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Diplomazia pontificia, verso l’Urbi et Orbi di Pasqua

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Nel giorno di Pasqua, Papa Francesco pronuncerà dalla loggia delle benedizioni la consueta benedizione Urbi et Orbi, alla città e al mondo. Gli occhi dei diplomatici saranno tutti focalizzati sul discorso, perché, come per l’Urbi et Orbi di Natale, Papa Francesco si potrebbe focalizzare su alcuni temi caldi della diplomazia pontificia.

Nell’urbi et orbi di Natale, tra l’altro, Papa Francesco introdusse il concetto di fraternità, che fu poi centrale nel documento sulla Fraternità Universale firmato con il Grande Imam di al Azhar ad Abu Dhabi a febbraio. Quel documento è diventato anche parte dei regali che Papa Francesco fa ogni anno al corpo diplomatico.

Ma quali saranno i temi che potrebbe affrontare nell’Urbi et Orbi di Pasqua? Ci sono alcune situazioni che sembrano più urgenti oggi: la questione della Cina, il conflitto nello Yemen, la pace in Sud Sudan, la situazione in Nicaragua e Venezuela.

Nella prossima settimana, Papa Francesco incontrerà anche il presidente di Lettonia e il presidente serbo della presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina: la diplomazia pontificia toccherà così due situazioni completamente diverse.

La Santa Sede e la Cina

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Forse Papa Francesco non farà una menzione speciale alla Cina nell’Urbi et Orbi di Pasqua. Dopo l’accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, sono moltiplicati i rapporti dei missionari che denunciavano le autorità cinesi fare pressioni sui sacerdoti “non allineati” perché si iscrivessero all’Associazione Patriottica, controllata dallo Stato, che include tutti i vescovi cosiddetti ufficiali. Ma è anche vero che ci sono stati segnali di buona volontà da parte delle autorità cinesi. L’ultimo è stato dato dalla possibilità data al vescovo Guo Xijin, ausiliare di Mindong, di concelebrare la Messa del crisma insieme al vescovo Zhan Silou. Il vescovo Silou aveva preso il posto di ordinario dopo l’accordo provvisorio e dopo aver riguadagnato la comunione con Roma, mentre Guo era stato retrocesso ad ausiliare. Sembrava che le autorità cinesi non volessero concedergli il permesso di celebrare con insegne episcopali. E sembra che l’intervento del Vaticano abbia sanato la situazione.

La posizione della Santa Sede sulla Cina è stata spiegata dal Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, nella prefazione al volume “L’accordo tra Santa Sede e Cina. Il cattolicesimo cinese tra passato e futuro”, curato da Agostino Giovagnoli ed Elena Giunipero. È il primo testo dedicato all’accordo provvisorio del 22 settembre.

Il Cardinale Parolin ha spiegato che l’accordo del 22 settembre “è il frutto di un graduale e reciproco avvicinamento”, che è consistito anche nel comprendere la cultura cinese.

Di fronte ad uno Xi Jinping che usa il concetto di sinizzazione come un modo per mettere tutte le religioni sotto lo stesso ombrello (e sotto il controllo statale), il Cardinale Parolin contrappone la “sinizzazione” dei missionari, capaci di calarsi nella cultura del posto, sottolineando che la “sinizzazone del cristianesimo” è anche una delle sfide contemporanee.

Il Cardinale Parolin ricorda che le missioni cattoliche in Cina del XIX e XX secolo sono state condizionate “da problematiche connesse al colonialismo europeo”, e poi durante la Guerra Fredda, e in particolare con l’istituzione della Nuova Cina di Mao si sono prodotte “lacerazioni profonde, determinando anche il ricorso alla clandestinità per salvaguardare l’esistenza di diverse comunità cattoliche locali”.

L’accordo nasce da “una tenace volontà di dialogo”, ma non è un punto di arrivo, bensì “un punto di partenza, specie per quanto riguarda il definitivo superamento delle situazioni ereditate dal passato”.

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Scrive poi il Cardinale Parolin: “L’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese ha tra le sue finalità anche quella di favorire la collaborazione tra le due Parti, anzitutto sul terreno della pace mondiale e della cooperazione internazionale”.

Il segretario di Stato vaticano non nega – come già era stato fatto dal Cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli – che “anche oggi i problemi, le domande e le sollecitazioni che vengono dalla Cina interrogano l’intera Chiesa Cattolica e inducono ad approfondire il tema dell’unità dell’intera famiglia umana”.

Il cardinale Parolin circoscrive il caso cinese a “un dialogo tra soggetti sovrani e indipendenti”, che ha dunque portato “alla formalizzazione di un accordo” che “la Santa Sede ha condotto in piena armonia con le verità di fede professate dalla Chiesa cattolica e in fedele continuità con l’insegnamento di tutti i predecessori di Papa Francesco”.

È un tema che tocca anche la libertà religiosa, il diritto dei diritti per la Santa Sede, la cui applicazione si è però “sempre incontrata anche con i diversi comportamenti degli Stati nazionali e con la difesa dei loro concreti interessi economici, politici ed ideologici”.

Il Cardinale si è riferito anche alla lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi nel 2007, in cui veniva sottolineato che “anche la Chiesa cattolica che è in Cina ha la missione non di cambiare la struttura o l’amministrazione dello Stato, bensì di annunziare agli uomini il Cristo, Salvatore del mondo”.

La Chiesa, insomma, “si presenta non nella veste di chi pretende qualcosa per sé, ma in quella di chi chiede la libertà essenziale per portare al popolo cinese il bene del Vangelo.

Yemen, Venezuela, Nicaragua nell’Urbi et Orbi?

Papa Francesco ha spesso fatto riferimento al conflitto nello Yemen, di cui si mantiene continuamente informato. All’Angelus dello scorso 3 febbraio, Papa Francesco aveva fatto un accorato appello per lo Yemen, sottolineando che “la popolazione è stremata dal lungo conflitto e moltissimi bambini soffrono la fame, ma non si riesce ad accedere ai depositi di alimenti”, e questo appello non era rimasto senza conseguenze, aiutando in qualche modo, se non un processo di pace, l’apertura ad un canale di soccorsi. La situazione resta comunque critica.

Il Sud Sudan è anche oggetto delle attenzioni di Papa Francesco, che vi vorrebbe svolgere un viaggio ecumenico con il primate anglicano Justin Welby. Il 10 ed 11 aprile c’è stato un ritiro spirituale per la pace in Sud Sudan, e Papa Francesco ha chiesto di rimanere nella pace. La Santa Sede ha aperto un ufficio di nunziatura in Sud Sudan. L’attuale nunzio ha anche l’incarico di nunzio in Kenya ed è l’arcivescovo Hubertus van Megen. C’è comunque a Juba una chargée d’affairs dedicato solo al Paese africano.

Sembrano invece spenti i riflettori sul Venezuela, ma la Santa Sede continua a guardare con attenzione la situazione. Si è deciso di procedere senza clamori, mantenendo quel doppio binario tra impegno diplomatico e impegno pastorale che ha contraddistinto la politica della Santa Sede in Venezuela. Come tradizione, la Santa Sede non ha ma chiuso i rapporti diplomatici, ed ha anche inviato un officiale di rango inferiore, lo chargéè d’affairs Kovakook, all’installazione del nuovo governo Maduro. La prima preoccupazione resta una preoccupazione di tipo pastorale, per l’aiuto alla popolazione. Per questo, non è mai stata riconosciuta la presidenza ad interim di Juan Guaidò, senza però delegittimare il governo Maduro, compito questo lasciato alla conferenza episcopale locale.

Altra situazione calda, quella del Nicaragua. Recentemente, Papa Francesco ha richiamato a Roma il vescovo ausiliare di Managua José Silvio Baez. Il vescovo Baez era stato tra quelli più aperti nel criticare la presidenza Ortega. In varie interviste, Baez ha sottolineato di non aver chiesto lui di andare a Roma. La scelta diplomatica ha un doppio significato: da una parte, protegge il vescovo Baez, sempre oggetto di minacce; dall’altro, protegge il lavoro diplomatico della Santa Sede, molto delicato. L’arcivescovo Waldemar Sommertag, nunzio apostolico in Nicaragua, ha avuto un ruolo importante nella liberazione di alcuni prigionieri politici, ed è considerato una persona affidabile dal governo di Managua, e la presenza di una vescovo particolarmente critico ed esposto potrebbe mettere a rischio le trattative.

Alla vigilia della settimana santa, il cardinale Leopoldo Brenes, arcivescovo di Managua, ha paragonato il dolore di Maria, madre di Gesù, con il dolore delle madri nicaraguensi che hanno perso un familiare durante le proteste cominciate ormai un anno fa. Il cardinale ha chiesto di continuare a pregare per la riconciliazione nazionale, perché tutte le manifestazioni siano pacifiche e perché possiamo aiutare con gentilezza gli altri.

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La visita del presidente della Lettonia da Papa Francesco

Il prossimo 25 aprile, in vista della scadenza del suo mandato presidenziale, Raimond Vejonis, presidente della Lettonia, sarà in visita di congedo da Papa Francesco. Vejonis aveva accolto il Papa a Riga nell’ambito del viaggio nei Paesi Baltici che il pontefice ha compiuto a settembre 2018.

I rapporti diplomatici tra Santa Sede e Lettonia sono molto buoni, anche grazie al lavoro della Chiesa locale, che vive una ottima relazione ecumenica con le Chiese protestanti ed è protagonista di molte iniziative (si era persino pensato di creare una facoltà ecumenica presso l’Università Statale).

Fu il legato apostolico Achille Ratti, il futuro Papa Pio XI, a negoziare il primo concordato tra Lettonia e Santa Sede nel marzo 1920, mentre il 10 giugno di quell’anno la Santa Sede riconobbe la Lettonia de iure. Il concordato fu firmato il 30 maggio 1922 e ad ottobre arrivò il primo amministratore apostolico, l’arcivescovo Antonino Zecchini.

Fu nel 1925 che la Lettonia nominò il primo ambasciatore presso la Santa Sede nella persona di Hermanis Albats, al tempo segretario generale del Ministero degli Affari Esteri. Il nunzio Antonino Arata successe all’arcivescovo Zecchini, morto nel 1935. Ma nel 1940, le relazioni diplomatiche furono unilateralmente interrotte dall’Unione Sovietica, che aveva illegalmente incorporato il territorio della nazione. La Santa Sede non riconobbe mai l’annessione.

Nel concistoro del 2 febbraio 1983, Giovanni Paolo II creò cardinale Julijans Vaivods, che fu il primo cardinale proveniente dall’Unione Sovietica. Quando nel 1991 la Lettonia riconquistò l’indipendenza, la Santa Sede riconobbe subito il nuovo Stato e già ad ottobre furono ripristinate le relazioni diplomatiche. Alla nomina del nunzio Justo Mullor Garcia fece seguito nel 1993 la nomina di Aija Odina come ambasciatore presso la Santa Sede.

Un accordo tra Lettonia e Santa Sede, sulla scia di quello già siglato nel 1922, fu firmato l’8 novembre 2000. L’accordo fu ratificato il 25 ottobre 2002

Il membro serbo della presidenza di Bosnia visiterà Papa Francesco il 26 aprile

Il presidente di turno della presidenza tripartita bosniaca Milorad Dodik si recherà il 26 aprile in visita da Papa Francesco. Secondo Igorn Crnadak, ministro degli Esteri di Bosnia, si tratterà “di una visita ufficiale”. L’annuncio ha suscitato reazioni negative da parte di rappresentanti delle associazioni delle vittime di guerra. Queste intendono rivolgersi alla nunziatura di Bosnia per chiedere di “riferire a Papa Francesco delle posizioni vergognose di Dodik, in primo luogo per quanto riguarda la glorificazione dei criminali di guerra e la negazione del genocidio”.

Dodik è uno dei tre presidenti che compongono la presidenza dello Stato, e rappresentano le tre etnie principali: quella bosgnacca (musulmana), quella serba (ortodossa) e quella croata.

Milorad Dodik aveva ottenuto il 55 per cento dei voti. Gli altri presidenti sono Šerif Džaferovic per il gruppo bosgnacc e Željko Komšic per il gruppo croato. Questi non è stato eletto con il voto dei croati, bensì da quello dei musulmani, grazie ad uno stratagemma permesso dalla legge elettorale e organizzato dalla dirigenza dell’SDA, dimostratosi vincente già nel 2006 e nel 2010.

L’assenza di un rappresentante croato crea delle tensioni, e da tempo i cattolici croati sono protagonisti di un esodo silezioso, più volte denunciato dal Cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo, che ha chiesto anche “eguale cittadinanza” per tutti.

Di questa situazione politica, a farne le spese è stato l’ambasciatore Gelo, non un diplomatico di carriera, che però già veniva dalla rappresentanza della Bosnia in Italia: questi è stato ambasciatore presso la Santa Sede solo da novembre 2018 a febbraio 2019.

Santa Sede e Bosnia Erzegovina hanno relazioni diplomatiche dell’anno dell’indipendenza di Sarajevo nel 1992.

Santa Sede e Bosnia hanno avuto difficili relazioni nel Medioevo, a causa della forza e della volontà di indipendenza della Chiesa bosniaca. Papa Onorio III e Gregoro IX predicarono persino una guerra contro la Bosnia, che culminò nella Crociata Bosniaca del 1235. Nel XV secolo, le relazioni tra Bosnia e Santa Sede migliorarono, tanto che Pio II inviò la corona da utilizzare per l’incoronazione del re Stephen Tomasevic nel 1461.

Le relazioni furono interrotte nel 1463, quando la Bosnia divenne parte dell’Impero Ottomano, e ripresero formalmente solo nel 1992, quando la Santa Sede fu tra le prime nazioni a riconoscere l’indipendenza e tra le prime a stabilire con essa relazioni diplomatiche.

Nel giugno 2007, la Camera dei Deputati di Sarajevo bloccò il progetto di un accordo con la Santa Sede sostenendo che si sarebbero dovuti regolare prima le relazioni con la Chiesa Ortodossa Serba. Nonostante sia stato fatto notare che si trattava di due diversi tipi di relazioni – la Chiesa Ortodossa Serba è una comunità religiosa, non uno Stato – i membri serbi del Parlamento fecero blocco compatto nel bloccare l’accordo.

Solo il 20 agosto 2007 l’accordo fu ratificato. Con l’accordo, si riconosceva la personalità giuridica pubblica della Chiesa Cattolica in Bosnia e si garantivano una serie di diritti, tra cui il riconoscimento delle vacanze cattoliche.

Giovanni Paolo II avrebbe voluto visitare Sarajevo nel 1994, durante l’assedio di Sarajevo, ma questo non fu possibile a causa delle condizioni di sicurezza. Giovanni Paolo II poté andare nella capitale della Bosnia solo nel 1997 dopo la guerra, e Momcilo Kraiisnik, membro serbo della presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina, rifiutò di accogliere Giovanni Paolo II all’aeroporto internazionale di Sarajevo, sottolineando che i cristiani ortodossi non riconoscono i Papi. Krajisnik incontrò Giovanni Paolo II due giorni più tardi, insieme agli altri membri della presidenza.

I membri della presidenza tripartita Mirko Sarovic, Sulejman Tihic e Dragan Covic visitarono Giovanni Paolo II nel 2003, e Sarovic, membro serbo, invitò Giovanni Paolo II a visitare la Bosnia di nuovo. Giovanni Paolo II visitò Banja Luka nel giugno successivo, e fu una delle accoglienze più fredde abbia mai ricevuto.

Papa Francesco ha visitato Sarajevo il 7 giugno 2015.

La Santa Sede all’ONU di New York: la difesa delle persone anziane

Il 15 aprile, si è tenuta alle Nazioni Unite una sessione del gruppo sull’Invecchiamento su “Misure per accrescere la promozione e la protezione dei diritti umani delle persone anziane”. È intervenuto anche l’arcivescovo Bernardito Auza, osservatore permanente della Santa Sede presso l’ufficio ONU di New York.

Nel suo intervento, l’arcivescovo Auza ha detto che l’esclusione delle persone anziane deve terminare, e un modo di porre fine a questa esclusione è con l’avanzamento dei loro diritti umani e il riconoscimento del loro contributo.

L’arcivescovo Auza ha lodato l’attenzione che viene data alla loro educazione e al loro apprendimento costante, che va di pari passo all’attenzione data per la protezione e la sicurezza speciale, “specialmente in un contesto in cui la loro protezione e sicurezza è negata da alcuni che li considerano come membri della società che sono di peso, improduttivi ed inutili.

Questa visione degli anziani si nota “in particolare nelle sinistre pratiche dell’eutanasia e del suicidio assistito, che la Santa Sede condanna fermamente”. La Santa Sede sottolinea che non c’è bisogno di una nuova convenzione per i diritti dei più anziani, quanto piuttosto “assicurare e promuovere i diritti che sono già nella legge internazionale, in particolare nei momenti vulnerabili di malattia e fragilità”.