziato attivamente” e appoggiato la dichiarazione, che è un “importante passo avanti per proteggere il dono più prezioso che abbiamo ricevuto: la vita umana”.

In quella che Papa Francesco ha descritto come “guerra mondiale a pezzi”, aggiunge il delegato della Santa Sede, dobbiamo “concordare che il rispetto della Legge Umanitaria Internazionale è sempre più cruciale per la protezione della dignità sia di chi combatte che delle popolazioni civili”, anche perché i civili non sono, in una guerra urbana, “danni collaterali”, ma sono piuttosto la “stragrande maggioranza dei morti e i feriti”.

Purtroppo, aggiunge la Santa Sede, il “minimo di protezione offerto dalla Legge Umanitaria Internazionale è troppo spesso violato in nome della cosiddetta necessità militare”.

La dichiarazione è dunque “una opportunità”, e la Santa Sede ritiene che “molti dei principi umanitari contenuti in questa dichiarazione politica si riflettono nella missione dei cappellani militare”.

L’attesa è che dunque la dichiarazione sia implementata, perché “ogni passo preso in questa giusta direzione contribuisce a far crescere la consapevolezza che la crudeltà dei conflitti sia sradicata e rimpiazzata da una cultura di vita, giustizia e pace”.

La Santa Sede a Ginevra, la questione delle migrazioni climatiche

Lo scorso 29 novembre, si è discusso all’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni della “Intersezione tra cambiamento climatico, sicurezza alimentare, migrazione e sfollamento”.

Per la Santa Sede è intervenuta Francesca Di Giovanni, sottosegretario della Segreteria di Stato per il settore multilaterale, a mettere in luce l’impegno per la sAnta Sede sulla questione migrazioni, concretizzato dal fatto che la Santa Sede è membro, e non osservatore, dello IOM.Nel suo intervento, la Santa Sede nota che al centro di tutto ci deve essere “l’interesse per la persona umana”, e che la connessione tra più fattori diventa “sempre più evidente ogni giorno”, perché “le conseguenze della crisi climatica, la carestia e la scarsità dell’acqua sono già una realtà per una moltitudine di persone nel mondo”.

Di Giovanni ha ricordato anche che questo mese al COP27, gli Stati parte hanno riconosciuto la comune preoccupazione del cambiamento climatico, e che la Santa Sede “vuole enfatizzare che il volto umano dell’emergenza climatica ci mette profondamente alla prova”, e che c’è “un dovere morale di agire concretamente per pervenire e rispondere agli impatti umanitari sempre più frequenti e severi”.

La Santa Sede mette in luce anche “il crescente fenomeno dei migranti sfollati” a causa dell’impatto climatico, e che gli Stati non li possono lasciare senza soluzioni tangibili, incluse le aree di adattamento, mitigazione e resilienza”, e quando questo non è possibile “è importante riconoscere la migrazione come una forma di adattamento e di far crescere la disponibilità e la flessibilità di percorsi per la migrazione regolare”.

Di Giovanni ha ricordato che “solo lo scorso anno, i disastri indotti dal clima hanno portato allo sfollamento interno di 23,7 milioni di persone”, e “senza azioni di sviluppo concertate” ci sono oltre 216 milioni persone che possono diventare “migranti interni a causa del clima a partire dal 2050”.

La Santa Sede ribadisce che i migranti “non sono solo numeri e statistiche, ma nostri fratelli e sorelle”, e che ci vuole una risposta coordinata e collettiva della comunità internazionale per quanto riguarda le questioni della sicurezza alimentare e il cambiamento climatico”, considerando che le sfide poste dal cambiamento climatico hanno, come sostiene Papa Francesco, delle “implicazioni etiche”.

Per tanto, la Santa Sede invita a promuovere “una cultura della cura, che pone la dignità umana e il bene comune al centro”.

La Santa Sede a Ginevra, le migrazioni internazionali

L’1 dicembre, sempre all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, l’arcivescovo Fortunatus Nwachuwku, osservatore permanente della Santa Sede presso le organizzazioni internazionali di Ginevra, è intervenuto sul tema delle migrazioni, notando come “la decisione di emigrare è senza dubbio una delle più difficili decisioni della vita”, e che sfortunatamente la situazione internazionale “non sembra essere migliorata”, tanto che “la sofferenza umana e la disperazione continuano ad essere sfruttate per difendere e anche portare avanti agende politiche”.

LA Santa Sede invita a non perdere “il volto umano delle migrazioni”, ricordando che al di là dei confini “siamo parte di una singola famiglia umana”, e che i migranti “sono più che numeri o parte di una quota da incontrare ogni anno”.

La Santa Sede nota le difficoltà dell’integrazione, invita ad affrontare i flussi mussi, e chiede anche di cambiare il linguaggio dei documenti, perché si parla di “condivisione di peso”, “redistribuzione”, e “riallocazione”, espressioni “inerentemente riduttive che caratterizzano migranti, rifugiati e richiedenti asilo come beni o investimenti.

Sottolinea l’arcivescovo Nwachukwu che “le cause alle radici delle migrazioni e dello sfollamento forzato mettono in gioco anche le conquiste della famiglia umana, anche nell’area della giustizia sociale”, e che “è cruciale che la comunità internazionale aiuti a creare le condizioni che permettano a comunità e individui di vivere in sicurezza e dignità nelle loro nazioni di origine”.

Non basta più ormai, nota la Santa Sede, incoraggiare un maggiore coordinamento degli Stati nell’area della ricerca, sbarco e reinsediamento, ma ci vuole piuttosto “una necessità seria di riconsiderare e riformare l’attuale approccio nel gestire i flussi misti ai confini internazionali”, altrimenti il caos peggiorerà solamente”.

Ma le sfide percepite non devono “oscurare le opportunità e contributi offerti dai migranti”, perché la migrazione deve essere approcciata “con confidenza e come una opportunità per costruire la pace e non una minaccia”, e da questo punto di vista è importante “l’integrazione”, considerando che le parole chiave devono essere “cooperazione e solidarietà”.

La Santa Sede a Ginevra, la convenzione delle Armi Biologiche

Il 29 novembre, si è tenuta a Ginevra la Conferenza di Revisione della Convenzione sulle armi biologiche.

Intervenendo al dibattito, l’arcivescovo Nwachukwu ha notato che oggi “dobbiamo fare i conti con complessità senza precedenti nel prevedere i nefasti usi delle armi biologiche”, complessità che nessuno Stato può affrontare da solo, perché “la convergenza tra intelligenza artificiale e biotecnologie stanno ponendo sfide sempre più difficili all’implementazione della convenzione”.

La Santa Sede definisce la convenzione come “un pilastro essenziale per il disarmo internazionale e la sicurezza”, e sottolinea che si potrebbero usare le biotecnologie per “curare le malattie, alleviare la sofferenza e proteggere l’ambiente”.

Per questo, la Santa Sede apprezza l’accresciuto focus sulle questioni etiche, e supporta le iniziative che sono “orientate verso il bene comune e la protezione della vita umana”:

La Santa Sede nota anche che “il devastante impatto della pandemia del COVID 19 ha messo in luce le nostre false sicurezze e enfatizzato le limitazioni della risposta nazionale e internazionale”, limiti che sarebbero ancora più evidenti “nel caso dell’uso di armi biologiche, specialmente se questo avvenisse durante un conflitto armato”.

Gli strumenti per evitare l’uso di armi non convenzionali, aggiunge l’arcivescovo Nwachuwku, sono “più di strumenti legali”, perché sono anche “impegni morali basati sulla fiducia tra gli Stati e i rappresentanti dagli Stati”.

Infine, la Santa Sede “ribadisce urgentemente la sua chiamata per la cessazione ei conflitti e per lo stabilimento di una cultura di pace e di vita, basata sui valori di responsabilità, giustizia e dialogo”.