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Diplomazia pontificia, verso l’Urbi et Orbi di Pasqua

Sempre molto attesa la benedizione Urbi et Orbi, durante la quale il Papa fa generalmente una ampia panoramica della situazione internazionale

Papa Francesco, Basilica di San Pietro | Papa Francesco nella Basilica di San Pietro durante l'Urbi et Orbi di Pasqua 2020 | Vatican News Papa Francesco, Basilica di San Pietro | Papa Francesco nella Basilica di San Pietro durante l'Urbi et Orbi di Pasqua 2020 | Vatican News

Dalla via di uscita alla pandemia ai conflitti nel mondo, dalla persecuzione dei cristiani all’attenzione per gli ultimi e gli emarginati: cosa aspettarsi dall’Urbi et Orbi di Papa Francesco nel giorno di Pasqua? Anche se il messaggio a Roma e al mondo non verrà, per il secondo anno consecutivo, pronunciato dal balcone della Loggia delle Benedizioni, ma all’interno della Basilica Vaticana, in una atmosfera meno festosa e meno partecipata, le parole del Papa alla città di Roma e al mondo intero hanno sempre un certo impatto.

Di cosa parlerà dunque il Papa? Una idea si può avere dagli appelli che ha fatto recentemente al termine delle udienze generali e nelle preghiere dell’Angelus: c’è la difficile situazione in Nigeria, quella in Myanmar, anche il conflitto nel Caucaso. Ma c’è anche il Sud Sudan, sempre guardato da Papa Francesco con un occhio di riguardo; la costruzione del mondo post pandemia, con una particolare alla destinazione universale dei vaccini, in particolare dei più poveri; il conflitto israelo-palestinese, sempre menzionato dal Papa nei messaggi che hanno anche una ricaduta diplomatica. E ancora: il conflitto in Mozambico, il recente attentato della Domenica delle Palme in Indonesia. Alcuni dei temi si possono trovare nelle recenti attività della Santa Sede, delle nunziature, delle ambasciate presso la Santa Sede, di alcuni episcopati. Ecco i principali della scorsa settimana.

                                                FOCUS CAUCASO

Armenia, il ministro degli Affari Esteri a colloquio con l’arcivescovo Gallagher

Il Ministero degli Affari Esteri armeno ha comunicato che lo scorso 31 marzo Ara Aivazian, ministro degli Affari Esteri, ha avuto una conversazione telefonica con l’Arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario delle relazioni con gli Stati vaticano.

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Secondo il ministero, Aivazian ha “riaffermato che l’Armenia ha pronta ad approfondire ulteriormente e rafforzare le relazioni con la Santa Sede sulla base dei valori storici e universali che condividono pienamente. Hanno anche scambiato vedute sui passi da prendere per rafforzare il dialogo e i contatti di alto livello”.

Il ministero ha anche reso noto che durante la conversazione si è parlato anche “della sicurezza e della stabilità della regione”, e che il ministro degli Esteri ha ricordato come Papa Francesco abbia chiesto “la fine delle ostilità e la pace nel periodo post guerra”.

Aivazian – si legge ancora nella nota – ha spiegato all’arcivescovo Gallagher “i passi fatti per affrontare le questioni umanitarie” in quello che viene definita come “una aggressione turco-azera”; ha notato l’urgenza di “un sicuro rimpatrio dei prigionieri armeni”; ha “condannato con forza l’urgenza di preservare l’eredità religiosa e culturale armena nei territori sotto il controllo dell’Azerbaijan”; ha enfatizzato l’intervento della comunità internazionale”.

Sempre sul fronte del conflitto del Nagorno Karabakh (Artssakh in Armeno) è da segnalare che il Dipartimento di Stato USA ha pubblicato lo scorso 30 marzo il Rapporto 2020 sulle Pratiche Umanitarie, e ha dedicato anche una disamina alla situazione in Nagorno Karabakh.

Il rapporto parla di “significativi problemi umanitari” degli azeri, tra cui “uccisioni illegali o arbitrarie; torture; detenzione arbitraria; condizioni di detenzione difficili e a volte a rischio della vita”. Inoltre, il rapporto fa specifica menzione della situazione in Nagorno Karabakh, sottolinea che “il governo non ha sanzionato o punito la maggioranza degli officiali che hanno commesso abusi umanitari”,

Il rapporto del Dipartimento di Stato USA segnala anche due video diffusi riguardo degli abusi di alcuni soldati azeri “umiliati e uccisi” nella città di Hadrut, video considerato “genuino e autentico” da esperti e indipendenti, e lamenta “l’uso di missili di artiglieria, droni e bombe, nonché munizioni a grappolo che hanno colpito civili e zone civili nel Nagorno Karabakh”, accuse di aver colpito strutture civili “negate” comunque dal governo azero.

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Il rapporto ha anche una sezione su “soldati e civili abusati dalle forze azere”, che si basa su rapporti definiti “credibili”, documentando un gran numero di persone e prigionieri di guerra.

La posizione dell’Azerbaijan

Ma come nasce il conflitto del Nagorno Karabakh? La regione, a maggioranza armena, era stata data all’Azerbaijan su decisione di Stalin. Nel momento in cui l’Azerbaijan aveva deciso di lasciare l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, un referendum aveva costituito il nuovo stato della federazione. Gli azeri reagirono militarmente, e ci fu un accordo di cessate il fuoco nel 1994. Da allora, le tensioni sono rimaste latenti, e sono arrivate quasi ad un aperto conflitto lo scorso agosto, e poi ad un vero e proprio conflitto che si è concluso con un accordo doloroso per gli armeni, i quali hanno visto molti monasteri storici passare sotto la giurisdizione azera.

Da allora, è stata lamentata una perdita del patrimonio cristiano nella regione, secondo una distruzione considerata sistematica da diverso tempo. Recentemente è stata segnalata da un reportage della BBC la scomparsa di una chiesa armena nei territori ora sotto il controllo azero.

Mammad Ahmadzada, ambasciatore di Azerbaijan presso l’Italia, ha voluto sottolineare con ACI Stampa che la regione del Nagorno Karabakh ha anche una storia che lo lega all’Azerbaijan. “Dai tempi antichi fino all’occupazione dell’Impero zarista nel 1805 con il trattato di Kurakchai – scrive Ahadzada - questa regione era parte di diversi stati azerbaigiani, da ultimo il khanato di Karabakh. Nel 1828, alla firma del trattato di Turkmanchay, al termine della guerra Russia- Iran, seguì un massiccio trasferimento di armeni nel Caucaso del Sud, in particolare nei territori

dei khanati azerbaigiani di Irevan (attuale Yerevan, capitale dell’Armenia) e di Karabakh. Il flusso migratorio è proseguito fino all’inizio del XX secolo”.

L’ambasciatore lamenta che lo Stato di Armenia è stato “creato nel territorio dell’Azerbaijan”, e “ampliato durante il periodo sovietico a spese della superficie azerbaijana”, mentre la provincia del Nagorno Karabakh fu creata nel 1923 con “confini amministrativi definiti in modo che gli armeni fossero etnia maggioritaria”.

L’amabasciatore accusa l’Armenia di “non aver riconosciuto autonomia per la minoranza azerbaijana”, e anzi ha promosso “un clima di intolleranza”, fino nel 1988 ad avviare “rivendicazioni territoriali contro l’Azerbaijan”, deportando allo stesso tempo tutti gli ultimi azerbaigiani (più di 250 mila) in Armenia dalle loro terre natali”. 

Per Ahmadzada “le radici del conflitto sono dunque nel trasferimento degli armeni nei territori azerbaigiani, oltre che nella decisione di creare una provincia autonoma nella parte montuosa della regione del Karabakh dell’Azerbaigian”.

L’ambasciatore parla di una “occupazione armena” dei territori azeri dopo la dissoluzione dell’URSS, denuncia “un genocidio contro civili azerbaigiani nella

città di Khojali”, sottolinea che il conflitto ha “causato più di un milione di rifugiati e profughi azerbaigiani, senza lasciare un singolo azerbaigiano nei territori occupati”.

Ahmadzada afferma che l’ultimo conflitto nasce da provocazioni armene, che ora l’Azerbaijan ha già avviato nei territori acquisiti al termine del conflitto “un’imponente opera di ricostruzione, nel pieno rispetto e protezione della cultura e della diversità religiosa”.

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Riguardo la chiesa scomparsa, l’ambasciatore sottolinea che “la cappella è stata

costruita nel 2017 durante il periodo in cui l’Armenia stava distruggendo le case e il patrimonio culturale degli azerbaigiani a Jabrayil e in altri territori occupati dell’Azerbaigian, da dove tutti gli azerbaigiani erano stati espulsi dall’esercito dell’Armenia”.

La cappella – dice l’ambasciatore, citando l’OSCE – era stata costruita “come parte di un complesso militare a Jabrayil”, e per questo “non può essere considerata parte della storia culturale”. Piuttosto, l’ambasciatore lamenta le distruzioni armene nella regione, denunciando che l’Armenia “ha condotto una pulizia culturale e numerosi crimini di guerra nei territori un tempo occupati, inclusa la distruzione di 927 biblioteche, più di 60 moschee, 44 templi, 473 siti storici, palazzi e musei”, e allo stesso tempo “non ha permesso alle missioni internazionali di visitare i territori occupati”, nonostante l’Azerbaijan abbia chiesto all’UNESCO una missione di accertamento.

                                                FOCUS MEDIO ORIENTE

Iraq, un comitato per raccogliere i frutti della visita di Papa Francesco

Secondo la testata Araby Al Jadeed, che cita “fonti di alto livello”, il governo iracheno avrebbe incaricato un comitato interminisetriale di sviluppare i suggerimenti e le proposte emersi durante la visita di Papa Francesco in Iraq. Il Papa è stato in Iraq dal 5 all’8 marzo scorsi, e già durante il viaggio il governo aveva dichiarato il 6 marzo – giorno in cui il Papa aveva fatto visita al Grande Ayatollah al Sistani ed aveva presieduto una preghiera interreligiosa sulla piana di Ur – come Giornata della Coesistenza.

Le raccomandazioni di cui si starebbe discutendo riguardano anche delle situazioni emerse nei colloqui di Papa Francesco con il Presidente iracheno Barham Salih e con il Premier Mustafa al Kadhimi durante la visita papale, e riguardano in particolare soluzioni a problemi di sicurezza, sostenibilità economica e ricostruzione post-bellica che pesano in particolare sulla condizione delle comunità cristiane e su altre componenti sociali soprattutto nei governatorati di Ninive e di Baghdad. Nei suoi due incontri con Papa Francesco in Vaticano, il presidente Salih ha sempre sostenuto la necessità di un ritorno dei cristiani nella Piana di Ninive, per una pronta ricostruzione che non riguarda solo gli edifici, ma anche il tessuto sociale.

Tra le questioni aperte, anche quella delle proprietà immobiliari sottratte illegalmente alle famiglie cristiane. C’è, tra l’altro, una iniziativa del leader sciita Moqtada al Sadr, a capo della formazione politica sadrista, il quale ha stabilito un comitato ad hoc per verificare notizie e reclami ed eventualmente restituire proprietà ai cristiani. La sottrazione illegale di proprietà era avvenuta anche attraverso episodi di corruzione. Secondo il sacerdote Albert Hisham, dell’ufficio comunicazione del Patriarcato caldeo, fino ad oggi – ha riferito ad Al Araby - non sono state fornite notizie precise e ufficiali su avvenute restituzioni ai legittimi proprietari di beni sottratti illegalmente a famiglie cristiane irachene, e non sono state ancora rese note nemmeno eventuali procedure e diposizioni messe in atto a tal riguardo dal governo di Baghdad.                                   

                                   FOCUS SEGRETERIA DI STATO

Il Cardinale Parolin in Venezuela a fine aprile

Sarà il Cardinale Pietro Parolin l’inviato di Papa Francesco per la cerimonia di beatificazione di José Gregorio Hernandez Cisneros, conosciuto in Venezuela come “il medico dei poveri” – una causa di beatificazione cui Papa Francesco tiene molto, ma per cui si è speso anche il Cardinale Parolin, che è stato nunzio in Venezuela dal 2009 al 2013.

In genere, le beatificazioni sono presiedute dal prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, che è in questo momento è il Cardinale Marcello Semeraro.

L’invio del Cardinale Parolin da parte del Papa ha però un duplice significato: invia un prelato che conosce il Paese, e allo stesso tempo invia il suo Segretario di Stato in un Paese che la Santa Sede segue con attenzione da sempre.

In questo modo, il Papa vuole mostrare che intende continuare ad avere un dialogo con il Venezuela, ed è data tra le possibilità anche una riunione tra il Cardinale Parolin e il presidente Nicolas Maduro.

La Santa Sede ha mandato un suo rappresentante – ma non il nunzio – all’insediamento della presidenza Maduro, dimostrando da una parte la volontà di fare un ponte (la Santa Sede non interrompe mai le relazioni diplomatiche), e dall’altra che la Santa Sede comprendeva anche le proteste e la situazione particolare del Paese.

La Santa Sede aveva inizialmente operato una mediazione tra Maduro e l’opposizione, e Papa Francesco aveva inviato l’arcivescovo Claudio Maria Celli come suo inviato speciale. Ma la mediazione non funzionò. Il Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, in più occasioni ha incontrato esponenti dell’opposizione venezuelana in Segreteria di Stato, mentre la Conferenza Episcopale Venezuelana è venuta due volte da Papa Francesco a portare i problemi della gente.

Nel 2019, in una conferenza stampa in aereo, Papa Francesco spiegò che che “la Santa Sede è disponibile a mettersi a capo di una mediazione, ma le condizioni iniziali sono che le due parti la chiedano”.

Il Cardinale Parolin inviò nel 2016 una lettera al presidente Maduro, con una serie di pre-condizioni necessarie ad un dialogo veritiero in Venezuela: cibo e medicine per tutti, un calendario elettorale da concordare, la restituzione all’Assemblea Nazionale del ruolo per essa prevista dalla Costituzione, la liberazione dei prigionieri politici.

L’arcivescovo Gallagher sulla Siria

Si è tenuta il 30 marzo la conferenza Supporting the Future of Syria and the Region, organizzata dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite. La Santa Sede è intervenuta con l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ministro vaticano per i Rapporti con gli Stati.

Nel suo intervento, l’arcivescovo Gallagher ha riaffermato l’impegno per il popolo della Siria, un impegno riconfermato nel tempo in questi dieci anni di conflitto. E in particolare la Chiesa cattolica “ha dato particolare importanza alla sua risposta ai bisogni umanitari della popolazione. Più di ottanta istituzioni cattoliche intervengono in diversi settori in solidarietà con molteplici attori e istituzioni in Siria e nei paesi limitrofi, impiegando circa 6.000 professionisti e oltre 8.000 volontari, che si aggiungono alla rete di sacerdoti e religiosi presenti nei vari territori”.

L’arcivescovo Gallagher lancia l’allarme: “Gli aiuti umanitari per la regione non possono continuare a essere destinati solo a far fronte ai bisogni immediati. Oggi più che mai occorre realizzare programmi a medio e lungo termine per la riabilitazione, la pacificazione e lo sviluppo. Tali programmi sono necessari per ricostruire il tessuto sociale del paese e avviare la sua ripresa economica”.

L’impegno della Chiesa può essere quantificato in 2 miliardi di dollari USA, che hanno raggiunto 4,5 milioni di beneficiari l’anno, e più di 2 milioni nella sola Siria. Eppure, questi aiuti sono “una mera condotta di acqua nel deserto”, perché la situazione sempre difficile, e non si guarda a lungo termine. “Vogliamo – afferma il “ministro degli Esteri” vaticano - costruire la pace in Siria? Allora dobbiamo iniziare a indirizzare significativi e adeguati ‘canali’ di risorse verso la costruzione di ospedali, scuole, case, fabbriche e la ripresa dell’economia. Le soluzioni esistono, ma la pace in Siria non si raggiungerà senza ricostruzione e senza una scossa per riavviare l’economia. Dobbiamo trovare un cammino per andare avanti”.

                                                FOCUS EUROPA

Russia, la preoccupazione dei vescovi per i nuovi regolamenti statali

In questa settimana, padre Stephan Lipke, segretario generale della Conferenza Episcopale Russa, ha sottolineato che i nuovi regolamenti daranno agli ufficiali di Stato russi poteri in più per poter intervenire nella vita della Chiesa, riportando così le lancette dell’orologio indietro alle restrizioni dell’era comunista.

Padre Lipke si riferisce agli emendamenti alla legge sulla Libertà di Coscienza e le Associazioni Religiose del 1997, approvati dalla Duma lo scorso 24 marzo. Gli emendamenti chiedono al clero estero di avere “una nuova certificazione da una organizzazione religiosa russa”, mentre gli stranieri già nel Paese sono esenti dalla richiesta. Inoltre, si chiede alle chiese di presentare ogni anno una lista dei propri membri al Ministero della Giustizia, e di evitare scissioni tra le grandi Chiese e le organizzazioni religiose locali.

Perché gli emendamenti diventino effettivi ci vorrà l’approvazione della Camera Alta. Tuttavia, già la proposta è fonte di occupazione. Padre Lipke ha notato come “le nuove misure vengono tutte dai tempi sovietici e ci portano indietro al sistema sovietico”. Perché le nuove norme da una parte assicurano che “il clero sia preparato alle condizioni in Russia”, ma dall’altra richiedono maggiore lavoro di fronte alla prospettiva che un qualunque ufficiale di Stato potrebbe dire che non ci si sta adeguando alla legge, dando così allo Stato “mezzi aggiuntivi per poter introdurre una nuova repressione”.

Ci sono problemi anche pratici: per esempio, l’unico gesuita russo in attesa di ordinazione si è formato all’estero. Sarà considerato come uno di quelli cui fornire una ricertificazione? Per fortuna, ha notato padre Lipke, i nuovi emendamenti non mettono fuori gioco i corsi online, cosa che potrebbe permettere ai sacerdoti di ottenere una certificazione mentre sono ancora nel mezzo dei loro studi.

                                                FOCUS AFRICA

Repubblica Centrafricana, il punto di vista del nunzio

L’arcivescovo Santiago De Wit Guzmàn, nunzio apostolico in Centrafrica, ha spiegato la situazione nel Paese in una intervista a Città Nuova alla vigilia dell’insediamento ufficiale del presidente Faustin-Archange Touadera, che è avvenuto il 30 marzo.

Secondo l’arcivescovo De Wit Guzman, “le decisioni politiche possono essere l’inizio di un cambiamento per il bene”. L’arcivescovo sottolinea che le violenze sono parte di “un problema politico”, perché “la Repubblica Centrafricana è un Paese che ha subito in questi ultimi anni la pesante influenza di tanti fattori nazionali ed internazionali che hanno contribuito alla sua destabilizzazione, ma non è mai stato un conflitto intercomunitario o religioso”.

Un Paese, aggiunge, penalizzato dalla negligente gestione di tanti anni e dall’instabilità politica. Situazioni che non hanno aiutato il consolidamento di una situazione regolare, a vari livelli. È vero che le elezioni si sono svolte in condizioni molto difficili, ma è anche vero che il presidente rieletto continua ad avere la sua legittimità politica, quindi c’è la volontà di rinnovare la fiducia nella sua persona, e penso che sia giusto”.

Ma, aggiunge l’inviato del Papa, “la soluzione al conflitto permanente che conosce la Repubblica Centrafricana non è responsabilità unica dal Governo: oltre al coinvolgimento di tutta la comunità internazionale, ogni cittadino deve prendere coscienza delle proprie responsabilità, dei propri obblighi nel fare quotidiano”.

L’arcivescovo De Wit Guzman nota che il viaggio del Papa nel Paese, sei anni fa, “ha suscitato tante forze positive, tanta volontà da parte di tutti di trovare una via di pace”, ma con il tempo “questa dinamica positiva si è andata perdendo; pian piano la situazione si è bloccata di nuovo, e i gruppi armati hanno ripreso il loro protagonismo. Penso, però, che nella memoria del Paese quel viaggio sia rimasto un fatto luminoso, straordinario”.

Eppure, aggiunge il nunzio, “tanti frutti positivi di quel viaggio esistono ancora oggi. Il Papa è stato molto colpito dalla situazione del Paese ed ha voluto contribuire con un bellissimo gesto: la fondazione di un Centro contro la malnutrizione estrema dei bambini”. Non solo: “Ha reso anche possibile che gli sfollati presenti a Bangui, che allora erano tanti, avessero la possibilità di trovare abitazioni adeguate e di riprendere una normalità nella loro vita, impossibile da immaginare nella loro precaria situazione”.

                                                FOCUS ECUMENISMO

Il Patriarca ortodosso serbo Porfirije incontra il nunzio Lingua

Dopo l’incontro con il nunzio in Serbia, l’arcivescovo Luciano Suriani, il nuovo patriarca ortodosso di Serbia Porfirije ha incontrato anche l’arcivescovo Giorgio Lingua, nunzio apostolico in Croazia. L’incontro è avvenuto a Zagabria lo scorso 29 marzo.

Secondo un comunicato del Patriarcato, “durante i cordiali colloqui, il nunzio Giorgio Lingua si è congratulato con il Patriarca Porfirije per la sua elezione, e il Patriarca ha augurato una Santa Pasqua al rappresentante del Papa in Croazia”.

Negli scorsi giorni, il Patriarca Porfirije, nella prima intervista ad un mezzo di informazione croato, aveva parlato di alcune lettere del Beato Cardinale Stepinac a Pio XII che lui definiva problematiche. Le dichiarazioni, non circostanziate, avevano provocato la dura replica di Monsignor Batleja, postulatore della causa di beatificazione. La Chiesa Ortodossa Serba si oppone da sempre alla canonizzazione di Stepinac, accusato di essere un collaborazionista dei nazisti. Papa Francesco ha prima convocato una commissione mista cattolico-ortodossa per discutere del tema, poi, al termine dei lavori, ha per ora preferito non procedere alla canonizzazione, nonostante ci sia già un miracolo riconosciuto.

                                                FOCUS MULTILATERALE

La Santa Sede alle Nazioni Unite di New York

Il 29 marzo, si è tenuta alle Nazioni Unite di New York l’11esima sessione del Gruppo di Lavoro sull’Invecchiamento. Per la Santa Sede, è intervenuto l’arcivescovo Gabriele Giordano Caccia, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite.

L’arcivescovo Caccia si è soffermato sulla dignità degli anziani, su anziani e occupazione e sull’impatto sproporzionato della pandemia da COVID 19 sugli anziani.

Il rappresentante della Santa Sede ha lodato gli sforzi di quanti “fanno spazio agli anziani” invece di scartarli e messo in guardia contro le pratiche di assunzione che discriminano i più vecchi. Inoltre, l’arcivescovo Caccia ha invitato a non considerare gli anziani solo con le lenti del lavoro retribuito, perché questo andrebbe a banalizzare i ruoli significativi che i parenti anziani giocano nella cura famigliare, che non è pagata.

L’arcivescovo Caccia ha anche incoraggiato a dare maggiore considerazione alla cura dei parenti anziani, perché questa troppo spessa è relegata a istituzioni, come si è notato durante la pandemia, con il boom di contagi in alcune strutture.

                                                FOCUS AMBASCIATE

L’ambasciatore di Cuba presso la Santa Sede presenta le lettere credenziali

Il 29 marzo, René Juan Mujica Cantelar, ambasciatore di Cuba presso la Santa Sede, ha presentato a Papa Francesco le sue lettere credenziali. Papa Francesco è stato due volte a Cuba durante il suo pontificato, prima nel viaggio verso gli Stati Uniti nel 2015, e quindi per incontrare il Patriarca Kirill nel 2016, andando verso il Messico.

Il nuovo ambasciatore, classe 1948, diplomato in Storia, lavora nelle relazioni internazionali dal 1967, con vari ruoli, e una particolare specializzazione sulle Nazioni Unite e i Paesi dell’America del Nord..

Prima di arrivare alla Santa Sede, aveva rappresentato Cuba in Belgio, Lussemburgo e Unione Europea (1996 – 2002), in Gran Bretagna e Irlanda del Nord (2005 – 2010), e presso la Repubblica Federale di Germania (2013 – 2017).

                                                FOCUS ASIA

Attentato alla cattedrale in Indonesia, la parola alla Chiesa

Dopo l’attentato di Domenica delle Palme in Indonesia nella chiesa di Makassar, il vescovo Augustinus Agus di Pontianak ha spiegato a Fides che attentati suicidi contro le chiese sono avvenuti diverse volte. C'è da chiedersi quale sia il disegno criminale. Tali incidenti non avvengono senza il sostegno finanziario o l'assistenza di reti o organizzazioni. Credo sia tempo che le agenzie di sicurezza dello Stato si muovano con decisione per combattere questo tipo di atti terroristici".

Parlando sempre con Fides, padre Heri Wibowo, Segretario esecutivo della Commissione interreligiosa nella Conferenza Episcopale dell'Indonesia, ha invece affermato che “nella società vanno promosse iniziative di armonia, allo stesso tempo le agenzie di sicurezza dello Stato dovrebbe adottare misure stringenti per de-radicalizzare i religiosi fondamentalisti che spesso diffondono discorsi di odio e incitano alla violenza contro altri gruppi religiosi".

Papa Francesco pianificava di andare in Indonesia nel 2020, in un viaggio che avrebbe toccato anche Timor Est e Papua Nuova Guinea.

Da ricordare che il sussidio di preghiera per la Settimana per la Promozione dell’Unità dei Cristiani è stata affidata nel 2019 proprio ad un gruppo di indonesiani.

L’Indonesia è il più grande Paese islamico del mondo, sebbene l’Islam della zona, l’Islam nusantara, è un particolare tipo di islam che incorpora cultura, tradizioni e sapienza locali, e considera i cattolici come parte integrante della storia indonesiana.

Myamar, la situazione

Il prossimo mercoledì, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si riunirà in emergenza per discutere della situazione del Myanmar. La convocazione del Consiglio avviene su proposta di Londra.

Da quando sono scoppiate le proteste, in Myanmar sono stati uccisi almeno 520 civili dalle forze di sicurezza che praticano la repressione. La Chiesa cattolica è sempre stata al fianco del popolo, mantenendo buoni rapporti istituzionali. Tuttavia, il Cardinale Charles Maung Bo ha visto anche la sospensione del suo account twitter.

La situazione è molto difficile, e rischia di vedere il coinvolgimento anche di tre organizzazioni ribelli formatesi su base etnica, che hanno dichiarato che se le forze di sicurezza "continueranno a uccidere civili, collaboreremo con i manifestanti e ci vendicheremo" con le armi.

Dall'indipendenza della Birmania nel 1948, una moltitudine di gruppi etnici sono stati in conflitto con il governo centrale per una maggiore autonomia, l'accesso a numerose risorse naturali o parte del lucroso traffico di droga.  

L'esercito aveva concluso un cessate il fuoco con alcuni di loro negli ultimi anni.

Ma lo scorso fine settimana la giunta ha effettuato attacchi aerei nel sud-est, prendendo di mira una delle principali fazioni armate, la Karen National Union (KNU), dopo che quest'ultima ha sequestrato una base militare, uccidendo soldati.  

Questi sono stati i primi attacchi di questo tipo in questa regione in 20 anni.

In questo contesto, circa 3.000 persone sono fuggite nella vicina Thailandia, hanno detto le organizzazioni locali.

FOCUS AMERICA

I vescovi al confine tra USA e Messico sulla situazione dei migranti

Lo scorso 1 aprile, i vescovi le cui diocesi si trovano ai confini degli Stati Uniti e del Nord del Messico hanno pubblicato una dichiarazione congiunta sulla situazione al confine tra le due nazioni.

Nel loro messaggio congiunto, i vescovi mettono in luce il dramma dei migranti, e spiegano che migrare per molti “non è indifferenza per la loro patria” o ricerca di maggiore ricchezza, ma piuttosto “questione di vita e di morte”, e che questo è “ancora più difficile per i bambini”.

I vescovi rimarcano che è vero che gli Stati hanno il “diritto di mantenere i confini”, perché è “vitale per la loro sovranità e autodeterminazione”, ma c’è anche “una responsabilità condivisa di tutte le nazioni di preservare la vita umana e fare in modo che l’immigrazione sia sicura, ordinata e umana, incluso il diritto di asilo”.

I vescovi si appellano ai governi, ai leader politici e alla società civile di “lavorare insieme per accogliere, proteggere, promuove e integrare i migranti”, incoraggiano “politiche supportate da fondamenti logici scientificamente sicuri”, a partire da quello che “l’unità delle famiglie deve essere un componente vitale di ogni risposta”, e dal fatto che la attenzione maggiore debba andare alle “popolazioni più vulnerabili, come sono i bambini”.

I vescovi chiedono riforme legislative che “promuovano una cultura di accoglienza per le nostre sorelle e i nostri fratelli, e allo stesso tempo rispettino la sovranità e sicurezza delle nostre nazioni”. Dal canto loro, i vescovi rinnovano l’impegno “a supportare gli sforzi dei nostri governi per proteggere e prendersi cura delle famiglie, così come per gli individui che si sentono costretti a emigrare”.