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Diplomazia pontificia, verso l’Urbi et Orbi di Natale

Uno sguardo ai possibili temi dell’Urbi et Orbi di Natale di Papa Francesco. Dall’’Ucraina al Myanmar, ecco di cosa potrebbe parlare il Papa

Papa Francesco, Urbi et Orbi | Papa Francesco durante l'Urbi et Orbi di Natale 2021 | Daniel Ibanez / ACI Group Papa Francesco, Urbi et Orbi | Papa Francesco durante l'Urbi et Orbi di Natale 2021 | Daniel Ibanez / ACI Group

Quali saranno i temi dell’Urbi et Orbi di Natale di Papa Francesco? Dal punto di vista diplomatico, la domanda non è banale. Da ciò che si sceglie di menzionare e ciò che si sceglie di non menzionare nell’urbi et orbi si possono comprendere quali siano state le priorità della diplomazia pontificia nel corso dell’anno, e si può azzardare anche qualche previsione per il futuro.

Difficile, però, prevedere quale sarà la scelta del Papa, che a volte cita le nazioni per nome, altre volte raggruppa situazioni diverse ma simili per area geografica. C’è, però, un termometro particolare per prevedere alcuni dei temi dell’Urbi et Orbi: gli appelli che Papa Francesco, nel corso dell’anno, ha fatto dopo l’Angelus e al termine delle udienze generali del mercoledì, che possono essere delineati come una vera geopolitica della prossimità del Papa alle diverse situazioni nel mondo.

                                                FOCUS URBI ET ORBI

Ucraina

La guerra in Ucraina avrà certamente uno spazio particolare nel messaggio che il Papa lancerà all’Italia e al mondo. C’è anche un dato simbolico importante: il 24 dicembre, la vigilia di Natale, comincerà il decimo mese di guerra nel Paese, e una conclusione non sembra avere fine.

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Al momento in cui scrivo, Papa Francesco ha fatto, dopo gli Angelus e al termine delle udienze generali, qualcosa come 105 appelli sulla guerra in Ucraina.

Gli appelli del Papa hanno avuto momenti altalenanti, e non sempre quello che ha detto il Papa è stato universalmente apprezzato. Nemmeno l’Angelus tutto dedicato alla questione ucraina del 2 ottobre scorso ha avuto il potere di calmare le acque.

Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, infatti, in una conversazione con ACI Stampa e altri media internazonali aveva fatto notare che il Papa aveva chiesto al presidente Zelensky di essere “aperto a serie proposte di pace”, come se da parte ucraina non ci fosse mai stata apertura.

D’altro canto, Papa Francesco ha più volte ribadito di non voler andare a Kyiv se questo non si combinerà con una tappa a Mosca, dove tra l’altro nessun Papa è mai stato.

La posizione del Papa è stata, alla fine, altalenante, sebbene negli ultimi tempi abbia cominciato a riferirsi all’Ucraina come “martoriata ucraina”, facendo riferimento anche alle morti di civili e bambini nel Paese anche in una toccante lettera al popolo ucraino per i nove mesi di conflitto.

È un Papa più sbilanciato da parte ucraina? O le sue nuove azioni sono dettate da una agenda di opportunità, considerando che le dichiarazioni estemporanee hanno creato una forte frattura tra il Papa e le popolazioni russa e ucraina allo stesso modo.

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L’Urbi et Orbi di Natale di certo affronterà la crisi in Ucraina, toccherà il tema della crisi energetica (c’è anche un paper della COMECE su questo tema), affronterà la necessità del popolo ucraino di essere resiliente. Ma cercherà anche di tendere una mano alla Russia, nonostante l’aggressione che il Papa non ha mancato di nominare con il suo nome recentemente.

Di certo, il Papa ha cambiato approccio, diventando più critico verso l’aggressione e di supporto verso gli ucraini. Il discorso di inizio anno al corpo diplomatico sarà un banco di prova importante, perché stabilirà una linea. Continuerà, il Papa, a cercare una equivicinanza tra Russia e Ucraina, cercando, con dichiarazioni a volte azzardate, di non offendere i russi? Mostrerà una analisi equilibrata della situazione? Oppure si concentrerà solo sul piano pastorale?

Possibile anche una richiesta alle religioni di impegnarsi insieme per la pace. In questo senso, il viaggio in Kazakhstan e quello in Bahrein potrebbero essere un esempio da dare, e non sarebbe la prima volta che Papa Francesco indica i viaggi come metodo diplomatico.

La questione nel Caucaso

La menzione della situazione nel corridoio di Lachin alla fine dell’Angelus dello scorso 18 dicembre ha riportato l’attenzione del Papa sulla situazione nel Caucaso, e in particolare quella che riguarda il Nagorno Karabakh, che l’Armenia chiama con il suo antico nome Artsakh.

Il corridoio di Lachin è l’unico canale di comunicazione tra la Repubblica dell’Artsakh e la capitale armena Yerevan. Si tratta di una strada di appena cinque chilometri, che però resta l’unico canale di rifornimenti per l’Artsakh, un territorio nel territorio azerbaijano. Dal 12 dicembre, circa 120 attivisti ecologisti, che pare siano in realtà sostenuti e incoraggiati all’azione dal governo azerbaijano, hanno bloccato il canale di accesso, creando una condizione umanitaria difficilissima per gli abitanti della regione.

La guerra in Nagorno Karabakh ha radici lontane. Il territorio del Nagorno Karabakh era stato infatti assegnato all’Azerbaijan dall’Unione Sovietica, e si era poi proclamato indipendente al momento della dissoluzione dell’URSS, proclamando la sua identità armena. Nel corso del secolo scorso, è stata più volte denunciata la sistematica distruzione di patrimonio cristiano storico nel territorio, definito da alcuni studiosi come un genocidio culturale, come è stata denunciata anche la volontà azera di riscrivere la storia etnica del territorio esaltandone le radici albaniano-caucasiche.

Da parte azera, si lamenta invece che l’Armenia reclami una presenza che è solo successiva alla presenza degli albaniani, e viene denunciata la distruzione di moschee durante il periodo in cui il Nagorno Karabakh aveva mantenuto una autonomia, sebbene mai riconosciuto come Stato nemmeno dall’Armenia.

L’ultimo conflitto tra Azerbaijan e Armenia si è concluso con un doloroso accordo che ha portato la perdita di diversi territori da parte dell’amministrazione armena, dove tra l’altro c’erano storici monasteri la cui integrità è sorvegliata dalle truppe di pace russe. Ma questo vale anche per il corridoio di Lachin, che ha delle eredità cristiane, ma che soprattutto dovrebbe essere preservato dalla Dichiarazione Trilaterale che pose fine al conflitto.

Il blocco è stato poi rimosso dopo alcuni giorni, ma resta la gravità della situazione, definita dallo special advisor dell’ONU per la prevenzione dei genocidi come possibile preliminare di un genocidio.

Va sottolineato anche che la Santa Sede punta alla conservazione del patrimonio cristiano della regione, messo fortemente a rischio dalla nuova situazione. A questo proposito, va ricordao che “il 14 dicembre 2021, la Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato all’Azerbaijan di prevenire e punire atti di vandalismo e profanazione contro l’eredità culturale armena in Nagorno Karabakh.

Il 17 marzo 2022, l’Unione Europea ha emesso una risoluzione contro la distruzione del patrimonio cristiano.

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Perù

Papa Francesco ha affrontato anche i disordini in Perù durante l’Angelus del 18 dicembre. La situazione in Perù è esplosa il 13 dicembre, dopo la destituzione e l’arresto del presidente Pedro Castillo. In una settimana, gli scontri tra esercito, polizia e sostenitori del presidente hanno causato 25 morti e 700 feriti. I dati sono dell’ufficio del Difensore Civico Peruviano, che sottolinea anche come venti persone siano morte direttamente negli incidenti con le forze dell’ordine e cinque in eventi legati ai blocchi stradali. Sono rimasti feriti anche 290 poliziotti e 279 civili non coinvolti negli scontri.

Pedro Castillo era presidente “contadino” e marxista del Perù dal luglio 2021. La comunità indigena e rurale peruviana lo amava molto. Lo scorso 7 dicembre aveva annunciato lo scioglimento del Parlamento, secondo quello che gli oppositori hanno definito un colpo di Stato. Per questo, l’8 dicembre è stato votato l’impeachment del presidente, che è stato arrestato e condannato a 18 anni di carcere, che potrebbero essere in realtà dieci.

Papa Francesco probabilmente non affronterà il tema del governo, molto complesso. Ma potrebbe, come ha già fatto in altri urbi et orbi, fare un riferimento alla situazione critica in America Latina e Centrale, chiedendo che le tensioni sociali siano ricomposte con il dialogo.

La questione Nicaragua

Una menzione potrebbe comunque averla il Nicaragua. L’ultimo appello per il Paese è arrivato il 21 agosto, dopo un Angelus. Era il periodo in cui era stato arrestato il vescovo di Matagalpa Rolando Alvarez insieme ad altri quattro sacerdoti. Alvarez è tuttora agli arresti domiciliari, gli altri sacerdoti sono sotto processo.

Papa Francesco disse di seguire “da vicino, con preoccupazione e dolore, la situazione creatasi in Nicaragua, che coinvolge persone e istituzioni. Vorrei esprimere la mia convinzione e il mio auspicio che, per mezzo di un dialogo aperto e sincero, si possano ancora trovare le basi per una convivenza rispettosa e pacifica”.

Il conflitto sociale in Nicaragua è aperto da quattro anni, dalle proteste scoppiate ad aprile 2018 a seguito dell’annuncio di una riforma delle pensioni annunciata dal governo Ortega. Da allora, molte cose sono successe: i vescovi sono stati prima coinvolti nel dialogo nazionale, poi oggetto di attacchi da parte del governo e persino di violenza. Il nunzio, l’arcivescovo Waldemar Sommertag, è arrivato mentre gli scontri avevano l’apice, e prima è stato molto coinvolto in attività di mediazione e rispettato, ottenendo anche in alcuni casi la liberazione dei prigionieri, e poi, in maniera definita dalla Santa Sede “inspiegabile”, il 12 marzo è stato espulso dal Paese, dove tra l’altro è stata abolita la figura del decano del corpo diplomatico, incarico che, per tradizione e convenzione, spetta sempre al nunzio apostolico nel Paese. Sommertag è stato poi destinato ad altra nunziaura.

La situazione per la Chiesa nel Paese si è particolarmente aggravata negli ultimi mesi: il vescovo Baez, ausiliare di Managua, è stato da tempo richiamato a Roma dal Papa, che ne ha voluto salvare la vita; alcune missionarie di Madre Teresa sono state espulse nel giro di poche ore con l’accusa di favorire il terrorismo e altro; riviste, giornali e tv della Chiesa locale chiusi con ordini amministrative; centinaia di prigionieri politici; candidati alla presidenza in galera.

Tornando dal viaggio in Kazakhstan, nella conferenza stampa in aereo dello scorso 15 settembre, il Papa ha sottolineato che “sul Nicaragua, le notizie sono chiare, tutte. C’è dialogo, in questo momento c’è dialogo. Si è parlato con il governo, c’è dialogo. Questo non vuol dire che si approvi tutto quel che fa il governo o che si disapprovi tutto. No. C’è dialogo, e quando c’è dialogo è perché c’è bisogno di risolvere dei problemi. In questo momento ci sono dei problemi. Almeno io mi aspetto che le suore di Madre Teresa di Calcutta tornino. Queste donne sono brave rivoluzionarie, ma del Vangelo! Non fanno la guerra a nessuno. Anzi, tutti abbiamo bisogno di queste donne. Questo è un gesto che non si capisce… Ma speriamo che tornino e si risolva. Ma continuare con il dialogo. Mai, mai fermare il dialogo. Ci sono cose che non si capiscono. Mettere in frontiera un Nunzio è una cosa grave diplomaticamente, e il Nunzio è un bravo ragazzo che adesso è stato nominato da un’altra parte. Queste cose sono difficili da capire e anche da ingoiare."

Probabilmente, il Papa farà dunque una menzione sul Paese nell’urbi et orbi, come già successo negli ultimi quattro anni. Da vedere se sarà inserito in una lista di Paesi, se l’accenno sarà indiretto, o se invece definirà chiaramente la situazione.

Libano

Da tempo, Papa Francesco accarezza il desiderio di un viaggio in Libano, e questo sarebbe potuto avvenire lo scorso giugno, quando era programmata anche una tappa finale a Gerusalemme per un incontro con il Patriarca di Mosca Kirill. Il viaggio non ci fu, e anche l’incontro fu annullato per “ragioni di opportunità”, come ammise il Papa parlando al Corriere della Seraeffettivamente, non si trattava di un vero annullamento dato che il viaggio non era stato ancora annunciato.

Ora, con la nuova crisi politica nel Paese e le dimissioni del presidente, si allontana di nuovo l’opportunità di un viaggio del Papa in Libano. Il Papa, comunque, non ha mai mancato di mostrare attenzione e sollecitudine per il Libano, definito, sulla scorta di San Giovanni Paolo II, un Paese “messaggio” per il dialogo nella regione.

Lo scorso 3 agosto, parlando all’Angelus, Papa Francesco ricordò anche il secondo anniversario dell’esplosione al porto di Beirut, auspicando che “il Libano, con l’aiuto della Comunità internazionale, continui a percorrere il cammino di rinascita, rimanendo fedele alla propria vocazione di essere terra di pace e pluralismo, dove le comunità di religioni diverse possano vivere in fraternità”.

Terrasanta

Se uno sguardo al Paese dei Cedri è possibile nell’urbi et orbi di Papa Francesco, è certo che ci sarà un accenno alla Terrasanta. C’è sempre, e da sempre, in ogni urbi et orbi del Papa, e specialmente in quelli di Natale, dove tutto parte proprio dalla nascita di Gesù.

Prima di Natale, durante la festa di Hannukah, Papa Francesco ha incontrato le famiglie di quattro israeliani, due catturati e due uccisi da Hamas a Gaza. Nessuno dei quattro è tornato a casa, né da vivo né dopo la morte, e dopo otto anni e mezzo si spera in un intervento del Papa per sbloccare la situazione.

Allo stesso tempo, la Chiesa ha guardato con attenzione alla situazione a Gaza, chiedendo più volte il rispetto dei diritti umani. Le Chiese in Terrasanta hanno anche denunciato le acquisizioni da parte di coloni israeliani alla Porta di Jaffa, che andrebbero a bloccare l’accesso dei pellegrini alla città.

La Santa Sede, da sempre, chiede un rispetto dello status quo, ovvero dell’accordo internazionale che dal XIX secolo regola la gestione dei luoghi santi, e la soluzione dei due popoli – due Stati da applicare alla questione israelo-palestinese. Il dialogo è costante con entrambe le parti.

Il Papa chiederà probabilmente ancora una volta di portare avanti la soluzione dei due popoli e due Stati e di lavorare sul dialogo tra le parti. C’è anche una idea, accarezzata dalla diplomazia della Santa Sede, di avere uno status internazionale per Gerusalemme.

In ogni caso, Israele e Santa Sede potranno festeggiare trenta anni di relazioni diplomatiche il prossimo anno, e questo sarà un anniversario e un punto di svolta importante. Tra l’altro, si spera sempre di poter concludere gli accordi attuativi dell’Accordo Fondamentale tra Israele e Santa Sede, della cui definizione non si parla ormai da troppo tempo.

Siria

Papa Francesco non manca mai di menzionare la Siria quando parla delle guerre dimenticate. Alla Siria, Papa Francesco dedicò la prima iniziativa diplomatica del suo pontificato, proclamando una giornata di preghiera e di digiuno per la pace nel Paese. In quell’occasione – era il 2013 – l’allora arcivescovo Dominique Mamberti, che ricopriva la carica di “ministro degli Esteri” vaticano – sviluppò anche la “road map” della Santa Sede per la soluzione del conflitto in Siria, descrivendolo sia in un incontro con gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, sia in un briefing tenuto con i giornalisti in Sala Stampa della Santa Sede.

Prima di questa giornata, l’1 settembre 2013, Papa Francesco dedicò a sorpresa l’intero Angelus alla situazione siriana, cosa che ha poi ripetuto solo per la guerra in Ucraina. In genere, infatti, gli appelli sono contenuti nel dopo Angelus, mentre prima dell’Angelus c’è sempre il commento al Vangelo del giorno.

Interessante notare che i tre incontri che il presidente russo Vladimir Putin ha avuto con Papa Francesco hanno avuto tra i temi proprio quello della risoluzione del conflitto in Siria, questione in cui la Federazione Russa sembrava un partner fondamentale per la Santa Sede. Anche l’incontro di Papa Francesco con il Patriarca Kirill all’Avana il 12 febbraio 2016 vide, nel comunicato finale, un accenno alla questione siriana, e in particolare ai due vescovi ortodossi che erano stati rapiti nel Paese. In Siria è scomparso anche padre Paolo Dall’Oglio, che dal santuario di Mar Musa aveva lanciato iniziative di dialogo interreligioso, e che – espulso dalla Siria – vi era rientrato clandestinamente.

Il 14 aprile 2018 l'agenzia russa Tass informò sulla conversazione telefonica tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill.

Secondo l’agenzia, Kirill aveva affermato: "Siamo consapevoli che i cristiani non possono rimanere indifferenti di fronte a ciò che avviene in Siria. Il nostro è stato un chiaro dialogo di pace". Era stato lo stesso Patriarca a rivelarlo ai giornalisti nella sua residenza a Peredelkino.
Sempre secondo l'agenzia Tass, il 14 aprile di quasi quattro anni fa il Patriarca Kirill aveva “parlato telefonicamente con altri leader religiosi tra cui il Patriarca Bartolomeo, Papa Tawadros di Alessandria e, infine, Giovanni, Patriarca di Antiochia”.

"Il nostro è stato un dialogo significativo sulla pace" aveva aggiunto il Patriarca per poi ricordare, ancora una volta, la rilevanza delle terre mediorientali dove è nato il Cristianesimo, i conflitti in atto nella regione e le continue minacce e attacchi alla presenza cristiana.

Kirill aveva anche detto all’agenzia Tass che lui e Papa Francesco avevano “condiviso le stesse preoccupazioni sulla situazione in Siria”, e avevano “anche parlato sul come i cristiani dovrebbero influenzare il corso degli eventi con lo scopo di far cessare le violenze, fermare la guerra, evitando ancora altre vittime".

Sembrano passate ere geologiche da quel tipo di collaborazione, considerando la posizione che il Patriarca Kirill ha ora preso sulla guerra in Ucraina e il brusco stop al dialogo con il Papa, che aveva fatto sapere in una intervista di essersi lamentato con Kirill che “non siamo chierici di Stato”.

Tra l’altro, il nunzio in Siria, il Cardinale Mario Zenari, è ora giunto alla soglia degli 80 anni e, sebbene per i nunzi non ci sia una data di fine incarico (ma i nunzi possono chiedere di andare in pensione a partire dai 70 anni, invece che 75), si comincia a pensare anche a un nuovo rappresentante del Papa nel Paese.

Yemen

Papa Francesco, in tutte le interviste, non manca di citare la guerra dimenticata dello Yemen. La situazione lì è sempre critica, dopo otto anni di guerra brutale, nonostante un accordo per una tregua di due mesi che si era raggiunto lo scorso aprile.

La Chiesa osserva con attenzione la situazione. Dal punto di vista diplomatico, potrebbe cambiare l’attività della Santa Sede nel Paese l’imminente apertura delle relazioni diplomatiche con l’Oman, annunciata da una recente telefonata tra il Segretario per i Rapporti con gli Stati, l’arcivescovo Gallagher, e il ministro degli Esteri del sultanato Sayyd Badr.

Vale la pena ricordare che il Sultanato di Oman aiutò nella liberazione di padre Tom Uzhunnalil, il sacerdote salesiano rapito da terroristi yemeniti e tenuto prigioniero per diversi mesi a seguito di un attacco terroristico che aveva portato al massacro delle suore che vivevano con lui.

Myanmar

Altra situazione che Papa Francesco non manca mai di menzionare è quella del Myanmar. Nel 2017, la Santa Sede aprì relazioni diplomatiche con il Paese, il ministro degli Esteri Aun San Suu Kyi fu in visita in Vaticano e ci fu poi una visita di Paap Francesco, che aprì il viaggio proprio con l’incontro con i vertici militari dell’esercito. Era uno dei suggerimenti che gli era arrivato dal Cardinale Charles Maung Bo a Papa Francesco prima del viaggio.

Dopo qualche anno, le cose sono cambiate drasticamente, i militari hanno ripreso il controllo del Paese e di nuovo imprigionato Aung San Suu Kyi e continuano ad attaccare villaggi. La situazione dei Rohingya, minoranza islamica rimpallata da territorio in territorio, è sempre nel cuore del Papa, ma non è l’unico problema.

Tuttavia, lo scorso 2 febbraio il Papa aveva ricordato il primo anniversario delle “violenze che insanguinano il Myanmar”, facendo suo l’appello dei vescovi del Paese “affinché la comunità internazionale si adoperi per la riconciliazione tra le parti interessate.

Il 19 giugno, poi, il Papa aveva notato “il grido di dolore di tante persone a cui manca l’assistenza umanittaria di base e che sono costrette a lasciare le loro case perché bruciate e per sfuggire alla violenza”.

Altri appelli

La crisi umanitaria in Eritrea, che ha portato ad una discriminazione e persino all’arresto del vescovo Hagos due mesi fa, avrà probabilmente uno spazio. Così come la situazione in Nigeria, problematica da tempo che ha visto tre sequestri di sacerdoti in cinque giorni – l’ultimo è stato Padre Mark Ojotu, della Diocesi cattolica di Otukpo, rapito il 22 dicembre lungo la Okpoga-Ojapo Road, nello Stato di Benue. Si stima ci siano stati 30 sequestri di sacerdoti in un anno.

Il 22 giugno, Papa Francesco aveva affrontato la situazione del Messico, e in particolare dell’uccisione di due gesuiti, commentando: “Quante uccisioni in Messico”.

Il 10 luglio, Papa Francesco aveva affrontato anche la situazione dello Sri Lanka, notando che il Paese continuava a subire “instabilità politica ed economica”. Tra l’altro, la Chiesa chiede da tempo giustizia per le stragi di Pasqua, che vedrebbero coinvolte anche coperture del governo.

Il tema Libia potrebbe anche essere della partita, anche perché la situazione in Libia si lega a doppio filo con ila questione migratoria.