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Processo Palazzo di Londra, cosa c'è, cosa non c'è nella prima parte di requisitoria

A metà della requisitoria del promotore di Giustizia, permangono le domande sul processo e sulla costruzione delle prove. Secondo Diddi “l’impianto accusatorio ha retto”. È davvero così?

Processo Palazzo di Londra | Una udienza del processo sulla gestione dei fondi dei Musei Vaticani, nell'Aula Polifunzionale dei Musei Vaticani | Vatican Media / ACI Group Processo Palazzo di Londra | Una udienza del processo sulla gestione dei fondi dei Musei Vaticani, nell'Aula Polifunzionale dei Musei Vaticani | Vatican Media / ACI Group

No, non è un processo contro la Segreteria di Stato. No, monsignor Alberto Perlasca non è un supertestimone. No, l’ufficio del Promotore di Giustizia non ragiona per teoremi, ma solo per prove. In tre giorni di requisitoria, a metà del guado che porterà poi alla richiesta delle condanne e traghetterà verso il lungo periodo dedicato a parti civili e arringhe difensive, il promotore di Giustizia vaticano Alessandro Diddi si è dedicato più a decostruire che a costruire. A smentire ogni singolo dubbio, velato o meno, che ci fosse stato sulla sua ricostruzione di ciò che è successo. A concedere su questioni minime, ma senza scontare nulla su quelli che pensa che siano stati i fatti. “L’impianto accusatorio – dice – ha retto”.

È una requisitoria aggressiva, che tiene conto delle testimonianze solo in pochi casi, ma che si sarebbe in realtà potuta tenere tale e quale tre anni fa, seguendo quanto scritto nel rinvio a giudizio.

Il processo

Il processo, come è noto, tratta tre filoni, tutti genericamente riconducibili alla “gestione di fondi” della Segreteria di Stato, e allo stesso tempo tutti diversi.

Primo filone, più importante: l’investimento della Segreteria di Stato su un palazzo di lusso a Londra per circa 200 milioni di euro, dato prima in gestione al broker Raffaele Mincione, poi al broker Gianluigi Torzi che aveva tenuto per sé le uniche mille quote dell’immobile con diritto di voto, e quindi era stato rilevato dalla Segreteria di Stato pagando a Torzi il valore delle quote, con una operazione che l’accusa qualifica come estorsione. La Santa Sede ha poi venduto il palazzo senza mettere in atto le operazioni di sviluppo previste, a un prezzo al di sotto del valore di mercato e con una perdita, secondo il promotore di Giustizia, che va dai 139 ai 189 milioni di euro.

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Il secondo filone riguarda la destinazione di fondi della Segreteria di Stato per un valore di 125 mila euro alla Caritas di Ozieri in Sardegna, diocesi di origine del Cardinale Angelo Becciu. Il denaro è stato destinato dalla Caritas alla SPES, una cooperativa legata alla Caritas che fa opere sociali e che stava costruendo un panificio per creare lavoro. Il reato sarebbe quello di peculato, perché secondo l’accusa Becciu avrebbe utilizzato il denaro della Segreteria di Stato per fini personali e allo scopo di arricchire la sua famiglia.

Il terzo filone riguarda invece l’ingaggio, da parte della Segreteria di Stato, di Cecilia Marogna, sedicente esperta di intelligence che sosteneva di collaborare alla liberazione di alcuni ostaggi, tra cui quello di Suor Cecilia Narvaez, la suora colombiana che fu rapita in Mali nel 2017. La donna, secondo l’accusa, avrebbe speso per sé denaro da lei destinato dalla Segreteria di Stato per concludere le operazioni di liberazione.

Una premessa

Prima di addentrarsi in alcuni dei temi trattati nelle ultime tre udienze, senza entrare troppo nei dettagli, ma fornendo una spiegazione a grandi linee di quello che è stato detto, vale la pena chiarire quello su cui il promotore di Giustizia Diddi ha cambiato idea.

Prima di tutto, ed è la cosa più importante, la Santa Sede non utilizzava l’Obolo di San Pietro per effettuare gli investimenti.

Questo era stato chiarito durante gli interrogatori. La Santa Sede aveva un “Fono Obolo”, dove però non convergevano più le donazioni dell’Obolo di San Pietro, ed era piuttosto in cui convergeva il denaro di varie operazioni differenti. Per il Promotore di Giustizia, tuttavia, non è quello il punto. È piuttosto il fatto che l’Obolo non sarebbe bastato, e che anzi era lo IOR a contribuire notevolmente alle spese della Curia.

More in Vaticano

Anche qui, andrebbero letti bene i bilanci. Lo IOR è arrivato a dare un massimo di 50 milioni di euro per la sede apostolica, tirandoli fuori dai suoi profitti, che erano arrivati nel 2012 ad essere di 86,6 milioni di euro. Poi, questi profitti sono scesi, e così anche il contributo della Curia. Nel 2016, quando c’è stato l’ultimo bilancio pubblico del governatorato, era evidente che le spese della Curia erano coperte in parte anche dagli utili del governatorato, che ha ingenti entrate grazie agli ingressi nei Musei vaticani.

Insomma, né il contributo dello IOR né il contributo dell’Obolo erano decisivi per tenere in piedi quello che è stato chiamato “bilancio di missione”. Anzi, i contributi dello IOR e dell’Obolo erano fortemente influenzati dai profitti nel primo caso e dalla raccolta nel secondo.

Il promotore di Giustizia, però, accetta in toto la narrativa della cosiddetta “banca vaticana”.  E non considera un secondo fatto: la Santa Sede ha sempre diversificato gli investimenti, la Segreteria di Stato ha attuato questa politica dagli anni Trenta, e solo il motu proprio recente di Papa Francesco Il Diritto Nativo  ha messo fine a questa politica di salvaguardia del patrimonio e di investimento.

Basta però vedere le varie storie della finanza vaticana redatte nel corso degli anni per rendersi conto che l’investimento di Londra era in linea con altri investimenti che erano in portafoglio della Segreteria di Stato. Il processo punta il dito contro l’investimento, considerato “speculativo”. Si tratta di comprendere cosa vada effettivamente definito speculazione.

La seconda cosa su cui Diddi ha cambiato idea è il presunto peculato che era stato attribuito a Tommaso Di Ruzza, direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria. Archiviato, perché le argomentazioni presentate anche in sede di interrogatorio sono state convincenti.

E la terza cosa su cui Diddi ha cambiato idea è il coinvolgimento di René Bruelhart, già presidente dell’Autoirtà di Informazione Finanziaria, sulla questione del prestito richiesto alla Segreteria di Stato. 

La dichiarazione di Becciu

In questi tre giorni di requisitoria, c’è stato spazio anche per una irrituale dichiarazione spontanea del Cardinale Angelo Becciu, concessa fino a un certo punto dal presidente del Tribunale vaticano, durante la quale il cardinale ha risposto punto per punto alle accuse, negandole tutte. Non solo, ha aggiunto dati interessanti. Ha sottolineato che i fondi che arrivavano dallo IOR venivano utilizzati così: dai 18 ai 23 milioni venivano destinati a Radio Vaticana, 8 milioni all’Osservatore Romano, dai 27 ai 33 milioni alle nunziature apostoliche per la loro manutenzione e la costruzione nuove sedi. Non erano inclusi gli stipendi, che venivano invece pagati dall’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica”.

Ma il Cardinale Becciu ha smentito anche di aver impedito all’accesso alla Segreteria di Stato da parte dei controlli della Segreteria per l’Economia. Era la narrativa del Cardinale George Pell, ripresa nella sua interezza dal promotore Diddi come se fosse una prova della colpevolezza e del malaffare che c’erano in Segreteria di Stato.

Il Cardinale Becciu ha spiegato però quello che c’era noto, che il denaro della Segreteria di Stato costituiva il fondo sovrano del Papa e non rientrava nel bilancio consolidato della Santa Sede, e questo per scelta di Paolo VI – che fu tra l’altro il Papa che aveva dato centralità alla Segreteria di Stato nella Curia.

L’entità del bilancio della Segreteria di Stato era conosciuta – spiega il cardinale – “dal Papa, dal segretario di Stato, dal sostituto e dall’amministratore del fondo”. Dunque, sarebbe bastata una richiesta del Papa per aprire alle richieste della Segreteria per l’Economia. Ma non solo non ci fu questa richiesta. Nel 2016, Papa Francesco specificò con un motu proprio le competenze della Segreteria per l’Economia, separando di nuovo la vigilanza dall’amministrazione e ridando all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica una centralità.

E non solo. Di fronte al contratto negoziato dal Cardinale Pell con Pricewaterhouse Cooper per la verifica dei bilanci, che apriva anche a conti “di Stato” della Segreteria di Stato – e quale Stato metterebbe nelle mani di una società di revisione anche i propri conti riservati e quelli del governo? – il Cardinale Parolin ottenne un rescritto del Papa che portò ad una rinegoziazione del contratto. Era un modo per difendere la sovranità della Santa Sede, che resta tale anche quando si ottempera a tutti gli obblighi di trasparenza.

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Ha continuato il Cardinale Becciu: “La Segreteria di Stato è distinta da altri dicasteri, non riceve istruzioni, ma dà istruzioni. Cambiare i regolamenti non dipendeva da me o da chiunque fosse il sostituto. Era una prerogativa che non mi toccava. C’è voluto un motu proprio del Papa per cambiare natura e competenza della Segreteria di Stato. Così funzionava la Segreteria di Stato e così dovevamo farla funzionare”.

Infine, il Cardinale Becciu ha notato come il modo in cui il Promotore di Giustizia ne descrive le operazioni lo abbia “declassato da sostituto a capo ufficio”, perché lui non si occupava direttamente degli investimenti, ma ha solo “dato il consenso preparatomi dall’ufficio e controfirmato da monsignor Perlasca per il Palazzo di Londra e solo perché mi era stato presentato come affare vantaggioso per la Santa Sede. Io ero stato autorizzato dal Cardinale Bertone, con lettera dell’1 luglio 2013, ad investire i fondi di Segreteria di Stato giacenti nella UBS di Lugano”.

Infine, ha detto che “è una falsa diceria, che respingo in pieno” quella che si opponesse alle riforme del Cardinale Pell, e che anzi lui si limitava a far notare che le riforme facevano aumentare i costi, tanto che “al personale fatto venire dall’Australia assegnò 25 mila euro al mese, alla sua segretaria 12 mila euro, a un officiale proveniente dall’APSA dove aveva uno stipendio di 2500-3000 al mese assegnò uno stipendio di 9 mila euro”, e tutto mentre il Cardinale Parolin aveva stabilito una moratoria su turn over e nuove assunzioni.

L’impianto accusatorio del Promotore di Giustizia

Le parole di Becciu lasciano molto da pensare, se confrontate con la requisitoria del Promotore di Giustizia, che in questi tre giorni si è occupato del Palazzo di Londra e della situazione dell’Autorità di Informazione Finanziaria come due casi principali.

Il Promotore ha voluto sgombrare il campo dagli equivoci, e cioè che non era una indagine contro la Segreteria di Stato, ma solo contro alcuni che si sarebbero comportati in maniera non conforme alla legge in Vaticano, il cui primo fondamento è “la legge divina”, e che si rifà al diritto canonico. In pratica, il punto non è se si dovessero gestire i soldi, ma il fatto che non si sono gestiti con “lo spirito del buon padre di famiglia”, facendo operazioni speculative che “mai si erano fatte nella storia della Chiesa”.

Becciu non è mai comparso negli interrogatori che riguardavano l’investimento sul palazzo di Londra, se non marginalmente quando si riporta che ha chiesto una valutazione per la partecipazione della Segreteria di Stato a una società di estrazione in Angola (la Falcon Oil) e quando poi, avuto il consiglio di non investire in Angola nonostante si trattasse di un imprenditore amico, accetta l’affare di Londra, presentatogli come affare vantaggioso.

Il promotore di giustizia, però, tratteggia un quadro ancora più complesso, che mostra addirittura un accordo per arrivare all’investimento su Londra facendo crollare la prima ipotesi su Falcon Oil, in un gioco di interessi incrociati che vedrebbero il Cardinale Becciu come una sorta di “gran burattinaio” – non sono queste le parole che usa il promotore, per essere chiari, servono a rendere una idea sintetica.

Produce e-mail, legge conversazioni, sottolinea che l’investitore della Segreteria di Stato, Enrico Crasso, e il broker chiamato per consigliare Falcon Oil e che poi porterà all’investimento di Londra, Raffaele Mincione, sono d’accordo, accusa Mincione di aver usato i fondi della Segreteria di Stato per azioni personali, come la scalata in CARIGE, e anche quella nella Banca Popolare di Milano, ricostruisce anche il contatto tra Torzi e Mincione e i reciproci interessi che si nascondono dietro poi al passaggio delle quote del palazzo dal GOF di Mincione alla GUTT di Torzi, mettendo in dubbio che la trattativa per la cessione fosse stata “estenuante” come raccontata dai protagonisti a processo, ma piuttosto sottolineando che si era arrivati lì già con un accordo.

Soprattutto, difende la decisione di non portare a processo monsignor Alberto Perlasca, nonostante tutti i testimoni abbiano attribuito a lui il grosso delle decisioni, e nonostante il memoriale dell’arcivescovo Edgar Pena Parra, che prese il posto del Cardinale Becciu come sostituto della Segreteria di Stato nel 2017 parli di un “metodo Perlasca”. Memoriale che alla fine Diddi usa in molte parti, proprio per mettere in luce quello che lui definisce “un sistema” che va contro gli interessi della Santa Sede, ma che cade in contraddizione quando arriva a descrivere Becciu come primo responsabile.

Perlasca, dice Diddi, non è un “supertestimone”, non si sono trovati rilievi di alcun passaggio di denaro nei suoi confronti, e dunque non poteva essere indagato, nonostante l’archiviazione nei suoi confronti abbia destato “perplessità”. E non è nemmeno un superpentito, nonostante le dichiarazioni spontanee che differissero profondamente con le prime dichiarazioni, e nonostante – ma questo non viene citato nella requisitoria – che la sua testimonianza abbia subito duri colpi quando gli interrogatori a Francesca Immacolata Chaouqui e Genevieve Ciferri mostrarono che al limite il monsignore era stato soggetto a pressioni e manipolato.

Come a dire, non ci sono stati due anni di processo, quattro rescritti del Papa che hanno persino cambiato le regole del processo, rogatorie internazionali e persino due perquisizioni eclatanti, una in Segreteria di Stato, dove la Gendarmeria non potrebbe entrare perché il Palazzo Apostolico Vaticano è competenza delle Guardie Svizzera, e una nell’Autorità di Informazione Finanziaria, che, essendo autorità di intelligence, ha delle carte di autorità estere che non possono essere sottoposte a sequestro.

In fondo, queste perquisizioni sono state una rottura dell’ordinamento interno e degli accordi internazionali, tanto è vero che il Gruppo Egmont, che riunisce le Unità di Informazione Finanziaria di tutto il mondo, tagliò l’AIF dal suo circuito di comunicazione sicuro. Ma sono perquisizioni che Diddi rivendica come grandi successi, descrive “l’entusiasmo” della Gendarmeria nel perquisire il “sancta sanctorum” della Segreteria di Stato, ammette di essersi avvicinato all’AIF come in un “fortino”, addirittura ribaltando la prospettiva: non è stata la perquisizione a creare un problema internazionale, è stato l’AIF che lo ha creato perché non ha rispettato le normative. E le normative si riducono al fatto che l’AIF avrebbe dovuto inviare al Promotore di Giustizia una segnalazione di attività sospetta nel momento in cui viene a sapere che la Segreteria di Stato può essere soggetta ad estorsione.

Il ruolo di Torzi

Quella che viene configurata come estorsione è il pagamento a Torzi, in due tranche, di 15 milioni di sterline per la cessione delle mille azioni con diritto di voto del Palazzo di Londra che aveva tenuto per sé e che avevano tolto alla Segreteria di Stato il controllo del palazzo. Torzi chiedeva un compenso per uscire dall’affare, e in prima battuta si occupa della trattativa anche Giuseppe Milanese, amico del Papa e direttore dell’OSA, che però – nota Diddi – “ha anche interesse a piazzare i suoi crediti sanitari”.

Ma è proprio Milanese che porterà Torzi in Vaticano e poi gli farà incontrare Papa Francesco il quale, entrando nella stanza delle trattative – come confermato dallo stesso tribunale vaticano – dirà di “risolvere tutto con il giusto salario” (e sono parole che provengono dall’interrogatorio di Milanese).

Ricostruendo chat e conversazioni di Torzi, nonché il famoso incontro intercettato all’Hotel Bulgari di Milano tra Torzi, Tirabassi e Crasso, Diddi nota che Torzi gioca con le cifre, alzando e diminuendo la quantità dei soldi che lui accetterebbe per uscire dall’affare, in una negoziazione che si colora di toni a volte pecorecci.

Per Diddi, è evidente che si tratta di una estorsione, e che tutti lo sanno, e la prova per lui è che, alla fine, lo studio Mishcon de Reya, che assiste la Segreteria di Stato, segnala una possibile transazione alla NCA, la Unità di Informazione Finanziaria britannica. Segnalazione dovuta, e che comunque mostra crepe nell’operazione. L’Autorità di Informazione Finanziaria vaticana era già stata avvisata, chiede di fare una segnalazione di transazione sospetta alla Segreteria di Stato, attiva cinque UIF estere, tra cui quella del bailato di Jersey, per far luce sulla vicenda.

La Segreteria di Stato ha necessità di chiudere una trattativa diffcile, c’è il rischio di un processo che non si sa dove porta, perché Torzi, in fondo, potrebbe avere le basi per reclamare quello che reclama, ed è meglio trovare un accordo. L’AIF valuta l’operazione, suggerisce come fare per renderla fattibile in termini di antiriciclaggio, annuncia che continuerà a vigilare sul flusso di denaro. È una consulenza ad un organo di governo, e d’altronde chi si sarebbe dovuto segnalare alle autorità, il sostituto che chiedeva di chiudere l’operazione?

Per il Promotore di Giustizia, però, questa mancanza di coinvolgimento della magistratura vaticana, in un momento in cui si sta ancora lavorando di intelligence e per risolvere il problema e non su ipotesi di reato e transazioni sospette, è la prova che l’AIF concorre a perpetuare un sistema, a difendere la Segreteria di Stato anche quando questa si trova a fare operazioni illecite. Anzi, sarà lo IOR a sanare questa irregolarità, insieme all’ufficio del revisore generale, in una denuncia di due pagine che, in pratica, fa partire tutto il procedimento.

Il ruolo dello IOR

La tesi assunta da Diddi è esattamente quella dell’Istituto delle Opere di Religione, che appare accreditato come una sorta di “salvatore della Santa Sede” (anche qui, non sono le parole di Diddi) perché destinava parte dei profitti alla sede apostolica, e anche difensore del patrimonio del Papa, perché rifiuta una operazione di finanziamento che non può fare perché va fuori dai canoni della Pastor Bonus e del regolamento della Curia romana.

Il promotore di Giustizia sposa, dunque, tutta la teoria dello IOR, che è stato il primo denunciante, lamenta gli interventi dell’AIF allo scopo permettere la transazione, e soprattutto sottolinea che no, lo IOR non poteva dare prestiti, perché “il massimo che dà è anticipazioni con la garanzia della cessione del quinto”, ma di certo non può dare prestiti come se fosse una banca, mettendo in luce che, alla fine, anche la formula di “anticipo di liquidità per fini istituzionali” è una sorta di copertura per una operazione che non si può fare.

È una parte di requisitoria che rispecchia il dibattito che c’è stato anche in aula, perché l’AIF a norma di statuto dello IOR ha sempre notato come l’anticipo di liquidità (tra l’altro ad interesse) era possibile, e lo IOR, rifiutando l’interpretazione dell’ente vigilante, ha sempre detto che non era possibile. Addirittura, il presidente del Consiglio di Sovrintendenza Jean-Baptiste de Franssu ha lamentato il comportamento dell’AIF, mentre il direttore dello IOR Gianfranco Mammì ha notato come la valutazione sull’anticipo di liquidità secondo lui era negativa, nonostante in fondo non fosse stata redatta in maniera completamente negativa.

Lo IOR, insomma, non anticipa soldi per evitare un rischio e per non andare contro la sua missione. Ma se si guarda a rischio, l’ultimo bilancio dello IOR pubblicato certifica che lo IOR aveva certamente in pancia il capitale necessario al tempo della richiesta, mentre è dopo che la liquidità dello IOR si è depauperata, fino a dimezzarsi.

E se si guarda alla possibilità, ci sono altri due casi negli ultimi anni in cui l’istituto ha aiutato a ripianare debiti: il prestito di 11 milioni alla diocesi di Terni, contabilizzato nel rapporto IOR 2014 ma precedente alla gestione De Franssu, e quindi la questione che riguarda il monastero benedettino di Dalia, nella diocesi di Porec-Pula, che risolveva un contenzioso tra l’abbazia e la vecchia proprietà del monastero. La vicenda era del 2011, l’aiuto IOR era stato ottenuto nel 2018-2019, quando era già arcivescovo Dražen Kutleša, ora arcivescovo di Zagabria. 

Di fatto, c’è un organo di governo (la Segreteria di Stato) che chiede ad un organo di Stato (lo IOR) una anticipazione per fini istituzionali – tra l’altro autorizzato dal Papa, secondo la testimonianza di Fabrizio Tirabassi. L’organo di Stato, invece di aiutare, decide di denunciare l’organo di governo. E, nella denuncia, porta giù la vigilanza governativa (l’AIF) che cercava di aiutare l’organo di governo a superare una impasse difficile.

L’AIF

Per Diddi, però, l’AIF aveva un disegno che andava al di là il suo ruolo di autonomia e indipendenza, perché entra in campo come un attore in gioco. Non considera né che la Segreteria di Stato è l’organo di governo, né che le azioni dell’AIF sono il tentativo di risolvere un problema, ma non la sua negazione. I testimoni, incluso l’allora capo ufficio AIF e ora vicedirettore Federico Antellini Russo, hanno detto che l’AIF ha attivato 5 Unità di Informazione Finanziaria Estere, che ha contattato due volte la gendarmeria senza risposta, che perseguiva il tracciamento dei fondi. Il capo dell’ufficio vigilanza dell’AIF aveva chiarito che il prestito era legale secondo le regole di vigilanza prudenziale. Anche la questione del diritto canonico non era davvero applicabile al caso, perché non si trattava di una devoluzione, ma di un investimento dello IOR con interessi.

Perlomeno, questo è quanto venuto fuori dalle testimonianze.

Diddi però sottolinea che no, l’AIF avrebbe dovuto avvisare il promotore di Giustizia, segnalare - anche se questo significava, come ha notato Di Ruzza durante l’interrogatorio - segnalare la Segreteria di Stato che aveva chiesto una soluzione per l’operazione, e che in questo si certifica il ruolo non indipendente dell’AIF. Anzi, Diddi lamenta anche l’incarico di consulente antiriciclaggio per la Segreteria di Stato di René Bruelhart, anzi ne mette in luce una sorta di confusione di ruoli.

Sembra quasi, nella requisitoria del promotore, non esistere una separazione dei piani, tanto che si arriva a definire un abuso di ufficio in maniera vaga, sottolineando che non c’è bisogno di un dolo concreto perché questo si configuri.

La Segreteria di Stato

Parte della ricostruzione dei prestiti è fatta dal promotore di Giustizia Perone, che punta su una rappresentazione tecnica e mette in luce come la Segreteria di Stato non sapesse effettivamente delle manovre di Torzi, di quelle di Mincione, nemmeno del mutuo acceso sul Palazzo di Londra. È il motivo per cui la Segreteria di Stato si è costituita parte civile, e cioè quello di stabilire che c’è stato un danno proprio perché ci sono azioni che sono state compiute a detrimento della Segreteria di Stato, causando un dolo.

Di fatto, però, la requisitoria di Diddi, nonostante sottolinei di voler mettere in luce il cattivo comportamento delle persone, è una sorta di destrutturazione del funzionamento dell’istituzione stessa della Santa Sede. In pratica, ogni singolo comportamento istituzionale della Segreteria di Stato è messa in discussione, e questa – come risultato – ha già perso l’indipendenza finanziaria, con tutta la gestione devoluta all’APSA, e ora rischia di perdere anche l’autonomia dell’organo di governo. Se passasse l’idea di Diddi, la Segreteria di Stato dovrebbe avvertire sempre i magistrati, sarebbe sempre sotto scrutinio di autorità interne, e perderebbe quella sua autonomia interna che Paolo VI le aveva guadagnato proprio per garantire alla Chiesa un coordinamento a livello di Curia e un ombrello istituzionale in ambito internazionale.

Le conseguenze

Questo processo ha già avuto delle conseguenze internazionali, inclusa una valutazione del Comitato del Consiglio d’Europa MONEYVAL non così positiva come vuole dire la narrativa vaticana, e le valutazioni del giudice inglese Tony Baumgartner sui metodi di indagine e di interpretazione delle risultanze delle indagini, che non a caso Diddi cita più volte per smentirlo con durezza.

Ora, con la sua requisitoria, Diddi ha messo il diritto canonico in primo piano. Praticamente, l’abuso di ufficio diventa anche un problema di agire morale, ed è probabilmente l’unico modo in cui può configurare il reato, considerando le varie testimonianze.

Non solo, però, viene messo in discussione il sistema vaticano, che pure aveva retto alla prova del tempo nonostante le inevitabili cadute e corruzioni che sono accadute. Viene messa in discussione la Santa Sede, “vaticanizzata” perché soggetta allo Stato di Città del Vaticano, e viene messo in discussione lo stesso impianto dello Stato di Città del Vaticano, che vede includere criteri morali in un procedimento penale.

Sarà da vedere, nei prossimi tre giorni di requisitoria, quale sarà l’impianto accusatorio di Diddi e quali saranno le richieste di condanna. Da qui, si potrà capire quale piega avrà il processo.